lunedì 20 aprile 2015

Dacci oggi il nostro pane quotidiano...



Si è concluso domenica a Firenze il convegno "Per sora nostra Madre Terra", iniziato venerdì per il trentennale di «Biblia», associazione laica di cultura biblica presieduta da Piero Stefani. Sono intervenuti fra gli altri il filosofo Sergio Givone, il fondatore del gruppo Abele don Luigi Ciotti, i biblisti Daniel Marguerat, Jean Luis Ska e Romano Penna, il critico letterario Carlo Ossola, l’ex-magistrato Gherardo Colombo, l’ambientalista Grazia Francescato, il giornalista Pietro Greco, la monaca Stefania Monti. 

Sul tema del «pane quotidiano» si sono confrontati Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose, e Carlo Petrini, presidente di Slow Food. Di seguito il testo degli interventi.




Enzo Bianchi: Pane bene necessario anche per il Regno

Sappiamo che al cuore del Padre nostro sta proprio la richiesta del pane espressa con fiducia al Padre: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano». Dopo le grandi richieste a favore di Dio, eccone una semplice, quotidiana, che riguarda noi esseri umani nella condizione di creature bisognose di mangiare per vivere. L’umiltà di questa domanda, se messa a confronto con l’ampio respiro delle altre sei, potrebbe stupirci ma è proprio questa che illumina tutte le altre. La domanda del pane è eminentemente contemplativa: è il modo con cui il credente afferma la signoria di Dio sulle realtà create; è l’atteggiamento di chi sa di non poter disporre della propria vita, ma riconosce di riceverla sempre e solo all’interno di una relazione; è la maniera con cui il credente elabora il suo bisogno in desiderio ponendolo davanti a Dio e sottraendosi così alla tentazione del possesso. 

In Matteo e in Luca questa domanda è identica nell’essenziale, nell’oggetto richiesto, ma nella sua formulazione si registrano alcune differenze. In Luca i termini usati esprimono l’idea di un’azione durevole e contengono la precisazione «il nostro pane, quello di ogni giorno», ovvero la richiesta a Dio di rinnovare ogni giorno il dono. In Matteo invece lo stesso verbo è usato in una forma che indica un’azione puntuale, in sé compiuta, come dimostra anche la specificazione temporale "oggi". 

Ma la vera difficoltà è costituita dalla comprensione dell’aggettivo con cui entrambi gli evangelisti definiscono il pane: epioúsios, termine che, stando a Origene, «non viene citato da nessun scrittore greco né da alcun filosofo e non è nemmeno usato nella lingua parlata dal popolo, ma sembra essere stato coniato dagli evangelisti». Le discussioni sul suo significato sono state molte, dall’antichità fino ai giorni nostri, ma possiamo riassumerle attorno a due possibili interpretazioni di questo pane "quotidiano": il pane «essenziale, necessario per la sussistenza quotidiana», oppure il pane «celeste, sovra-essenziale, il pane del Regno».

Si chiede innanzitutto a Dio il pane di cui l’uomo ha bisogno per vivere. Anche il credente, come tutti, è abitato dal bisogno di vivere, dal bisogno degli altri, dal bisogno di non essere preda del male: sono questi i tre bisogni materiali, reali ed esistenziali che troviamo espressi nella seconda parte del Pater, primo tra tutti quello del pane. Nel nostro occidente oggi la maggioranza della popolazione non conosce più la fame né, di conseguenza, il bisogno assillante del pane. Chi però pratica almeno un poco il digiuno - pur avendo comunque la possibilità di interrompere il digiuno, poiché il pane è sempre a portata di mano - sa che cosa significhi la mancanza di cibo: tutto il nostro corpo, tutta la nostra persona è toccata da questo bisogno, è questo bisogno. 

Chiedere a Dio il pane è dunque innanzitutto una presa di coscienza della nostra realtà: siamo esseri che hanno bisogno di nutrirsi per vivere. Il "pane" inoltre - Gesù non dice «cibo»! - è ciò che abbiamo seminato, fatto crescere, raccolto, trasformato in farina, impastato e cotto; è frutto della terra lavorata dall’uomo, della cultura dunque, e, nel contempo, è un dono del Padre: lui ci ha dato la vita, lui ce la dona ogni giorno mediante il pane! Chiedere il pane per oggi significa allora confessarsi creatura, figlio del Padre, significa credere nella vita…
Con questa richiesta, inoltre, si inizia a pregare alla prima persona plurale: si dice «nostro pane», lo si invoca per tutti, per sé insieme agli altri, a indicare che anche il pane, soprattutto il pane deve testimoniare la nostra filialità nei confronti di Dio e la fraternità che ci accomuna. 

È così che nella prima comunità cristiana «i credenti tenevano ogni cosa in comune» (At 2,44; cf. 4,32) e «a ciascuno veniva dato secondo il suo bisogno» (At 4,35). Era proprio questa concreta condivisione che, unita alla fede, permetteva ai cristiani di essere «un cuore solo e un’anima sola» (At 4,35): e tutto trovava una sintesi proprio nel gesto della fractio panis (At 2,44), che recava in sé la valenza eucaristica ma anche quella del pane quotidianamente spezzato e condiviso.
Ma dicevamo che il pane epioúsios può essere inteso anche come «pane del Regno». Chiedendo il pane necessario per vivere si chiede infatti anche quel pane di cui l’uomo vive oltre il pane: «non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4; cf. Dt 8,3). Si tratta del pane della Parola di Dio e dell’eucaristia, quel «pane vivo disceso dal cielo» (Gv 6,51) che è Gesù Cristo stesso, secondo l’interpretazione dei padri della chiesa indivisa. 

