mercoledì 15 aprile 2015

Uno sguardo che ferisce

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Guardarlo parlare, leggerlo, incontrarlo: è quasi impossibile rimanere indifferenti a don Luigi Giussani. Che lo si ami o no, che lo si conosca o non si abbia in testa che poche e confuse idee,  c’è sempre una corda del cuore  che vibra  quando si incrocia lo sguardo del fondatore di Comunione e Liberazione.
“Dalla mia vita alla vostra” – la  mostra allestita a Roma a Palazzo Valentini dall’11 al 19 aprile a ingresso libero dalle 10 alle 19  a cura degli amici del  Banco di solidarietà l’Armonia –  vuole essere l’occasione di un incontro con il vigoroso e appassionato sacerdote brianzolo che, agli inizi degli anni ’50,  ha lasciato l’insegnamento della teologia nel seminario di Venegono quando si è accorto che il cristianesimo, nella società e sopratutto nei giovani italiani, non c’entrava più niente con la vita.
Quella reale, quella fatta di desideri, passioni, successi e delusioni.
Da insegnante di religione nel Liceo Berchet di Milano – dove studiavano i rampolli dell’intellighenzia meneghina –  don Giussani ha cominciato a sfidare il cuore e la ragione dei suoi studenti, a dare loro i criteri per giudicare non appena il cristianesimo, ma la realtà intera.  
In pochi anni, tra le  incomprensioni e le difficoltà che tutti i profeti incontrano sul cammino,  è diventato padre e maestro di migliaia di persone, guida di un movimento che oggi – a dieci anni dalla sua morte –  è presente in  90 Paesi del mondo.
“Non solo non ho mai inteso fondare niente – ha scritto nel 2004 don Giussani a Giovanni Paolo II  in occasione del 50esimo anniversario della nascita di CL –  ma ritengo che il genio del movimento che ho visto nascere sia di aver sentito l’urgenza di proclamare la necessità di ritornare agli aspetti  elementari del cristianesimo, vale a dire la passione del fatto cristiano come tale nei suoi elementi originali e basta.”
Forse la sintesi più bella e commovente del fuoco che ardeva nel cuore di don Giussani , capace di affascinare migliaia di persone, rimane quella fatta  dal cardinale Joseph Ratzinger,  nell’omelia pronunciata interamente a braccio ai suoi funerali, nel Duomo di Milano, nel febbraio del 2005.
“Don Giussani era cresciuto in una casa povera di pane, ma ricca di musica, e così sin dall’inizio era toccato, anzi ferito, dal desiderio della bellezza, non si accontentava di una bellezza qualunque, di una bellezza banale: cercava la Bellezza stessa, la Bellezza infinita; così ha trovato Cristo, in Cristo la vera bellezza, la strada della vita, la vera gioia. “

