venerdì 17 aprile 2015

In bilico sulla sedia gestatoria

Giovanni XXIII e i tre anni che precedettero il concilio nel diario di padre Roberto Tucci, direttore in quegli anni della «Civiltà Cattolica» 

Card. Roberto Tucci - P. F. Lombardi
NdR. Nel giorno dei funerali del cardinale gesuita Roberto Tucci, per onorare ancora la sua memoria e la sua eredità, riproponiamo un testo de "La Civiltà Cattolica", della quale il cardinale fu direttore, pubblicato il 19 ottobre 2012 sull'Osservatore Romano.
(Giovanni Sale) Anticipiamo stralci di uno dei saggi contenuti nel numero in uscita della rivista «La Civiltà Cattolica» --Nell’udienza del 7 giugno 1960 Giovanni XXIII si intrattenne a parlare, con il direttore della «Civiltà Cattolica», padre Roberto Tucci, della preparazione del concilio: a quella data era già terminata la fase ante-preparatoria e il Papa aveva già nominato le commissioni incaricate di redigere gli schemi da portare al concilio: «È intenzione del Papa — scriveva padre Tucci — convogliare nello sforzo della preparazione non solo la Curia romana, ma un poco tutta la Chiesa; osserva che spesso all’esterno ce l’hanno con la Curia romana, quasi che la Chiesa sia tutta in mano ai “romani”; ci sono tante belle energie anche altrove e perché non cercare di impegnarle?».
Accennava poi alla sua condizione di «prigioniero di lusso» in Vaticano e all’eccessivo fasto e cerimoniale che attorniavano la sua persona. «Non ho nulla contro queste buone guardie nobili — confidò il Pontefice — ma tanti inchini, tante formalità, tanto fasto, tanta parata mi fanno soffrire, mi creda. Quando scendo [in basilica] e mi vedo preceduto da tante guardie, mi sento come un detenuto, un malfattore; e invece vorrei essere il bonus pastor per tutti, vicino al popolo». Il Papa non è un sovrano di questo mondo. Racconta come gli dispiacesse all’inizio di essere portato in sedia gestatoria attraverso le sale, preceduto da cardinali spesso più vecchi e cadenti di lui (aggiungendo che poi non era neppure molto rassicurante per lui, perché in fondo si sta sempre un po’ in bilico).
Con il passare dei mesi nella mente del Papa si andavano facendo sempre più netti e chiari i criteri che avrebbero dovuto indirizzare il cammino della Chiesa ormai proiettata verso l’imminente concilio: desiderava che il vecchio spirito controversistico (frutto di una certa cultura intransigente) cedesse il passo ad un atteggiamento più fraterno e misericordioso nei confronti dei lontani, degli erranti, di tutti gli uomini che cercano la verità.
Nell’udienza del 30 dicembre 1961 Giovanni XXIII espresse al direttore della «Civiltà Cattolica» rammarico e scontento nei confronti di un articolo di padre Antonio Messineo, commissionatogli dal Sant’Uffizio, contro Giorgio La Pira per le sue posizioni in materia politica, considerate troppo indulgenti, o ingenuamente ottimistiche, nei confronti delle sinistre. «Non si scrive così contro un cattolico praticante e di rette intenzioni — disse il Papa a Tucci — anche se un po’ matto e talvolta con idee non ben fondate dottrinalmente».
Un mese prima anche il nuovo segretario di Stato, cardinale Amleto Giovanni Cicognani (succeduto a Tardini), aveva espresso disappunto per l’articolo di padre Messineo, impedendone la pubblicazione nella rivista. Egli inoltre disse di disapprovare alcuni atteggiamenti di recente tenuti dal cardinale Alfredo Ottaviani, pro-segretario della Congregazione del Santo Uffizio, «che ama — disse il cardinale — le sortite e gli attacchi, facendo rilevare che il Santo Padre ha chiaramente manifestato che questo non è il suo tono e che quindi una persona così in alto deve adeguarsi a questa che è la caratteristica di un pontificato; personalmente il cardinale pensa che in sé questo metodo più distensivo sia il migliore».
In quella stessa udienza il Papa si lamentò delle critiche rivoltegli anche da alcuni ambienti ecclesiastici per aver risposto al messaggio augurale inviatogli dal presidente dell’Unione Sovietica, Nikita Krusciov, e aggiunse: «Il Papa non è un ingenuo, sapeva benissimo che il gesto di Krusciov era dettato da fini politici di propaganda; ma sarebbe stato atto di scortesia non giustificata non rispondere; la risposta però era calibrata. Il Santo Padre si lascia guidare dal buon senso e dal senso pastorale».
