giovedì 2 aprile 2015

Oltre le sbarre



Parla il cappellano del carcere romano di Rebibbia dove il Pontefice celebra la messa «in coena Domini».

(Maurizio Fontana) «Il Giovedì santo di Papa Francesco a Rebibbia sarà importante per i detenuti, ma forse ancora di più per chi è fuori». Sorride don Pier Sandro Spriano, cappellano del carcere romano, consapevole dell’affermazione un po’ spiazzante. Dietro l’apparente paradosso si nasconde quello che per lui è l’aspetto più importante della messa «in coena Domini» che il Pontefice celebra nel pomeriggio di giovedì 2 aprile.
«I cristiani — spiega al nostro giornale — non hanno ancora compreso che anche all’interno del carcere c’è una Chiesa. Non una chiesa di mattoni, ma una Chiesa di uomini e donne, che prega, celebra, riflette, ascolta la parola di Dio e vorrebbe annunciare all’esterno il concetto di giustizia che esprime il Vangelo». Non l’«occhio per occhio, dente per dente» al quale si fa riferimento nel mondo comune. Invece «la giustizia del Vangelo pensa a punire se è necessario, ma nel contempo anche a salvare il colpevole». Venticinque anni (su cinquanta di sacerdozio) di servizio pastorale all’interno del carcere hanno consolidato in lui una convinzione: «Se oltre a punire chi commette un reato, io non lo curo, questa persona tornerà a delinquere più di prima». Per questo spera che da questa celebrazione emerga un «segnale forte per dire che il reato, il male, non annulla la possibilità di essere cristiani, ma nemmeno annulla la possibilità di essere annunciatori di una giustizia nuova, così come la predica il Vangelo». E il primo scopo della giustizia evangelica è quello di «ricomporre», di «ricostruire» la persona.
Proprio a questo si dedica il gruppo guidato da don Spriano: quattro cappellani ufficiali, tredici preti volontari, ventidue seminaristi e un centinaio di volontari della Caritas (sono quelli del Vic, Volontari in carcere, fondato dallo stesso cappellano). Ai detenuti viene proposto un cammino celebrativo di preghiera e di catechesi: si pensi che in carcere c’è una partecipazione alla messa del trenta per cento.
Quello dei volontari cattolici è un lavoro prezioso nella complessa realtà di Rebibbia: quattro istituti penitenziari, tre maschili e uno femminile, circa 1.900 uomini e 350 donne, il 36 per cento dei detenuti è straniero (da un’ottantina di Paesi). Sono più di quanti il carcere potrebbe accogliere, ma secondo il cappellano il sovraffollamento non è il primo dei problemi. Quello vero è che ci si accontenta di seguire solo il dettato della Costituzione, che impone, per un certo tempo, di allontanare dalla società chi ha commesso dei reati. Ma per il recupero delle persone, il carcere fa poco. Ecco allora che diventa fondamentale la presenza della Chiesa. «Noi — ci spiega — riusciamo a confrontarci con la singola persona affinché questa possa essere, come dice la legge, stimolata a rivedere il suo passato deviante». In questo i volontari sono aiutati anche dal fatto di non avere obblighi istituzionali: non partecipano ai consigli di disciplina, non danno giudizi al magistrato. I detenuti lo sanno. E trovano in loro un appiglio, la possibilità di una speranza. Parte allora il dialogo. A volte si avviano conversioni. Si tenta di ricucire, di ricomporre i cocci.
La realtà del carcere, sembra quasi banale ricordarlo, è devastante per la persona. Don Spriano entra un po’ nel dettaglio: «Qui si vive in un impianto che non è fatto per riconciliare. È fatto per punire. Violenze gratuite, rapporti disciplinari, il dover stare chiusi e non poter decidere niente per conto proprio, il sovraffollamento che crea la fatica del convivere». Su tutto domina la solitudine. Le carceri sono stracolme, le celle accolgono molti più detenuti di quanto dovrebbero, ma in questo affollamento «la solitudine è uno dei problemi fondamentali del carcerato». Proprio pochi giorni fa, a Rebibbia un detenuto si è suicidato. «I suicidi in carcere — spiega il sacerdote — dipendono dalla condizione spirituale della persona. A volte ci sono problemi psichici, a volte non si regge la frattura di aver perso la famiglia, o il colpo di una condanna all’ergastolo. Ci sono delle condizioni che il carcere esaspera proprio per la solitudine in cui si vive. Qui nessuno riesce a impostare veri rapporti amicali. Ci può essere aiuto reciproco, cameratismo, ma fondamentalmente si è portati a badare al proprio interesse, alla sopravvivenza».
E se si pensa alle famiglie la realtà è altrettanto triste: «La maggioranza si perde. Mancano i contatti, manca un rapporto costante: ci sono solo quattro ore al mese di colloqui. Durante i quali non puoi dare neanche una carezza a tua moglie. Tutto questo è molto difficile da sostenere». Eppure, ci dice ancora il cappellano, per accordare i benefici di legge ai detenuti, la cosa più importante che viene valutata è proprio il loro rapporto con la famiglia.
La constatazione di don Pier Sandro è amara: in questo sistema, a chi commette un reato non si infligge solo la pena prevista della privazione della libertà, ma, in maniera del tutto gratuita, «vengono tolti anche altri diritti fondamentali come quelli all’affettività, alla privacy, o quello alla salute». Quella sanitaria — pure in un carcere come Rebibbia considerato dagli stessi reclusi «a sei stelle» — è infatti un’emergenza assoluta. «Tante volte noi volontari — ci rivela il cappellano — dobbiamo comprare medicinali salvavita che la Asl non riesce a garantire». E continua: «La quantità di infarti di persone giovani deriva chiaramente dalla mancanza di movimento. Senza contare che la forzata convivenza con troppi favorisce la diffusione di malattie come la tubercolosi o la scabbia». E all’igiene spesso devono provvedere i volontari: si pensi, ci dice il sacerdote, «che ogni detenuto avrebbe diritto a un rotolo di carta igienica ogni due mesi».
Tutto questo «fa perdere non solo il gusto del vivere, ma anche i valori». Don Spriano tiene a specificare di non volere colpevolizzare i responsabili e il personale delle carceri italiane: non mancano persone meritevoli e lodevoli. Il punto è un altro: «È l’intero sistema carcerario che, così come è impostato, è fallimentare». Ma anche fuori dal carcere la mentalità non sembra essere differente: «Fuori l’ex detenuto è detenuto per sempre. Non ti si apre più nessuna porta. La società è diffidente al massimo e ti costringe in un angolo, anche se hai voglia di ricominciare».
Ecco allora più chiaro l’apparente paradosso con cui don Spriano ha iniziato il nostro colloquio: questa messa celebrata a Rebibbia servirà sicuramente ai detenuti come segno di speranza, ma probabilmente, conclude il cappellano, «sarà più utile fuori da queste mura, a chi sta al di là delle sbarre».
L'Osservatore Romano