*




Oltre la negazione, l'inno
di Luigi Giussani

***
Leopardi suggerisce un dato antropologico fondamentale:
la sproporzione tragica
tra l'uomo e la realtà.
Tra la sublimità del suo sentire
e il senso del proprio limite.
E soprattutto come l'uomo
sia rapporto con l'infinito.
Fattore primo dell'antropologia leopardiana - o, per dir meglio, il primo fattore della modalità con cui in Leopardi, l'uomo osserva se stesso vivere - è quella che egli stesso chiama la «sublimità del sentire». Questa formula sta ad indicare la densità di emozione, di struggimento e di timore enigmatico causata dalla sperimentata sproporzione fra l'uomo e la realtà: una sproporzione doppiamente tragica; da un lato, infatti, alla grandezza dell'uomo la realtà sembra cinicamente opporre un limite che la dissolve mentre dall'altro alla vastità e all'imponenza della realtà corrisponde la minuta piccolezza, l'effimera banalità dell'uomo. L'inno leopardiano che più plasticamente esprime questa sproporzione, è l'ode Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima. In essa, Leopardi comunica in modo così potente questa «sublimità del sentire», che tutta la negatività sensistica in cui la sua opera parrebbe risolversi risulta posticcia e cerebrale. Il suo modo di esplicitare questa sproporzione lascia infatti indenne l'interrogativo che ci fa levare ogni mattina come «sprone che quasi ci punge sì che anche giacendo più che mai siam lungi dall'aver pace, o loco».
La verità del Leopardi non può consistere in una negazione. Essa consiste nel «misterio eterno dell'esser nostro» e nella domanda che conclude l'ode citata:
Natura umana, or come, / se frale in tutto e vile, / se polve ed ombra sei, tant'alto senti?
Qui, la coscienza del poeta si trova come avvolta da una penombra e dal suo duplice gioco. Se, infatti, le spalle vengono rivolte alla luce, la penombra sembrerà introdurre all'oscurità totale - e in tal caso all'oscurità spetta l'ultima parola -; se, invece, le spalle saranno rivolte all'oscurità, si dovrà dire che la penombra è il vestibolo della luce-cui spetterà, stavolta, l'ultima parola. Tuttavia, fra queste due posizioni la seconda è quella più adeguata al fenomeno, dal momento che la penombra non può essere spiegata dall'ombra. Ora questo è, a mio avviso, il vero messaggio che Leopardi reca circa l'esperienza umana. In tal senso si può dire che il genio è sempre profeta, in quanto esprime in modo inesorabile ciò cui l'uomo è destinato.
Certo, ognuno ricorda il:
vecchierel bianco, infermo, / mezzo vestito e scalzo, / con gravissimo fascio in su le spalle
il cui cammino termina nel nulla: «abisso orrido, immenso, / ov'ei precipitando, il tutto obblìa».
Tuttavia, il cammino non si ferma qui. Subito, il velivolo umano risale: «Pur tu, solinga, eterna peregrina, / che sì pensosa sei, tu forse intendi», e, pochi versi oltre: «e tu certo comprendi».
A questi versi del Canto notturno fa eco il finale della bellissima poesia citata in apertura:
Come i più degni tuoi moti e pensieri / son così di leggeri / da sì basse cagioni e desti e spenti?
Ma nelle poesie citate (cui potremmo aggiungere, per l'immediata suggestione in cui i termini del dramma vi si esprimono, anche La sera del dì di festa) non si esprime solo questa «sublimità del sentire», che è il primo tratto del sentimento leopardiano dell'umano. In esse compare anche il secondo tratto, che potremmo definire con la parola sogno, o, meglio,esaltazione. Il sentimento tragico-sublime della sproporzione fa della realtà una sollecitazione al «sogno umano».
La tragicità di Leopardi sorge perché la realtà fa sognare l'uomo, lo esalta, nel senso latino del termine-ossia, lo prende e lo estrae innalzandolo in tutta la sua statura -; dal suolo della realtà l'uomo, che è come accovacciato e dormiente, si solleva. La realtà, insomma, esalta l'anima umana, che diviene in essa un respiro sognante, che è ciò che fa vivere nonostante la sproporzione sofferta e la tragicità del sentimento.
Tale sproporzione diventa, in questa evocazione della vita come sogno, sorgente di vaste meditazioni, cui il genio di Leopardi sa dare spazi di immagini, di parole e di musicalità che non hanno paragone in tutta la letteratura italiana.
Credo che in tal senso l'inno leopardiano più tipico sia il Canto notturno, dove l'esaltazione consegue l'abisso medesimo, l'abisso del nulla «ov'ei precipitando, il tutto obblìa», leggiamo:
E tu certo comprendi / il perché delle cose, e vedi il frutto / del mattin, della sera, / del tacito, infinito andar del tempo. / Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore / rida la primavera, / a chi giovi l'ardore, e che procacci / il verno co' suoi ghiacci. / Mille cose sai tu, mille discopri, / che son celate al semplice pastore. / Spesso quand'io ti miro / star così muta in sul deserto piano, / che, in suo giro lontano, al ciel confina; / ovver con la mia greggia / seguirmi viaggiando a mano a mano; / e quando miro in cielo arder le stelle; / dico fra me pensando: / a che tante facelle? / Che fa l'aria infinita, e quel profondo / infinito seren? che vuol dir questa / solitudine immensa? / ed io che sono?
Questa esaltazione del sentimento di sé rende la vita dell'uomo dominata da una tensione ad un ultimo risolutivo, da un «pensiero dominante», che può, ovviamente, prender volto nella donna amata, o nella contemplazione della natura, o nel pensiero rivolto al «volo delle etadi». Ogni uomo, pur senza rendersene conto, ha dentro di sé un'immagine che lo fa vivere:
Dolcissimo, possente / dominator di mia profonda mente; / terribile, ma caro / dono del ciel; consorte / ai lugubri miei giorni, / pensier che innanzi a me sì spesso torni.
Ma questa esaltazione, o sogno, ha alla fine, per Leopardi, davvero la consistenza di un sogno - inteso stavolta nel senso deteriore del termine -. Vi sono, è vero, momenti in cui essa desta un'esperienza di felicità e di gioia, tuttavia sarà «finalmente un sogno»: tutto ciò che di attraente e di esaltante sorge nello scontro io-realtà ha l'inconsistenza del sogno. È un'amarezza che sorge nel cuore medesimo della gioia il terzo aspetto del sentimento leopardiano dell'umano. È quanto egli chiama la «rimembranza acerba».
... e fia compagna / d'ogni mio vago immaginar, di tutti / i miei teneri sensi, i tristi e cari / moti del cor, / rimembranza acerba.
Tale sentimento, che ha nell'inno Le ricordanze la sua documentazione più espressiva, fa parte, come gli altri due aspetti sopra ricordati, del contenuto della coscienza umana, cosicché si può dire non sussistere coscienza umana senza quella «rimembranza acerba». Val la pena di notare un particolare di questo sentimento: che, qualunque sia l'età dell'uomo, la giovinezza rimane il suo termine di paragone fondamentale, consapevole o inconsapevole. È nella giovinezza che tutta la vita appare un sogno, e in essa sta il momento più illusivo, e insieme più corrispondente al desiderio e all'attesa che è nell'uomo. Come sottolineano questi versi de La vita solitaria:
... Amore, amore, assai lungo volasti / dal petto mio, che fu sì caldo un giorno, / anzi rovente. Con sua fredda mano / lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è volto / nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo / che mi scendesti in seno. Era quel dolce / e irrevocabil tempo, allor che s'apre / al guardo giovanile questa infelice / scena del mondo, / e gli sorride in vista / di paradiso. Al garzoncello il core / di vergine speranza e di desìo / balza nel petto; e già s'accinge all'opra / di questa vita come a danza o a gioco / il misero mortal. Ma non sì tosto, / Amor, di te m'accorsi, e il viver mio / fortuna avea già rotto, ed a questi occhi / non altro convenìa che il pianger sempre.
È quest'ultima nota che fa scaturire, per dir così, la connotazione morale e sociale dell'immagine leopardiana dell'uomo: il sentimento del mondo come ingiustizia: «... e cieco il tuono /per l'atre nubi e le montagne errando, / gl'iniqui petti e gl'innocenti a paro / in freddo orror dissolve...», come si legge nell'inno Alla primavera o delle favole antiche. Opeggio, come si legge nel Bruto minore: «... dunque degli empi / Siedi, Giove, a tutela?...».
Ma la parola più sconsolante, riguarda il cinismo della natura: «Ne scolorò le stelle umana cura», leggiamo ancora nel Bruto minore. Sempre la natura, laddove il genio non abbia la dimensione religiosa, funge da quinta, imperterrita, al dolore e alla tragedia dell'uomo; viceversa, laddove l'artista, o il poeta, abbia un tratto religioso, la natura diventa parte del pathosumano della gioia come della tragedia. Infatti, la struttura poetica forse più compiuta e più vissuta, che è la Liturgia della Chiesa cattolica, trattiene in profonda unità dolore e gioia, attesa e delusione dell'uomo, male e bene, peccato e bene, esprimendo insieme la profonda unità di tutto ciò con la natura e i suoi ritmi.
Proprio per questa ingiustizia, perpetrata dal potere della realtà nei confronti dell'uomo, innocente o no, il mondo appare ripugnante, e «superba» «questa età»: dove «questa», nella descrizione che il poeta ne fa, sempre ne Il pensiero dominante, può benissimo valere per la nostra, «che di vòte speranze si nutrica» - la ideologia «vaga di ciance» - tutti parlano -, «edi virtù nemica; stolta, che l'util chiede» - tale è infatti l'unico criterio del nostro mondo-, «e inutile la vita / Quindi più sempre divenir non vede».
Ma la nostra indagine deve compiere ancora due passi. Leopardi va oltre la negazione. Nell'inno Aspasia leggiamo:
Raggio divino al mio pensiero apparve, / Donna, la tua beltà. Simile effetto / Fan la bellezza e i musicali accordi, / Ch'alto misterio d'ignorati Elisi / Paion sovente rivelar...
La bellezza della donna richiama il poeta a qualcosa che sta oltre «raggio divino», così come la musica, che pare custodisca un «misterio d'ignorati Elisi», ossia un mistero di felicità. Ed è a quello, allora, che la bellezza femminile richiama:
...Vagheggia / Il piagato mortal quindi la figlia / Della sua mente, l'amorosa idea, / Che gran parte d'Olimpo in sé racchiude, / Tutta al volto ai costumi alla favella, / Pari alla donna che il rapito amante / Vagheggiare ed amar confuso estima. / Or questa egli non già, ma quella, ancora, / Nei corporali amplessi, inchina ed ama.
L'uomo si innamora di quest'immagine che sta oltre il volto della donna, di questa sorgente di emozione che travalica la di lei figura, così come travalica ogni apparato musicale; Leopardi la chiama «la figlia della sua mente», perché questa emozione, o richiamo, avviene dentro la coscienza, poiché obiettivamente non è il volto della donna a suggerire questa inferenza. Ne viene una confusione: l'uomo confonde infatti l'oggetto del vagheggiamento, scambiando la donna che ha davanti con ciò che la donna gli suscita dentro.
In Aspasia, è a questo «qualcos'altro» che l'uomo reca omaggio. E «alfin l'errore e gli scambiati oggetti conoscendo s'adira»: s'accorge di come la donna che ha davanti sia sproporzionata all'immagine che ella stessa destò in lui.
Ma se il limite della donna non definisce ciò che l'uomo è suscitato ad essere dalla sua presenza; se, cioè, il limite delle cose, di ciò che Leopardi incontrava nelle sue giornate, se il limite dello stesso universo che egli era solito contemplare non definiva la sua domanda, ciò implica l'introduzione di una parola suprema, «la» parola suprema per la ragione dell'uomo: la parolasegno. La donna, nel caso di Aspasia, è dunque segno di qualcos'altro. Sia o non sia criticamente cosciente di ciò, l'uomo subisce il dinamismo con cui questo segno lo percuote. Se un uomo non è definito dal limite in cui si trova, perciò stesso afferma una presenza che lo richiama e lo suscita.
L'affermazione della realtà come segno è, a mio avviso, un tratto assai chiaro nella poesia del Leopardi. Dunque, l'affermazione di una sproporzione fra l'uomo e la realtà - la «sublimità del sentire» -, così come quell'esaltazione, o sogno, così come la «rimembranza acerba» che permane anche nei momenti migliori, possono, sì, essere rese oggetto di un giudizio negativo, ma tale giudizio rimarrà un'opzione, non una ragione. Se il limite non definisce ciò che si è, se un'attrattiva rimane aperta, ciò implica l'inevitabilità dell'affermazione di una Presenza misteriosa. E tale Presenza è così implicita nello sguardo che la ragione porta alla realtà, che Leopardi stesso, per un istante, ha finito col riconoscerLa: istante che gli studiosi di letteratura, almeno nell'epoca in cui io me ne interessavo attivamente, non mancarono di identificare come il più autentico dell'esperienza interiore di Giacomo Leopardi. Di un istante si tratta in cui non solo, come in Aspasia, la realtà, toccando l'uomo, lo rende cosciente di non essere definito dai limiti del suo rapporto con il reale, e dai suoi medesimi, ma in cui Leopardi è giunto anche a riconoscere questo «qualcos'altro». Ciò ha luogo nella mirabile ode Alla sua donna, dove, in un momento equilibrato e potente, Leopardi stende un inno non già a questa o quella donna, ma alla Donna, alla Bellezza, ossia a quell'amorosa idea che ogni donna gli suscita, e che qui viene intuita come presenza reale:
Cara beltà che amore / Lunge m'ispiri o nascondendo il viso, / Fuor se nel sonno il core / Ombra diva mi scuoti, / O ne' campi ove splenda / Più vago il giorno e di natura il riso...
Qui, la negazione viene superata d'un balzo: «Viva mirarti omai / Nulla speme m'avanza»; ma prosegue: «S'allor non fosse, allor che ignudo e solo / Per novo calle a peregrina stanza / Verrà lo spirto mio... ».
Metterebbe conto di leggere e commentare verso per verso, parola per parola, questo inno. Ma basterà leggere l'ultima strofa, una delle più belle preghiere della nostra letteratura:
Se dell'eterne idee / L'una sei tu, cui di sensibil forma / Sdegni l'eterno senno esser vestita, / E fra caduche spoglie / Provar gli affanni di funerea vita; / O s'altra terra ne' superni giri / Fra' mondi innumerabili t'accoglie, / E più vaga del Sol prossima stella / T'irraggia, e più benigno etere spiri, / Di qua dove son gli anni infausti e brevi, / Questo d'ignoto amante inno ricevi.
È stato leggendo questa sublime preghiera che, a quindici anni, mi s'illuminò tutto Leopardi. Questa Donna, questa Bellezza altro non è se non ciò che il cristianesimo chiama il Verbo, cioè Dio nella sua espressione: la Bellezza con la «B» maiuscola, la giustizia con la «G» maiuscola, la Bontà con la «B» maiuscola, è Dio. Ogni volta che leggo questa poesia un'evidenza mi conquista: in cosa consiste - mi chiedo - l'annuncio cristiano? In questo: che questa Bellezza non solo l'eterno senno che non ha sdegnato rivestire «di sensibil forma», non solo non ha sdegnato di «provar gli affanni di funerea vita», ma è diventata Uomo, e per l'uomo è morto. Non l'uomo è ignoto amante di Lui, ma Lui è l'ignoto amante dell'uomo. Così si apre il Vangelo di san Giovanni: «Venne tra i suoi e i suoi non lo ricevettero ».
Questa di Leopardi è, dunque una profezia, perché il genio è sempre profeta di Cristo. È la profezia di un ateo, il grido, milleottocento anni dopo quell'avvenimento, dal fondo dell'uomo all'incarnazione di Cristo. E richiama alla mente una poesia di Karol Wojtyla, che inizia così: «Io T'invoco e Ti cerco, Uomo - in cui la storia umana può trovare il suo Corpo. / Mi muovo incontro a Te, non dico "Vieni" / semplicemente dico "Sii"».
Il nesso di cui il cuore dell'uomo è fatto fa da sottofondo a tutto il discorso leopardiano, e anima tutta la parola che il grande sofferente Giacomo Leopardi ci dice: che l'uomo è niente, e che tutta la sua grandezza consiste nel rapporto con l'infinito.
Il «no», l'opzione leopardiana, mutuata dalle gnoseologie sensistiche dell'epoca, nasce da un'errata concezione della ragione intesa come misura del reale. La ratio rattrappita dell'uomo post-umanistico e post-rinascimentale, che procede a un'indebita identificazione.
Ma il reale esiste prima dell'uomo che lo pensa, perciò per sua natura la realtà è più vasta della misura della ragione. La ragione è una finestra spalancata sulla realtà: tanto sulla realtà del volto materno come sulla realtà che si nasconde dietro il segno dell'universo e di ogni cosa: l'infinito, il mistero, Dio. La ragione è un abbraccio senza fine alla realtà, ossia essa è il cuoredell'uomo. In questo concetto di ragione, ogni istante è novità, ricchezza, amore; viceversa, se la ragione è misura delle cose, ogni momento è tenebra, sepolcro.
Siamo stati sepolti vivi nella cultura post-rinascimentale, illuminista, razionalistica moderna. E Leopardi ne fu una vittima. La sua ragione era davvero il suo cuore, quello che gli faceva gridare il Canto notturno, o invocare: «Dolcissimo, possente, dominator di mia profonda mente... », quello che gli aveva dettato l'inno Alla sua donna.
Egli non ebbe un incontro amico che gli rendesse facile, o più facile, questa osservazione ovvia. Egli fu sempre, come direbbe sant'Agostino, «fugitivus cordis sui», lontano dal suo cuore.
Infine, forse, si può aggiungere una riflessione. Leopardi, il cui senso etico si mostrò fortissimo in certe situazioni, ebbe forse un'ultima banda d'animo in cui era fragile anche eticamente. L'ho pensato leggendo questa frase sul diario di Franz Kafka: «Non bisogna buttarsi via; anche se la salvezza non viene, voglio esserne degno in ogni momento».
È l'obbedienza al «Vigilate» del Vangelo.
Forse, Leopardi non trovò un'amicizia che lo rincuorasse fino a questo punto.
Il Sabato