Successivamente, in altro contesto e una volta iniziato il concilio, Giovanni XXIII (udienza del 9 febbraio 1963) esprimerà un giudizio ponderato nei confronti del presidente dell’Unione Sovietica, definendolo un buon uomo, non cinico come spesso si dice e «animato da buoni propositi», anche se, affermava, rimane fermo «su princìpi del tutto opposti ai nostri». Egli infatti aveva permesso che i vescovi cattolici appartenenti a Paesi del Patto di Varsavia giungessero a Roma al concilio e, come segno di buona volontà, facendo seguito a un desiderio del Papa, aveva permesso la scarcerazione del Metropolita della Chiesa greco-cattolica ucraina, Josyf Slipyi.
Nell’udienza del 30 dicembre 1961 il Papa si lamentò, inoltre, che alcuni detrattori lo accusassero di «spirito distensivo» e disse di non essersi mai «distaccato anche in un punto solo dalla sana dottrina cattolica» e che chi lo accusava di questo avrebbe dovuto portarne le prove. «Se la prende poi — annotava Tucci — con i “tipi zeloti” che vogliono sempre dare botte e fendenti. Ci sono sempre stati nella Chiesa e ci saranno sempre, e ci vuole pazienza e silenzio!».
Nel discorso Gaudet mater Ecclesia tale “figura” verrà poi riformulata con la felice espressione “profeti di sventura” che vedono dappertutto il male e annunciano solo eventi infausti: evidentemente nella mente di Giovanni XXIII già a quella data questa immagine era presente e carica di grande significato.
Trattando poi della politica italiana, il Papa diede al direttore della «Civiltà Cattolica» indicazioni molto forti e impegnative. «Il Papa desidera — annotava padre Tucci — una linea di minore impegno nelle cose della politica italiana». Parlando specificamente della rivista, disse che «non è necessario che sia sempre “La Civiltà Cattolica” a intervenire per ogni questione. La Chiesa ha anche altri mezzi per farsi sentire, se lo ritiene necessario». Il Papa disse, inoltre, bonariamente ma decisamente, di non apprezzare molto lo spirito militante, intransigente della rivista e chiese che si adattasse nello stile e nei contenuti ai tempi nuovi. Citando un commento di un suo amico, disse: «I buoni padri della “Civiltà Cattolica” per ogni cosa giù lacrime e lacrime! E che cosa hanno ottenuto?». «Bisogna vedere il bene e il male — commentò — e non essere sempre pessimisti su ogni cosa».
Negli ultimi mesi, prima della fine della lunga fase preparatoria, Giovanni XXIII era impegnato nell’attenta lettura degli schemi redatti dalle Commissioni preparatorie, prima che venissero inviate ai Padri conciliari. Nei mesi estivi, infatti, sette importanti schemi (tra i quali quello sulla liturgia, sulle fonti della rivelazione, sull’unità della Chiesa, sulle comunicazioni sociali) furono mandati ai vescovi e ad altri aventi diritto a partecipare al concilio.
Molte delle reazioni inviate al Papa da alcuni importanti vescovi residenziali (ad esempio, il cardinale Léger, il cardinale Suenens e altri) esprimevano insoddisfazione per il lavoro svolto a Roma nel più stretto riserbo, sottolineando il divario tra le prospettive indicate in diverse occasioni dallo stesso Pontefice e l’orientamento degli schemi inviati, ad eccezione di quello sulla liturgia che aveva in buona parte recepito le istanze rinnovatrici del cosiddetto movimento liturgico.