Purtroppo fame di pane e fame di Parola di Dio nell’attuale contesto socio-culturale sono poste in concorrenza, nel senso che il soddisfacimento della prima sembra impedire la seconda, perché «l’uomo nel benessere non comprende» (Sal 49,21)! Ma un vero credente sa assumere ogni giorno la fame di pane e, nella gratitudine a Dio che lo esaudisce, sa condividerlo con gli altri; nello stesso tempo, chiedendo al Padre il pane quotidiano, si apre a leggere il proprio bisogno della sua Parola vivente, Gesù Cristo, per camminare nella fede verso il Regno.

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Carlo Petrini: Pane diritto per tutti, non una merce

«Dacci oggi il nostro pane quotidiano» è un’esortazione che, pur trovandosi all’interno della principale preghiera cristiana, chiama in causa ciascun abitante del nostro pianeta, indipendentemente dalle sue sensibilità religiose. Il cibo, il nutrimento del corpo che è anche nutrimento della mente, del cuore e dello spirito, è ciò di cui tutti abbiamo bisogno per essere vivi e per vivere pienamente le nostre esistenze. Questa può apparire forse un’affermazione banale, una tautologia retorica, ma non dobbiamo dimenticarci che il mondo in cui viviamo oggi, nell’epoca della comunicazione, del mercato globale e di un pianeta interconnesso come mai nella storia, ancora non dà l’adeguato pane quotidiano a quasi un miliardo di persone in tre continenti.

Con una produzione alimentare capace per quantità di nutrire 12 miliardi di esseri umani, 800 milioni dei 7,3 miliardi che siamo non ha ancora accesso a un adeguato livello di alimentazione, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo e culturale. Immediatamente sorge spontaneo chiedersi il perché questo succeda, che cosa non funzioni in un sistema che noi in occidente percepiamo come opulento e grasso, dove si è finalmente nell’epoca della libertà dal bisogno e dalla necessità, almeno dal punto di vista alimentare (anche per quanto riguarda il ricco occidente ci sarebbe comunque da fare alcuni distinguo e certo le situazioni critiche non mancano).

Bene, ciò che non possiamo nasconderci è che questo sistema alimentare è un sistema fallimentare, almeno nelle sue derive recenti. Un sistema che in nome del dogma del libero mercato, che libero nella sostanza non è, affama proprio coloro che producono il cibo, accaparrandosi risorse non rinnovabili e comuni per metterle a frutto come un qualunque input industriale. A questo proposito basti pensare alla corsa alla terra che le grandi multinazionali e i fondi di investimento stanno realizzando a discapito di molti paesi africani, di vaste aree dell’est europeo, dell’America latina o di ampie porzioni del sudest asiatico. 

Oppure alla continua spinta verso la privatizzazione dell’acqua che, nonostante casi di resistenza popolare e comunitaria vincente come nel celebre ma ormai un po’ datato episodio di Cochabamba in Bolivia, in cui la comunità tutta si oppose vittoriosamente al progetto di privazione della gestione del servizio idrico locale da parte di una multinazionale con l’avallo della Banca Mondiale, non accenna ad arrestarsi nella pratica e nella teoria. Siamo intossicati dalla retorica per cui l’affidamento al privato, al capitale, sia l’unico modo di rendere efficiente e poco costoso l’accesso alle risorse primarie e ai servizi essenziali. Non è così, gli Stati non possono abdicare alla funzione per cui, per andare proprio al nocciolo, sono nati. Se non contrastiamo questa logica e questo preconcetto non possiamo dare un futuro al nostro cibo e al nostro pianeta.

Il meccanismo di accaparramento e di concentrazione di potere e risorse in atto, infatti, fa sì che il cibo sia diventato a tutti gli effetti una qualunque merce prodotta utilizzando input come qualsiasi processo manifatturiero. Ma c’è almeno una enorme differenza. Acqua e suolo sono beni comuni, risorse non rinnovabili che noi abbiamo il dovere di riconsegnare intatte ai nostri figli e che non possiamo sperperare né distruggere in nome di una miope visione di corto raggio. E poi il cibo non può per sua stessa natura essere una merce poiché è ciò che consente all’uomo di vivere. Il cibo è semmai un diritto inalienabile (sancito già nel Patto Iìinternazionale sui Diritti economici, sociali e culturali del 1966, sottoscritto da 145 Paesi) e troppo spesso, nella pratica, alienato.

Questo è il vero nodo. D’altronde anche qui pare di dire cose scontate: il cibo da sempre ha rappresentato per tutti i popoli e tutte le culture molto più del carburante necessario alla vita, al contrario il cibo è la mediazione con il sacro, è strumento e metronomo di relazioni sociali, di ritualità e di costruzione di senso comune, è definizione e disegno di spiritualità. Come coniugare questa complessità e questa profondità in un’epoca in cui la produzione mette tra loro contro la quota per consumo umano, quella per la nutrizione animale e addirittura la parte destinata a diventare carburante combustibile?

L’umanità oggi deve domandarsi che cosa voglia che sia quel pane quotidiano cui tutti anelano, come vuole che venga prodotto e da chi, a quale costo per la nostra terra madre e per le generazioni che verranno dopo di noi. È una domanda epocale, cui nessuno può e deve sottrarsi. La risposta è complessa, piena di contraddizioni e di lacune, ma il suo inseguimento è l’unica cosa che può dare senso al nostro agire responsabile.
Avvenire