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Vita Giussani. Vittadini: le parole del Giuss che più mi hanno segnato

Giorgio Vittadini ilsussidiario.net

21/09/2013 - La trascrizione dell'Intervento di Giorgio Vittadini alla Presentazione del libro Rizzoli Vita di don Giussani. Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 18 settembre 2013

Sono stato allievo di don Giussani, non solo in Cl, ma come studente universitario, trent’anni fa, in questo ateneo, seguendo le sue lezioni su Il senso religioso. Questa sera però non farò delle considerazioni come suo discepolo ma, seguendo il metodo di questo libro, cercherò di far parlare il protagonista attraverso la sottolineatura delle parole che più mi hanno colpito nel percorso che viene descritto.
La prima è la parola “esperienza”. Savorana a pag. IX dell’introduzione dice: «Qui mi sembra collocarsi la radice del contributo di don Giussani alla vita della Chiesa: di fronte a una fede popolare che in molti casi sopravviveva come pura tradizione, […] egli si rese conto che la debolezza dell’esperienza cristiana dipende dal fatto che la fede diventa incomprensibile, se i bisogni dell’uomo non sono presi sul serio».
«“Ragionevole” designa colui che sottomette la propria ragione all’esperienza»: è la frase del filosofo Jean Guitton a cui Giussani richiamava spesso. Infatti, per lui «se la realtà si rende evidente nell’esperienza, se “l’esperienza è il rendersi evidente della realtà”, allora, per conoscere qualsiasi cosa, per pronunciarsi a riguardo di qualsiasi cosa, occorre partire dall’esperienza» (pag. 969).
"Esperienza" è lo stesso termine di cui Giussani dialoga con il cardinale Montini, futuro Paolo VI, che la inserisce a pieno titolo nel testo della sua prima enciclica, l’Ecclesiam suam, nonostante l’avesse inizialmente indicata come motivo di preoccupazione nell’ultima lettera da Arcivescovo, il 16 giugno 1963 (pag. 304).
Ma qual è in particolare l’esperienza di cui parla Giussani? A pagina 868 si parla di «esperienza di una corrispondenza tra una presenza e le esigenze strutturali del cuore». Dal suo intervento al primo convegno della Compagnia delle Opere nel 1987 si capisce che non la intende come un’astrazione intellettuale, ma come una dimensione che riguarda tutti. Infatti, non c’è opera, «da quella umile della casalinga a quella geniale del progettista, che possa sottrarsi […] alla ricerca di una soddisfazione piena, di un compimento umano: […] sete di felicità che parte dall’istintività e si dilata a quella concretezza dignitosa che sola salva l’istinto dal corrompersi in falso ed effimero respiro» (pag. 710).
Dove rintraccia Giussani l’esigenza di questa corrispondenza come natura del cuore umano? L’abbiamo sentito prima da Paolo Mieli: nei molti grandi uomini che incontra. Innanzitutto in Leopardi, la cui grandezza sta, secondo Giussani, proprio «in questa impossibilità d’acquiescenza al piccolo […], quel medesimo “amaro desiderio di felicità”, che fu il sentimento più sofferto dall’uomo, è ciò che mette le ali nel canto del poeta», come ebbe a scrivere Giovanni Colombo, il professore di letteratura italiana che Giussani ebbe in prima liceo (pag. 45).
Oltre a Leopardi, nel libro sono citati molti altri autori che hanno testimoniato a Giussani la grandezza dell’essere umano, così come tante persone semplici, tra cui molti giovani. Come Luigi, un ragazzo che incontrò nella parrocchia di viale Lazio e che, di fronte all’argomentare di Giussani sulla fede, gli disse: «Guardi, tutto ciò che lei si affatica a espormi non vale quanto sto per dirle. Lei non può negare che la vera statura dell’uomo è quella del Capaneo dantesco, questo gigante incatenato da Dio all’inferno, ma che a Dio grida: “Io non posso liberarmi da queste catene perché tu mi inchiodi qui. Non puoi però impedirmi di bestemmiarti, e io ti bestemmio”. Questa è la statura vera dell’uomo». Dopo qualche secondo di impaccio Giussani gli dice, con calma: «Ma non è più grande ancora amare l’infinito?». Il ragazzo se ne va, ma «dopo quattro mesi è tornato a dirmi che da due settimane frequentava i sacramenti perché era stato “roso come da un tarlo” per tutta l’estate da quella mia frase». Luigi morirà in un incidente stradale poco tempo dopo (pag. 131).
In un incontro del 1988 con un gruppo di monaci buddisti conosciuti nel viaggio in Giappone dell’anno prima, il maestro dei novizi Shodo Habukawa, a cui Giussani rimarrà legato da profonda amicizia tutta la vita, interviene citando un antico proverbio giapponese: «“Quando arriva la farfalla vuol dire che il bocciolo ormai sta per sbocciare e quando fiorisce il fiore vuol dire che la farfalla sta per arrivare» e commenta: «Noi siamo un po’ come la farfalla. Una delle condizioni necessarie per poter riconoscere l’assoluto che è dentro di noi è prima di tutto riconoscere il mistero che è nella natura, in tutto l’universo, e questo non dipende dal nostro sforzo, è necessario un maestro che ci insegni a farlo. Infatti nel buddismo shingon è fondamentale questo rapporto tra il maestro e il discepolo”. Segue un dialogo, al termine del quale Giussani dice: “È con facile emozione che noi ringraziamo i nostri maestri per quanto ci hanno richiamato e fatto sentire oggi. C’è una percezione che mi sembra l’aspetto più facile di questa emozione, ed è la percezione di un’analogia o di una vicinanza tale che ci fa ripetere le parole di Rilke: “Una parete sottile ci separa”» (p. 779).
Cristo per Giussani è la risposta a questa domanda di significato. Come scoprì nel 1937 in quello che chiamò “il bel giorno”, quando don Gaetano Corti in seminario spiegò: «“Il Verbo di Dio, ovvero ciò di cui tutto consiste, si è fatto carne”, perciò “la bellezza s’è fatta carne, la bontà s’è fatta carne, la giustizia s’è fatta carne, l’amore, la vita, la verità s’è fatta carne: l’essere non sta in un iperuranio platonico, si è fatto carne, è uno tra noi”. In quel momento Giussani si ricorda dell’inno Alla sua donna di Leopardi: “In quell’istante pensai come quella di Leopardi fosse, milleottocento anni dopo, una mendicanza di quell’avvenimento che era già accaduto, di cui san Giovanni dava l’annuncio: ‘Il Verbo si è fatto carne’”» (pag. 47).
Da qui si dipana per Giussani tutta la tensione di immedesimazione in Cristo, l’unico che capisce e si appassiona della domanda dell’uomo.
Agli esercizi spirituali della Fraternità di Cl del 2002 Giussani rievoca un episodio della vita di Cristo: «Quella sera Gesù fu interrotto, fermato nel suo cammino al villaggio cui era destinato, […] perché c’era un pianto altissimo di donna, con un grido di dolore che percuoteva il cuore di tutti i presenti, ma che percuoteva, che ha percosso innanzitutto il cuore di Cristo. “Donna, non piangere!”. Mai vista, mai conosciuta prima. […] Che sostegno poteva avere quella donna che ascoltava la parola che Gesù diceva a lei? “Donna, non piangere!”: quando si rientra in casa, quando si va sul tram, quando si sale sul treno, quando si vede la coda delle automobili per le strade, quando si pensa a tutta la farragine di cose che interessano la vita di milioni e milioni di uomini, centinaia di milioni di uomini… […] il suono, il riverbero del pianto è giunto fino a Lui! “Donna, non piangere!”, come se nessuno la conoscesse, come se nessuno la riconoscesse più intensamente, più totalmente, più decisivamente di Lui!» (pag. 1099).
Carmine Di Martino, responsabile degli universitari di Cl, ebbe a sottolineare l’immedesimazione totale di Giussani con l’esperienza iniziale del Cristianesimo, come una delle dimensioni più potenti del suo modo di comunicarlo: «Mentre ripercorre la pagina che racconta il primo incontro di Giovanni e Andrea con Gesù, don Giussani è li, è presente, vede quello che accade e ci trascina a vederlo con lui; non parla di un passato lontano, descrive ciò che sembra avere sotto gli occhi, entra nella dinamica di quei momenti decisivi per la storia del mondo, li mostra nel loro svolgimento, esplicita le ragioni che dovevano essere all’opera. Ci calamitava: ci faceva entrare in ciò che era accaduto» (pag. 994).
Quello che è accaduto duemila anni fa e continua ad accadere oggi. In un’intervista del 1987 di don Scola per il periodico 30Giorni Giussani dice: «Il cuore della nostra proposta è piuttosto l’annuncio di un avvenimento accaduto, che sorprende gli uomini allo stesso modo in cui, duemila anni fa, l’annuncio degli angeli a Betlemme sorprese dei poveri pastori. Un avvenimento che accade, prima di ogni considerazione sull’uomo religioso o non religioso» (pag. 752).
E’ l’incontro tra Cristo e l’uomo che Giussani documenta instancabilmente, raccontando ciò che vede e leggendo lettere tra le miriadi che riceve. Come la lettera di Andrea, un ragazzo malato di Aids, che lesse agli esercizi spirituali degli universitari nel 1994: «Di questa travagliata vita penso di essere arrivato al capolinea portato da quel treno che si chiama Aids e che non lascia tregua a nessuno. Adesso dire questa cosa non mi fa più paura. Ziba mi diceva sempre che l’importante nella vita è avere un interesse vero e seguirlo. Questo interesse io l’ho inseguito tante volte, ma non era mai quello vero. Ora quello vero l’ho visto, lo vedo, l’ho incontrato e incomincio a conoscerlo e a chiamarlo per nome: si chiama Cristo. Non so neanche cosa vuol dire e come posso dire queste cose, ma quando vedo il volto del mio amico o leggo Il senso religioso che mi sta accompagnando e penso a lei o alle cose che di lei mi racconta Ziba, tutto mi sembra più chiaro, tutto, anche il mio male e il mio dolore. La mia vita ormai appiattita e resa sterile, resa come una pietra liscia dove tutto scorre via come l’acqua, ha un sussulto di senso e significato che spazza via i pensieri cattivi e i dolori, anzi li abbraccia e rende veri rendendo il mio corpo larvoso e putrido segno della Sua presenza. Grazie don Giussani, grazie poiché mi ha comunicato questa fede o, come lei lo chiama, questo Avvenimento. Adesso mi sento in pace, libero e in pace. […] Grazie don Giussani, è l’unica cosa che un uomo come me può dirle. Grazie perché nelle lacrime posso dire che morire così ora ha un senso, non perché sia più bello – ho una grande paura di morire –, ma perche ora so che c’è qualcuno che mi vuole bene e anch’io forse mi posso salvare e posso anch’io pregare affinché i compagni di letto incontrino e vedano come io ho visto e incontrato» (pag. 923).
Per Giussani l’incontro tra l’avvenimento di Cristo e il senso religioso dell’uomo segna un metodo. L’insistenza sulla parola “metodo” è ciò di cui parla ancora con Guitton nel 1995: «“Ciò che in qualche modo non è nell’esperienza presente non esiste”. […] “Cristo deve essere sperimentato e, perciò, deve essere un avvenimento presente”. Perciò “non è pedagogia cristiana, se non piega a trovare nel presente un avvenimento in cui Cristo opera, cioè cambia”» (pag. 942).