Anche Giovanni XXIII non era molto soddisfatto degli schemi preparati, e di questo fece parola al direttore della «Civiltà Cattolica» nell’udienza del 27 luglio 1962. Il Papa, annotò padre Tucci, «mi ha fatto vedere alcune sue note marginali ai testi: sulla lunghezza dei periodi, sul fatto che si citi il Sant’Uffizio in un documento conciliare, sul linguaggio troppo tecnico e sulle note troppo abbondanti in qualche testo (la liturgia, ad esempio); su un testo in cui si enumeravano per una pagina e mezzo solo errori (...sunt qui, sunt qui), notando che ci vorrebbe meno durezza. Mi ha anche detto che ha dovuto far presente che intendeva revisionare i testi prima che fossero inviati ai vescovi; che non l’avevano tenuto in conto da principio, per cui già alcuni testi erano stati inviati senza che egli li potesse vedere». Ritornando alla materia politica, ricordiamo che in quel tempo tra i cattolici italiani, nonché tra gli stessi leader della Democrazia cristiana, si dibatteva sulla necessità o meno di accettare la «collaborazione» al Governo dei socialisti di Nenni. Tale prospettiva, auspicata da alcuni uomini politici influenti, tra cui Amintore Fanfani e Aldo Moro, era molto criticata dal presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Giuseppe Siri, e anche da molti prelati della Curia, in primis dal pro-segretario del Sant’Uffizio. L’amministrazione statunitense seguiva la questione con grande apprensione e spingeva il suo ambasciatore in Italia a fare il possibile per impedire l’allargamento della compagine governativa alla sinistra. A quel tempo molti cattolici ritenevano che, dal punto di vista ideologico e politico, tra la posizione dei socialisti e quella dei comunisti non ci fosse in pratica molta differenza, per cui accettare la collaborazione dei primi significava implicitamente accogliere anche i secondi.
«Occorre stare molto attenti — confidava il Papa a padre Tucci — perché oggi i politici anche democristiani cercano di tirare la Chiesa dalla loro parte e finiscono per servirsi della Chiesa per finalità non sempre altissime (...). Io non me ne intendo, ma francamente non capisco perché non si possa accettare la collaborazione di altri che hanno diversa ideologia per fare cose in sé buone, purché non vi siano cedimenti sulla dottrina».
In questo modo il Papa, senza compromettersi troppo, autorizzava implicitamente la collaborazione tra cattolici e socialisti in vista della realizzazione del bene comune, andando contro il parere di alcuni eminentissimi prelati: la lunga stagione della contrapposizione ideologica tra cattolici e «comunisti» (segnata da reciproci e aspri attacchi, nonché da anacronistici atti d’intolleranza), che aveva caratterizzato gli ultimi decenni della storia politica nazionale, stava ormai volgendo al termine.
La posizione realista del Papa in materia politica facilitò di fatto negli anni successivi lo spostamento a sinistra del quadro politico nazionale. Tale atteggiamento «morbido» tenuto dal Papa nei confronti delle ragioni della sinistra, e in particolare il suo costante invito ai «pastori» e ai responsabili ecclesiali di prendere le distanze dalla politica di partito e di non farsi soggiogare dalle illusorie e vane promesse dei politici di professione, ebbe già nell’immediato effetti concreti.
Va però anche ricordato che il punto di vista del Pontefice sulla delicata questione dell’apertura a sinistra dei cattolici fu abilmente strumentalizzato — grazie al massiccio impegno della stampa cosiddetta progressista — da coloro che erano impegnati in tale progetto, per orientare in questo senso il quadro politico nazionale. Di fatto, molti cattolici, soprattutto quelli più sensibili alle problematiche sociali, si sentirono liberi di sganciarsi da vecchie appartenenze partitiche e di indirizzare il loro voto a sinistra.
Nelle elezioni politiche dell’aprile 1963, la Democrazia cristiana subì una sconfitta elettorale significativa, passando dal 42,2 per cento al 38 cento dei suffragi, mentre i comunisti guadagnarono circa un milione di voti. Tale risultato elettorale creò un certo panico all’interno del mondo cattolico e anche negli alleati laici dei democristiani al Governo. In molti ambienti, anche ecclesiastici, si addossò parte della responsabilità della vittoria dei comunisti all’atteggiamento «transigente» assunto da Giovanni XXIII in materia politica, negli ultimi tempi.
Secondo una prospettiva storica più ampia, tale risultato elettorale va invece interpretato all’interno del processo di secolarizzazione, che investì la società italiana a partire dagli inizi degli anni Sessanta, e cioè gli anni del cosiddetto «miracolo economico», che impose nuovi stili di vita e creò nuovi modelli di appartenenza. Delle reazioni da parte ecclesiastica all’indirizzo giovanneo in materia politica parlò in un importante incontro — avvenuto l’8 giugno 1963, cinque giorni dopo la morte del Pontefice e a poco più di due mesi dalle elezioni di aprile — il cardinale segretario di Stato con padre Tucci. Cicognani disse che «il Papa avrebbe dovuto avere la mano più forte con queste opposizioni, ma ha soggiunto che Giovanni XXIII, invitato a prendere provvedimenti, rispondeva: “Gesù non farebbe così, non è il suo spirito; non darei edificazione intervenendo; occorre avere pazienza e attendere; non si farebbe che suscitare divisioni e rancori”».
  
L'Osservatore Romano