Il 30 maggio 1998, all’incontro dei movimenti in piazza San Pietro, Giussani conclude il suo intervento dicendo: «Il vero protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo». Come abbiamo visto nel video introduttivo, terminato di parlare, raggiunge Giovanni Paolo II e si mette in ginocchio, gesto con cui sembrò documentare sinteticamente tutta la sua mendicanza.
Ma come questa esperienza è cattolica? Come sta questo rapporto personale che si stabilisce tra l’uomo e Cristo in relazione all’autorità?
C’è un altro passaggio che mi ha molto colpito nel libro: il contrasto tra potere e autorità. Nel 1986 Giussani fa cantare ai ragazzi riuniti in assemblea la canzone di Enzo Jannacci e Dario Fo Ho visto un re e commenta: «Il re è il simbolo del potere di questa società che odia questa nostra tristezza che è, in fondo, la carne vivente di quelle domande che costituiscono il cuore dell’uomo. È il primo segno dell’uomo, dell’umano. […] “Il vostro piangere fa male al re, […] e sempre allegri bisogna stare. […] Diventan tristi […]”: coloro che hanno il potere diventano tristi, se ti vedono piangere. […] Comunque la mordenza di questo noto canto di Jannacci è di grande attualità, perché ognuno di noi può cedere di fronte a una modalità di conduzione della società in cui diventano ovvi il limite e il soffocamento dentro il quale la nostra umanità è resa sempre più prigioniera, e sempre più insepolcrata» (pag. 731).
E questo è l’opposto di ciò che per Giussani costituisce il rapporto con l’autorità della Chiesa: che non consiste nel rendere conto a qualcuno, quasi fosse un limite alla libertà della propria esperienza, al valore della propria coscienza, ma come ciò che permette alla coscienza di essere autentica, di ritenere come parte integrante dell’esperienza il paragone con la realtà.
Come mostra la continua tensione al rapporto con i papi che ha ricordato prima Mieli. Ricorda Savorana a pag. 339 che nel 1975, il giorno dopo avere incontrato Paolo VI, Giussani scrive all’Arcivescovo Colombo: «Non posso non manifestarLe lo stupore e la gioia per il gesto di paterna benevolenza che Sua Santità ha voluto farmi la Domenica delle Palme, subito dopo il rito davanti a S. Pietro. Egli mi ha infatti incitato a continuare “con i suoi giovani” il cammino: ed io sono rimasto commosso senza parola, così come sono stato percosso da un senso di responsabilità quasi l’avessi sentito per la prima volta».
Lo stesso dialogo profondo e appassionato che cercò sempre con Giovanni Paolo II, già conosciuto come cardinale in Polonia e incontrato insieme ai giovani molte volte all’inizio del suo pontificato. Poi seguito facendo delle sue encicliche il testo di meditazione del movimento; chiedendo il riconoscimento della Fraternità di Cl; partecipando ai convegni sui movimenti; accogliendolo al Meeting di Rimini del 1982; facendo suo il mandato ad andare in tutto il mondo, che segnò la presa di coscienza di un compito al servizio dell’uomo e della Chiesa. Nella lettera del 22 febbraio 2004 il papa gli scrive: «Il vostro Movimento […] ha voluto e vuole indicare non una strada, ma la strada per arrivare alla soluzione di questo dramma esistenziale. La strada, quante volte Ella lo ha affermato, è Cristo».
E ancora il rapporto con l’allora cardinal Ratzinger, a cui Giussani sottopone le sue intuizioni in un paragone continuo e amicale. E la stessa apertura e ricerca di dialogo verso i vescovi: la figliolanza con Montini, il rapporto a lungo sofferto, ma sempre di paragone serrato e obbedienza con Colombo, la stima e le occasioni di incontro ricambiate con Martini, la conoscenza di lunga data con Tettamanzi che lo va a trovare per i suoi 80 anni.
Quindi, un continuo ricercato filiale paragone con l’autorità e ricerca di unità con la Chiesa: un genio cattolico, ma che fa del Cattolicesimo un’apertura sul mondo. A partire dal bisogno di giudicare tutto ciò che capita. Come dice nel 1997: «Le circostanze per cui Dio ci fa passare sono fattore essenziale e non secondario della nostra vocazione, della missione a cui ci chiama» (pag. 991).
Per questo Pierluigi Bersani, invitato al Meeting di Rimini nel 2006 a presentare il testo di Giussani Dall’utopia alla presenza, sottolinea come per il fondatore di Cl ci sia «un tema che viene prima […] dell’iniziativa ma la produce. C’è una presenza che non è isolamento, è una presenza espressiva» (pag. 484).
Come viene sottolineato nell’introduzione, la sua è “una partenza positiva, senza ombra di reattività”. Quello di Giussani è un giudizio originale e commosso su tutto, una certezza curiosa e appassionata, una simpatia per la realtà e per l’uomo che sa commuoversi.
Nel ’68 a un ragazzo di Varese che diceva: “Se non troviamo le forze che fanno la storia, noi siamo perduti”, Giussani commenta: “Io voglio semplicemente dire quello che mi è venuto come contraccolpo dentro il cuore nel sentire quanto quello affermava: che le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice” (pag. 412).
Guardò tutti gli eventi che accadevano in modo originale e profondo, come documentano gli interventi sui diversi organi di stampa: dopo la strage di Nassirya nel 2003, su richiesta del direttore Mauro Mazza, Giussani scrive il testo della “Copertina” che apre l’edizione delle 20.30 del TG2 Rai. Come scrive Savorana, «il suo è un grido: “Che orrore! Che vergogna!”. “Né il sol più ti rallegra. Né ti risveglia amor”. Il Pianto antico di Carducci custodisce nel cuore della nostra storia quel mistero per cui Dante Alighieri prega la Madonna perché una ricchezza di umanità nuova affermi la vittoria del bene attraverso il suo dolore di sposa e di madre: “In te misericordia, in te pietate, / in te magnificenza, in te s’aduna / quantunque in creatura è di bontate”» (pag. 1132). Così, come si era commosso profondamente lo stesso anno per la morte dei sette astronauti americani nello Shuttle Columbia (pag. 1113).
Questa è la radice di quell’animo che lo rese sempre aperto e in dialogo con chi viveva un’esperienza diversa dalla sua. Come si vide nell’intervento in occasione della profanazione del cimitero ebreo di Berlino nel 1998 che gli ricorda il tragico momento in cui gli ebrei «“hanno levato un grido, facendolo intendere a tutto il mondo, attraverso il martirio dell’Olocausto, l’assurdo sacrificio sopportato per tutti”, tanto che esso è diventato “una pedagogia per tutti i cristiani; […] “per noi cristiani oggi è più certa che mai l’analogia della vicenda di Cristo con il senso dell’Olocausto”» (pag. 1042).
Uno dei tanti segni, questo, dell’apertura che lo caratterizzò tutta la vita verso chiunque incontrasse, e che lo portò a conoscere Giovanni Testori, ad approfondire la conoscenza di Pierpaolo Pasolini, a diventare amico di Aldo Brandirali (fondatore di un movimento di ispirazione maoista che pubblicava la rivista Servire il popolo), o a entusiasmarsi per il ragazzo che fermò il carro armato in piazza Tienanmen a Pechino.
Uno spirito profondamente ecumenico il suo, che lo ha spinto ad incontrare il mondo ortodosso, ad appassionarsi delle vicende del popolo russo e a studiare a fondo la teologia protestante americana di cui esalta il riconoscimento del valore di ogni “io”.
Non si tratta di un semplice “progetto pastorale”, il suo è un pensiero sorgivo, originale, come riconoscono in tanti: Galbiati, Scola, Ratzinger, Bergoglio, Von Balthasar.
Ma si farebbe un torto a Giussani se non si dicesse che il suo è un pensiero sorto dal suo grande impegno di educatore. Un pensiero che è stato ed è ancora capace di introdurre “nella realtà totale” tanti: i ragazzi del liceo Berchet, tutti i primi Giessini che lo seguirono oltre l’ambito scolastico; successivamente gli studenti universitari della Cattolica e poi quelli delle altre università; i Memores domini, le suorine, i preti e tante famiglie e persone nei cinque continenti. Educando ha dato le ragioni con cui giudicare l’esperienza e ha sostenuto l’esperienza della carità come dono di sé commosso, proponendo attività di caritativa con i poveri, ma anche la creazione di opere, come la Compagnia delle opere, il Meeting di Rimini, il Banco Alimentare, l’AVSI, i Centri di solidarietà.
Lui si faceva colpire e imparava sempre qualcosa da chi aveva di fronte. Non voleva convincere, ma dare dei criteri con cui i ragazzi potessero giudicare tutto, compreso quello che diceva lui. Come disse nel 2001 durante la Giornata di inizio d’anno accademico degli universitari: «Per 50 anni ho guardato e ricevuto persone […] giocando solo sulla liberta pura – sulla liberta pura! –. Cercate ogni giorno che questa libertà pura corrisponda agli intendimenti vostri, ai criteri vostri, della vostra azione, e questo vi farà abbondare di pace» (pag. 1092-3).
Molti devono la fecondità della loro vita a questo uomo per il quale, come disse Nikolaus Lobkowicz, l’amicizia è una virtù (pag. 748).
Ma la verità di una posizione si vede nel momento della prova, come quella della malattia che, per la verità, non abbandonò mai Giussani fin dagli anni dopo il seminario quando soffre di malattie respiratorie, e poi negli anni 60 in cui si ammala alla cistifellia e all’apparato digerente. Ma sopratutto negli anni 90 in cui insonnia, diabete e Parkinson lo affliggono senza tregua. Gli ultimi sono anni di grave sofferenza. Ci sarebbe stato di che lamentarsi. Invece la positività domina. Al Meeting di Rimini del 2002 interviene dicendo: «Anche nella decrepitezza dei miei anni volevo dirvi che la speranza è una – una! –. […] Da un po’ di anni mi sono diventati abituali questi pensieri: spontaneamente uno è come assalito dalla gioia che se anche dura qualche istante, dura qualche istante, ma come emergenza della verità di tutta la vita» (pag. 1104).
Nel dicembre 2003, salutando in videoconfenza gli universitari di Cl al termine degli Esercizi spirituali a Rimini, dice: «Siate certi, siamo certi di questa gioia! Il Mistero è diventato uomo scendendo tra noi perché noi abbiamo ad attaccare la nostra vita sulle spalle di questa gioia, come un bambino che sta sul “groppone” del papà che lo porta per le strade di questo mondo» (pag. 1134). E nel gennaio del 2004 scrive in una lettera al papa: «Una orazione della Liturgia ambrosiana illumina il sentimento nostro in questi momenti: […] “Signore Dio, nella semplicità del mio cuore lietamente Ti ho dato tutto”» (pag. 1137).
E’ nella compagnia amorevole della Madonna che trova sostegno e questa suprema positività. «Maria, che come siamo ormai usi ripetere con l’Inno alla vergine di Dante – divenuto preghiera quotidiana –, è “di speranza fontana vivace”» (pag. 1139).
Come ricorda don Carrón: “Don Giussani ha detto a me e a chi era presente che lui aveva vissuto per Cristo, aveva sempre cercato di fare la sua volontà” e “ora voleva morire per Cristo” (pag. 1167).
La storia di don Giussani, così ben documentata dal libro di Savorana, è una storia che non si ferma qui ma sta continuando. Come gli sentii dire io pochi mesi prima che morisse: “La nostra forza, il nostro carisma, è l’unità tra me e Carrón […] Seguite Carrón” (pag. 1167). Così possiamo continuare a seguire Giussani.

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Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore

di Stefano Alberto
25/08/2010 - Il testo dell'intervento di Stefano Alberto, docente di Teologia all'Università Cattolica di Milano, sul tema del Meeting
«Una bellezza nuova, un nuovo dolore, un nuovo bene di cui presto ci si sazi, per meglio assaporare il vino di un male nuovo, una nuova vita, un infinito di vite nuove, ecco quello di cui ho bisogno, signori: semplicemente questo e nulla di più. Ah, come colmarlo questo abisso della vita? Che fare? Perché il desiderio è sempre lì, più forte, più folle che mai. È come un incendio marino che avventi la sua fiamma nel più profondo del nero nulla universale! È un desiderio di abbracciare le infinite possibilità!» (O. Milosz, Miguel Mañara, Milano 1998).
Al grido di Miguel Mañara, che abbiamo ascoltato l’anno scorso qui al Meeting, ha fatto eco due sere fa quello del Caligola di Camus nel suo dialogo col fido Elicone: «Ma io non sono folle e non sono mai stato così ragionevole come ora, semplicemente mi sono sentito all’improvviso un bisogno d’impossibile. Le cose così come sono non mi sembrano soddisfacenti... Ora so. Questo mondo così come è fatto non è sopportabile. Ho dunque bisogno della luna, o della felicità, o dell’immortalità, insomma di qualche cosa che sia forse insensato, ma che non sia di questo mondo». Camus stesso riprende l’apparente paradosso nell’affermazione, cara al ’68 francese: «Soyez réalistes, demandez l’impossible».

1. «Siate realisti, domandate l’impossibile»
Di quale realismo stiamo parlando? Non è piuttosto un’utopia, addirittura una pazzia? Ecco la risposta di Giussani, proprio nel commento al passo appena citato di Caligola: «Non è realistico che l’uomo viva senza agognare l’impossibile, senza questa apertura all’impossibile, senza nesso con l’oltre: qualsiasi confine raggiunga». In questo senso «l’impossibile» indica l’infinito e l’insoddisfazione insaziabile di Caligola esprime la tensione a questo infinito. È quanto Claudel fa dire a Pietro di Craon in Jeune fille Violaine: «L’insaziabile non può che derivare dall’inestinguibile».
E commenta Giussani: «Che l’uomo sia un animale insaziabile, vuol dire che il soggetto di questa realtà che si chiama uomo è un soggetto inestinguibile. Caligola parla di luna o felicità o immortalità. L’insaziabile non può derivare che da un inestinguibile. L’insaziabilità è il segno del Destino. Ecco emergere la grande parola, da cui nessuno, pur facendo qualsiasi sforzo, qualsiasi mossa, per quanto abile possa essere, nemmeno nel sonno, si può distaccare. Un Destino di immortalità si segnala nell’umana esperienza di insaziabilità».

2. «Misterio eterno dell’esser nostro»
Tale insaziabilità, l’inesauribilità dei desideri e delle domande ultime dell’uomo esaltano la contraddizione fra l’impeto delle esigenze e il limite della misura umana nella ricerca. È la drammatica consapevolezza espressa da Giacomo Leopardi in uno dei suoi Pensieri:
«Il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, della terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana». Il sentimento di questa sproporzione è per Leopardi il contenuto di quella che egli chiama «la sublimità del sentire».
Ricordo con vivezza l’ultima volta che Giussani, il 22 maggio 1996, in occasione della uscita della raccolta dei canti più belli di Leopardi, da lui curata per la Biblioteca dello Spirito cristiano dal titolo suggestivo Cara beltà…, ebbe occasione, davanti agli studenti del Politecnico di Milano, di testimoniare le ragioni della sua amicizia con il poeta nata negli anni del Seminario. Attingerò in tre passaggi alla testimonianza di questa amicizia perché che cosa sia il cuore e dove porti lo sorprendiamo in noi, eccitati dalla testimonianza di amici così grandi. Proprio per introdurci alla sublimità del sentire leopardiano ci lesse quella che per lui era la strofa più bella della letteratura italiana, tratta dall’inno Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima«Desideri infiniti,/E visioni altere/crea nel vago pensiere [vago: è l’Ulisse dantesco che sfida il mare infinito, oltre le colonne d’Ercole] /Per natural virtù, dotto concento/Onde per mar delizioso, arcano/Erra lo spirito umano,/Quasi come a diporto/Ardito notator per l’Oceano:/Ma se un discorde accento/Fere l’orecchio, in nulla/Torna quel paradiso in un momento./Natura umana, or come,/Se frale in tutto e vile,/Se polve ed ombra sei, tant’alto senti?/Se in parte anco gentile/Come i più degni tuoi moti e pensieri/Son così di leggeri/Da sì basse ragioni e desti e spenti?».
Commenta Giussani: «È un contrasto insanabile e inconcepibile: "Natura umana", "Misterio eterno dell’esser nostro"; natura umana, se sei così banale come fai ad avere desideri di questo genere, pensieri di questo genere, così grandi? E se qualcosa di nobile c’è in te, che supera la corruzione, la corruttibilità della materia, come mai i più degni tuoi moti da sì basse cagioni – un dolore che viene al dente, un dolore all’orecchio – sono destati e spenti? La circostanza crea l’input, dà l’input per il grande sentimento, la stessa circostanza porta l’impossibilità a proseguirlo per la delusione che incute. Questa è la situazione che interessa Leopardi, che lui ha colto in se stesso».

3. «Non avanzeremo di un passo di là da noi stessi». L’impossibilità moderna

«Misterio eterno dell’essere nostro». Per Giussani il vero Leopardi è qui, non nella disperata negazione finale de La ginestra, per cui viene esaltato dalla cultura contemporanea come precursore del nihlismo. Ma ha ragione chi, come Natalino Sapegno ha spregiato le domande ultime di Leopardi, definite la sua "ossessione" trattandole come «la confusa e indiscriminata velleità riflessiva degli adolescenti, la loro primitiva e sommaria filosofia (che cosa è la vita? a che giova? Qual è il fine dell’universo? e perché il dolore?), quelle domande che il filosofo vero e adulto allontana da sé come assurde e prive di autentico valore speculativo e tali che non comportano risposta alcuna né possibilità di svolgimento»? Ha ragione Natalino Sapegno? No!, ci viene di rispondere di schianto, quelle domande sono le mie, le nostre, senza di esse non c’è vera umanità, né possibilità di grandezza espressiva. È quanto sostiene con forza la grande pianista russa Marija Judina: «Sono ben consapevole dei miei peccati e delle mie debolezze, ma ho l’ardire di pensare che la grandezza dell’uomo non sia principalmente nelle sue doti, bensì nell’impulso ad osare che nasce con lui e muore solo dopo di lui, nel suo cuore che ha sete di infinito; per tacitarlo – diceva citando Dostoevskij – bisognerebbe tagliare la lingua a Cicerone, cavare gli occhi a Copernico, lapidare Shakespeare...».
Eppure nel dramma di questo contrasto insanabile tra l’aspirazione ideale, la grandezza del proprio desiderio e la contraddittorietà delle realizzazioni storiche, l’uomo tende a cedere, per stanchezza e fragilità, per l’impazienza dell’attesa di una risposta compiuta o per la presunzione di essere lui stesso a darsela. Perché non riconosco la possibilità della risposta, tendo a ridurre o a svuotare di senso le domande ultime costitutive del mio umano. Dapprima è una disarticolazione tra la vita e la possibilità del suo compimento, tra la vita e il suo Destino, poi una separazione, infine una disperata negazione. La «saggezza» sta nel rimanere entro la propria misura: il non andare oltre se stessi diventa condizione necessaria per vivere. Una delle formulazioni più efficaci, e sicuramente più densa di conseguenze, è ancora quella classica del filosofo inglese David Hume che apre la sua opera fondamentale Il trattato sulla natura umana: «Fissiamo pure, per quanto è possibile, la nostra attenzione fuori di noi; spingiamo la nostra immaginazione fino al cielo o agli estremi limiti dell’Universo: non avanzeremo di un passo di là da noi stessi, né potremo concepire altra specie di esistenza che le percezioni apparse entro quel cerchio ristretto».
L’uomo che si rinchiude nei propri limiti finisce, orgoglioso o disperato, a coltivare questa illusione di autonomia, questa pretesa di autosufficienza in cui nulla è più veramente atteso. È quanto scrive Pavese in una sua ben nota poesia: «Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno in cui nulla accadrà…La lentezza dell’ora è spietata, per chi non aspetta più nulla» (C. Pavese, Lo steddazzu, 1936). L’esito amaro è, dopo la presunzione, la disillusione, anzi come grida Nietzsche, il disprezzo della propria umanità, ragione, libertà, sete di felicità, disprezzo come condizione per superare l’uomo, tutto ridotto a nulla. Ecco il grido di Zarathustra nel paragrafo 3 della prefazione del libro omonimo: «Quale è la massima esperienza che possiate vivere? L’ora del grande disprezzo. L’ora in cui vi prenda lo schifo anche per la vostra felicità e così pure per la vostra ragione e per la vostra virtù. L’ora in cui diciate: "Che importa la mia felicità! Essa è indigenza e feccia e un miserabile benessere. Ma la mia felicità dovrebbe giustificare persino l’esistenza!". L’ora in cui diciate: "Che importa la mia ragione! Forse che essa anela al sapere come il leone al suo cibo? Essa è indigenza e feccia e un miserabile benessere". L’ora in cui diciate: "Che importa la mia virtù! Finora non mi ha mai reso furioso. Come sono stanco del mio bene e del mio male! Tutto ciò è indigenza e feccia e benessere miserabile!"».
Anche senza giungere al «disprezzo» di Nietzsche è chiaro che negare la possibilità che la vita sia movimento, impeto verso un compimento oltre se stessi, pone radicalmente in crisi la nozione di natura umana. La separazione tra Destino e vita, alla base del dualismo conoscitivo su cui tanto si è soffermato in questi ultimi tempi Carrón (separazione tra sapere e credere) si riverbera nella crisi stessa del concetto di natura umana. Robert Spaemann ha evidenziato la "situazione di stallo" attuale a cui porta il dualismo di ermeneutica e scientismo rispetto alla questione di cos’è l’uomo. Il filosofo tedesco individua due estremi possibili, l’uno nella posizione di Sartre, l’altro in quella del biologo molecolare Dawkins. Da un lato, Sartre concepisce l’uomo come assoluta libertà priva di essenza e di essere: non c’è più natura come dato originale, essa è il prodotto, per così dire dello sguardo dell’uomo su di sé, senza possibilità di legami, anzi ribellione allo sguardo dell’altro ("l’inferno sono gli altri"). È un uomo senza natura, l’uomo è quello che si sente di essere (pensiamo alle conseguenze in termini di identità personale e sessuale, in termini di legami, di convivenza civile ecc..).
All’altro estremo l’uomo è ridotto deterministicamente ai suoi antecedenti biologici e genetici e considerato solo come urgenza di conservare e diffondere i suoi geni egoisti. «Sto considerando una madre come una macchina programmata a fare qualcosa in suo potere per propagare copie dei geni che porta dentro di sé», giacché «noi siamo macchine da sopravvivenza – robot semoventi programmati ciecamente per preservare quelle molecole egoiste nate sotto il nome di geni». Da un uomo senza natura (Sartre) a un uomo che è solo natura (Dawkins) ridotto ai fattori scientificamente misurabili; gli estremi si toccano. Occorre per inciso rilevare che proprio nelle ricerche più avanzate, le cosiddette neuroscienze che studiano il rapporto tra mente e cervello si aprono spiragli interessanti nel dominio del attuale preteso assolutismo scientifico. Senza potere approfondire qui l’argomento basti accennare alle conclusioni di alcuni ricercatori che arrivano ad affermare che il cervello funziona in modo tale da generare credenze: «La domanda religiosa non è più pregiudizialmente rifiutata, semmai depotenziata: gli uomini hanno vissuto di talune credenze, ma la risposta alle domande dell’uomo, anche a quelle ultime, viene e verrà sempre più dalla scienza, evolutasi nel suo rapporto con la tecnologia in tecnoscienza… (che) ha prodotto una sorta di universalismo scientifico, per cui se una cosa ha il marchio della scienza viene considerata indiscutibile. È paradossale: in un mondo che non ammette alcun assoluto, funziona l’assoluto pratico dell’universalismo scientifico. Io non contesto la correlazione tra cervello e mente, dove la mente è la dimensione psichica in senso largo; ma mi rifiuto di considerare il rapporto tra cervello e mente nei termini di causa ed effetto. La rilevazione dei processi cerebrali non è la spiegazione totale del fenomeno mente. Qual è il fattore che impedisce questo appiattimento? La tradizione lo chiama anima. Oggi è diventata un tabù. Invece bisogna ritornare a parlarne riconoscendo che esiste una dimensione dell’uomo che non è puro cervello, né pura mente, né puro rapporto tra mente e cervello, ma un oltre, un altro, l’anima appunto, connessa in maniera strutturale al mio corpo».
Infatti ciascuno di noi, senza essere scienziato, a una attenta osservazione di sé in azione, scopre due realtà diverse irriducibili l’una all’altra (corpo e anima) e che costituiscono l’unità del soggetto; «tentare di ridurre l’una all’altra sarebbe negare l’evidenza dell’esperienza che diverse le presenta».

4. «Siccome torre in solitario campo tu stai solo gigante in mezzo a lei». Il cuore irriducibile

Nella confusione che ci troviamo a vivere con tante manifestazioni di quella, per dirla con Hannah Arendt «sorta di ribellione [dell’uomo] contro l’esistenza umana come [gli] è stata data, un dono gratuito proveniente da non so dove (parlando in termini profani), che [l’uomo] desidera scambiare, se possibile, con qualcosa che lui stesso abbia fatto». In questo clima, in questo travaglio nessuno di noi può sottrarsi, pena la perdita di se stesso, a quell’impegno con la propria umanità dentro il reale, a riconoscere nell’esperienza quei fattori, anzi quel fattore che è, che opera continuamente in noi come criterio originale di giudizio. Anche in questo caso volgiamoci alla scoperta di questo fenomeno. Giussani lo coglie emergere in Leopardi ne Il pensiero dominante«Dolcissimo, possente/Dominator di mia profonda mente;/Pensier che innanzi a me sì spesso torni./Di tua natura arcana/Chi non favella?Il suo poter fra noi/Chi non sentì? Pur sempre/Chi in dir gli effetti suoi/Le umane lingue il sentir proprio sprona,/Par novo ad ascoltare ciò ch’ei ragiona [anche se di questa cosa sempre se ne parla, essa è sempre nuova]/Come solinga è fatta/La mente mia d’allora/Che tu quivi prendesti a far dimora!/Ratto d’intorno al par del lampo/Gli altri pensieri miei/Tutti si dileguar. Siccome torre/In solitario campo,/Tu stai solo gigante, in mezzo a lei».
«In questo contrasto, che si dilata nel tempo», commenta Giussani, «nella evoluzione del tempo e dell’opera umana, c’è una cosa, c’è un fenomeno, il fenomeno di una cosa, che è come incorruttibile di fronte alla lotta dei contrasti, non riesce ad essere sgretolata, ne parlano tutti ed è sempre nuova. Immediatamente può prendere spunto dalla donna, la donna amata, perciò da qualche cosa che si ama, più grande del solito: tutto scompare quando uno fissa gli occhi in questa presenza». Ma «se il simbolo di tale fenomeno è la donna, il fenomeno è molto più dilatato e grande che l’occasione questo essere, che il tempo spazza via come spazza via me: questo fenomeno, possiamo dire, la sete di bellezza, la sete di verità, la sete di felicità, è il cuore… l’uomo percepisce dentro di sé una destinazione alla felicità, alla verità, alla bellezza, alla bontà alla giustizia. Tutti giudicano in base a queste cose, almeno – anche superficialmente – un po’ tutti. Ma quello che di fatto è più impressionante è che non si possono togliere: in mezzo alla ‘gran ruina’, per usare la parola dantesca, c’è questa cosa che si erge impetuosa, grandiosa: ‘Possente dominator di mia profonda mente’, ‘Ratto d’intorno intorno al par del lampo’; gli altri pensieri dell’uomo, di fronte a questo si dileguano… Quello che è interessante non è il riferimento tipicamente femminile in cui Leopardi vedeva e aspettava la risposta alla sua sete di felicità, ma è l’esistenza di questo fenomeno, il fenomeno di questo fattore, che il tempo e le vicende non riescono a definire, a ridurre sotto il loro dominio, disfacendolo… Tutti gli uomini lo vivono; se non vive questo fenomeno, l’uomo crepa d’inedia, di anoressia; nella misura in cui l’uomo non vive, non si accorge, non si alimenta di questa eccezione al naufragio universale, si annulla…».
L’ha accennato Marco nell’introduzione, tutti parlano di cuore, ma per lo più riducendolo a sentimento, a un fascio di reazioni, agli stati d’animo. Capita spesso a ciascuno di noi. Si intende spesso il cuore come l’ambito dell’irrazionale soggettivo contrapposto all’ambito del razionale oggettivo, assecondando quella frattura tra sapere, razionalità scientifica, e credere, sentimento soggettivo, su cui a lungo si è soffermato Carrón in questi tempi. Voglio fare notare senza poterla e volerla qui sviluppare in modo adeguato che questa frattura dualistica è all’origine della crisi della nozione stessa di natura umana. Che viene o negata in nome di una libertà assoluta. Potremmo citare Sartre. Una libertà sciolta da ogni concreta fisicità, dai rapporti, dal riconoscimento dell’altro, dai condizionamenti storici e esistenziali. Una libertà assoluta che si autodetermina in tutto e per tutto. O invece una natura ridotta ai soli antecedenti genetici, misurabili, determinabili da una scienza che oggi si presenta, anche se con interessanti eccezioni, come l’unica depositaria di pretese certezze assolute. Che cosa resta di propriamente umano dunque?
Invitandoci alla lealtà con la nostra esperienza, Giussani ci aiuta a recuperare e a vivere come nessuno ha mai fatto nella contemporaneità, nessun pensatore, nessun educatore ci aiuta a recuperare e a vivere in modo nuovo e geniale il significato della nozione, che è biblica, di cuore. Tradizionalmente nella Bibbia, "cuore" indica la sede dell’impeto originale della persona, la fonte stessa della personalità cosciente e libera. Quella di Giussani è una concezione potentemente unitaria che, salvando la centralità del soggetto come criterio del giudizio, così cara alla sensibilità moderna e contemporanea, mette in luce l’oggettività, il dato strutturale di queste esigenze ed evidenze originali. Il cuore è un dato primordiale, "esperienza elementare" che costituisce il volto dell’uomo nel suo raffronto con tutta la realtà. Il cuore è il criterio di giudizio che è dentro di noi, immanente a noi, impronta interiore ma che non decidiamo noi. Ci è dato con il nascere uomini. Io ho dentro di me il criterio per sapere che cosa veramente mi corrisponde della realtà. In che cosa consiste, dunque, questo cuore o "esperienza elementare"? Rileggiamo una delle pagine più famose de Il senso religioso: «È un complesso di esigenze e di evidenze con cui l’uomo è proiettato dentro il confronto con tutto ciò che esiste. La natura lancia l’uomo nell’universale paragone con se stesso, con gli altri, con le cose, dotandolo – come strumento di tale universale confronto – di un complesso di evidenze ed esigenze originali, talmente originali che tutto ciò che l’uomo dice o fa da esse dipende…Una madre eschimese, una madre della Terra del Fuoco, una madre giapponese danno alla luce esseri umani che tutti sono riconoscibili come tali, sia come connotazioni esteriori che come impronta interiore. Così, quando essi diranno "io" utilizzeranno questa parola per indicare una molteplicità di elementi derivanti da diverse storie, tradizioni e circostanze, ma indubbiamente quando diranno "io" useranno tale espressione anche per indicare un volto interiore, un "cuore" direbbe la Bibbia, che è uguale in ognuno di essi, benché tradotto nei modi più diversi».
Qui sono poste le radici per il superamento di quell’esasperato soggettivismo, di quella affermazione di sé all’infinito (anarchia) che rappresenta anche per noi la tentazione più affascinante, «ma è tanto affascinante quanto menzognera. E la forza di tale menzogna sta appunto nel suo fascino, che induce a dimenticare che l’uomo prima non c’era e poi muore… È molto più grande e vero amare l’infinito, cioè abbracciare la realtà e l’essere, piuttosto che affermare se stessi di fronte a qualsiasi realtà... Perché in verità l’uomo afferma veramente se stesso solo accettando il reale, tanto è vero che l’uomo comincia ad affermare stesso accettando di esistere: accettando cioè una realtà che non si è data da sé».
Non mi sono dato da me, sono fatto; è questa la prima evidenza che si ridesta nell’impatto con il reale. Pensiamo al bellissimo decimo capitolo de Il senso religioso. È nell’impatto con il reale che il cuore, questa complessa e pur semplice esperienza, è messo in moto, immediatamente. Il cuore emerge come «imponenza dei criteri con cui la ragione giudica se stessa (auto-coscienza)», come «i principi a cui essa si affida per essere e per esistere. In ogni singola esperienza, nella rilevazione dei criteri che giudicano l’esperienza stessa e con cui dall’esperienza si può giudicare il mondo, questa emergenza dei criteri ultimi per la ragione è immediatamente sensibile, è immediata, è automatica».
Qui l’affermazione che solo a prima vista sembra sorprendente: cuore si identifica con ragione, che è coscienza della realtà nella totalità dei suoi fattori, cuore si identifica con ragione nel suo senso pieno. È intelligenza, conoscenza affettiva, è la luce dell’intelligenza che viene colpita, affecta. La ragione si attua quando è colpita, non quando si impone. «Perché chiamarlo cuore invece di ragione? Perché il cuore è il luogo dell’affectus , ma l’affectus non è antitetico a ragione, è l’aspetto ultimo della ragione, della dinamica ragionevole. Per cui il cuore è la sede di quelle evidenze e esigenze originali che proiettano l’individuo sulla realtà... cercando di registrare come essa è – rendersi conto, l’autocoscienza – secondo la totalità dei suoi fattori… La ragione coglie la realtà sostenuta dall’affettività propria di un giudizio di corrispondenza tra la realtà e il cuore, le esigenze del cuore… Poi entra in gioco la spada della libertà, che può accettare questo, (e l’accettazione è amore, afferma l’essere, dice tu), o non accettare, (questa è menzogna, perché la logica di questo non accettare è il niente)».
Il contenuto dell’esperienza è la realtà, ma l’esperienza non è, come normalmente tutti ritengono, il semplice provare qualcosa. Ciò che si prova diventa esperienza quando è giudicato dai criteri del cuore: se è veramente vero, se è veramente bello, se è veramente buono, se è veramente felice.
«Ogni esperienza implica l’esperienza elementare, cioè ogni esperienza è giudicata da qualcosa che c’è in essa e che si chiama esperienza elementare. è la percezione inevitabile di ciò che l’uomo in tutte le cose cerca: per la soddisfazione di sé (satisfacere): per essere completo».
L’uomo è educato dall’esperienza, non da ciò che prova. Questi criteri che fanno diventare ciò che proviamo esperienza sono infallibili. Certo sono infallibili come criteri, non come giudizi, ci può essere una infallibilità applicata male, o non applicata affatto, addirittura contraddetta, come tante volte ciascuno di noi sperimenta. Ma in ogni circostanza della vita, in ogni momento la realtà fa balzare fuori i criteri del cuore, l’esigenza ultima di essere veramente se stessi. Basta un istante, una delicatissima, ultima possibilità. Vorrei ricordare a questo proposito la vicenda, riportata da tutta la stampa, di Richard Rudd, inglese di 43 anni. Richard Rudd aveva sempre detto alla famiglia che se gli fosse accaduto qualcosa non avrebbe mai voluto essere tenuto in vita da una macchina. Ma si sbagliava. Dopo essere rimasto paralizzato nell’ottobre 2009 in un incidente in moto, il 43enne inglese autista di autobus, nel momento decisivo, nell’ultimo momento utile prima che staccassero le macchine ha fatto il possibile per far capire ai medici che non voleva morire. Con un segno della pupilla, per tre volte di seguito, ha detto sì al medico che gli chiedeva se voleva vivere ancora. E così è stato. Oggi, trascorsi nove mesi da quel momento cruciale, Rudd rimane paralizzato e bisognoso di cure costanti, ma riesce a comunicare con i familiari e le figlie, Charlott di 18 anni e Bethan di 14: sorride, muove gli occhi e la testa. Basta un istante, anche in circostanze estreme, dolorose, complicate, perché il cuore sia colpito e ridestato e manifesti potentemente la sua voce.
Facciamo un passo ulteriore. Abbiamo detto che la ragione, coscienza della realtà secondo la totalità dei suoi fattori, rigenera continuamente e utilizza come criterio ultimo che giudica il rapporto tra l’uomo e la realtà che sta sperimentando, principi che sono dentro di lui, il suo cuore. Domandiamoci: è proprio vero che questo è tutto? Per rispondere riprendiamo il famoso esempio della sveglia proposto da Giussani: «C’era dunque sul tavolo di casa sua una sveglia. Siccome lui era un bambino molto intraprendente e attivo, curioso, siccome il papà e la mamma erano andati via e c’era soltanto la sorella minore….ha visto la sveglia…, si è guardato attorno, ha preso la sveglia e l’ha smontata tutta. I pezzetti che si potevano contare… contati tutti erano 353… La sveglia era fatta di 353, ma quei 353 fattori non è più capace di metterli insieme. Perché? Perché gli manca l’idea della sveglia. Era un piccolo bambino e non un orologiaio svizzero… La ragione – che è la mente del bambino – non è capace di fare la sveglia… manca un fattore... l’idea della sveglia… In tal modo la ragione implica l’affermazione dell’esistenza del mistero, intendendo per mistero un fattore presente in ogni esperienza, che non appartiene ai fattori sperimentabili, numerabili, calcolabili, dell’esperienza stessa. L’idea della sveglia è oltre il livello dei pezzi. Non è un altro pezzetto, è un’altra cosa».
Senza la percezione e il riconoscimento del Mistero come fattore della realtà non c’è esperienza, di qualunque cosa si tratti. Il reale ci sollecita a ricercare qualcosa d’altro oltre quello che immediatamente ci appare, qualcosa d’altro che è il significato ultimo di ciò che appare. È la dinamica del segno. Bloccare questa dinamica alla reazione immediata, all’apparenza, come tante volte accade, sarebbe soffocare irragionevolmente l’impeto originale con cui il cuore, provocato, si protende sul reale.
Ritorniamo al dialogo tra Giussani e Leopardi per cogliere come Leopardi vive questo, soprattutto nell’inno Ad Aspasia, che è stata la sua fiamma più potente: «È come se egli dicesse: come sei stata bella, com’eri bella, ma la tua bellezza non era responsabile di se stessa: la tua bellezza era come l’estrema voce dell’espressione di un cuore che stava sotto, nascosto; oppure era come l’inizio di una prospettiva di cui non si vedeva la fine, oltre te, al di là di te».
Raggio divino al mio pensiero apparve,/Donna, la tua beltà. Simile effetto/Fan la bellezza e i musicali accordi,/Ch’alto mistero d’ignorati Elisi [Paradiso]/Paion sovente rivelar. Vagheggia/Il piagato mortal [l’uomo colpito da questa violenza d’amore] quindi la figlia/Della sua mente….
Commenta Giussani: «Non "è" un raggio divino; raggio divino al pensiero dell’uomo "appare" la sua bellezza. La bellezza del viso della donna è strumento di qualcosa d’altro. Quando il valore di una cosa sta, è situato in un’altra cosa, della prima cosa si dice che è un segno. "Vagheggia il piagato mortal quindi" quella che è figlia della sua mente: è la forza del suo cuore che investe quel volto che lo attrae e lo colpisce per la sua bellezza, ma lo investe creando una prospettiva, una prospettiva in esso che esso non ha… è un segno, è una realtà che è segno, che vale in quanto segno».

5. «Di te ha detto il mio cuore: "Cercate il suo volto"; il tuo volto Signore io cerco» (Sal 27). Cristo, l’impossibile corrispondenza
Il cuore, di fronte alla realtà come segno, è costretto ad ammettere l’esistenza di un incomprensibile, di un inarrivabile, e per questo non smette di essere esigenza di poter conoscere quell’incognita. Hannah Arendt acutamente osserva: «Il cuore umano è la dimora, ma non la patria». Ma quanto più un uomo ha il senso del mistero, tanto più si sente piccolo di fronte all’impossibile. Piccolo di fronte all’impossibile e grande nello struggimento di poter entrare in rapporto con lui. È la grandezza di Leopardi, che si manifesta nel vertice della sua espressione poetica, nell’inno Alla sua donna. A un certo punto della sua vita Leopardi intuì, presentì che il segno celebrato nell’inno Ad Aspasia era accaduto.
«Viva mirarti omai/nulla speme m’avanza;/S’allor non fosse, allor che ignudo e solo/Per novo calle a peregrina stanza/Verrà lo spirto mio…».
«Dunque, per un pezzo della sua vita – osserva Giussani - Leopardi aveva creduto di poterla vedere per la strada; poi disperò di poterla vedere viva in questo mondo e aggiunse: a meno che io ti possa vedere altrove, chissà dove, ma altrove. Che cosa, vedere? Che cosa credeva di poter vedere viva per la strada? La bellezza. Non Aspasia, non una delle decine di donne di cui si è innamorato, ma la Donna, con la D maiuscola, la Bellezza con la B maiuscola…». Quando Gaetano Corti, professore di Giussani, commentò in prima Teologia la frase del Prologo del Vangelo di San Giovanni «Il Verbo si è fatto carne», il presentimento avuto da Giussani alla lettura dell’inno fu chiaro: «Il Verbo si è fatto carne vuol dire che la Bellezza si è fatta uomo, la Giustizia si è fatta uomo, la Bontà si è fatta uomo, la Verità si è fatta uomo. "Quid est veritas? Vir qui adest". Cos’è la verità? Un uomo presente. Gesù era profetizzato dal genio di Leopardi milleottocento anni dopo la sua esistenza».
Ecco l’ultima strofa dell’inno Alla sua donna , quella che abitualmente Giussani ha recitato come ringraziamento alla Comunione: «Se dell’eterne idee/L’una sei tu cui di sensibil forma/ Sdegni l’eterno senno esser vestita,/E fra caduche spoglie/Provar gli affanni di funerea vita;/O s’altra terra ne’ superni giri/Fra mondi innumerabili t’accoglie,/E più vaga del Sol prossima stella/T’irraggia, e più benigno etere spiri;/Di qua dove son gli anni infausti e brevi,/Questo d’ignoto amante inno ricevi». Commenta Giussani: «D’ignoto amante inno ricevi. Ignoto amante. L’uomo ignoto amante di questa bellezza incarnata, che se non è per le vie del mondo, sarà da qualche parte, in qualche altra stella del cielo, in qualche mondo platonico. Ignoto amante: io ignoto amante di Te; Tu, Dio fatto carne, ignoto amante di me, ignorato da me, non conosciuto da me, non ricordato da me. Letteralmente questo è il messaggio cristiano, come l’ho conosciuto io, come lo è obiettivamente. Quello che Leopardi esprime come suprema esigenza di poter vedere e vivere il rapporto con la bellezza fatta carne, è accaduto duemila anni fa: Giovanni e Andrea rappresentano i primi interlocutori squassati dallo stupore di sentire quell’uomo parlare. Il genio di Leopardi s’accosta, quindi, al genio religioso di San Giovanni».
Ma l’uomo, che pure - come viene descritto dai più grandi Padri della Chiesa, dai più grandi teologi, soprattutto quelli medioevali - è capax Dei, desiderio naturale di vedere Dio, mai avrebbe potuto immaginare una risposta così al grido del suo cuore: «Di Te ha detto il mio cuore: "Cercate il suo volto"; il tuo volto, Signore, io cerco» (Sal 27). Risposta tanto impossibile a immaginarsi prima che accadesse come avvenimento storico, quanto supremamente conveniente nel suo libero e totalmente gratuito manifestarsi. Per Giovanni e Andrea, per i primi che lo seguirono «Gesù Cristo [...] si rivela come una presenza che corrisponde in modo eccezionale ai desideri più naturali del cuore e della ragione umani. Egli mostra la propria eccezionalità. Perché? Perché è l’uomo di fronte a cui il cuore umano avverte la corrispondenza per cui è naturalmente fatto, e che non prova mai, neanche di fronte alle cose più coinvolgenti e belle della sua esistenza – se non altro per un sospetto di brevità che adombra un’ultima tristezza. Nessuno è come Lui, devono riconoscere i suoi; per non crederti – dice san Pietro con la chiarezza di un impeto, secondo il suo temperamento – non dovremmo credere ai nostri occhi. Tale evidenza eccezionale non annulla, anzi esalta la libertà umana: dinanzi al "vieni e seguimi" ripetuto senza distinzioni a pescatori, mafiosi, prostitute, sapienti e politici, ognuno è chiamato a "svelare i profondi pensieri" del proprio cuore, a decidere se aderire al vero più che alla propria idea o al proprio tornaconto».
Gesù Cristo non si sostituisce al dramma del cuore umano, ma lo rende veramente possibile, perché si rivela come l’unica risposta totalmente corrispondente a tutte le esigenze costitutive del cuore e, rispondendovi, le ridesta e le purifica continuamente, a una condizione che viene molto bene inquadrata all’inizio, nell’introduzione di All’origine della pretesa cristiana: «Non sarebbe possibile rendersi conto di che cosa voglia dire Gesù Cristo se prima non ci si rendesse conto della natura di quel dinamismo che rende uomo l’uomo. Cristo si pone infatti come risposta a ciò che son "i", e solo una presa di coscienza attenta e anche tenera e appassionata di me stesso mi può spalancare e disporre a riconoscere, ad ammirare a ringraziare, a vivere Cristo. Senza questa coscienza anche quello di Cristo diviene un puro nome».
Nell’incontro con Cristo l’io sperimenta una passione per il proprio destino, una tenerezza verso la propria sete di felicità impensabili da parte di chiunque, che si condensano in quella domanda che nessun uomo ha mai rivolto a un altro uomo: «Qual vantaggio avrà l’uomo se guadagnerà tutto il mondo e poi perderà se stesso? O che cosa l’uomo potrà dare in cambio di sé?» (Mt 16,26; cfr. Mc 8,3ss.; Lc 9, 25s.). È nell’appartenenza a Lui che il cuore dell’uomo che cerca il suo Destino percepisce la corrispondenza ultima, altrimenti impossibile. Con tenerezza ha ripetuto in quell’ultima sera, in quell’ultima cena prima della sua morte: «Rimanete in me e io in voi... perché senza di me non potete fare nulla» (Gv 15,4.6).
Realisticamente, l’uomo senza l’aiuto gratuito di Cristo, non riesce a vivere a lungo senza farsi del male, senza andare gravemente contro se stesso, quell’uomo che ha nel cuore lo stimolo dell’ideale, ma che ha anche dentro la sua realtà personale come una forza contraddittoria che cerca di trascinarlo. Di questa fragilità approfitta sempre il potere, qualsiasi potere, grande o piccolo, con il quale noi ci troviamo spesso conniventi. Nel libro che verrà presentato l’ultimo giorno qui al Meeting, il libro delle équipes degli anni 1986/1987 c’è un passaggio interessante sul potere: «Il potere fa addormentare tutti, il più possibile. Il suo grande sistema, il suo grande metodo è quello di addormentare, di anestetizzare, oppure, meglio ancora di atrofizzare. Atrofizzare che cosa? Atrofizzare il cuore dell’uomo, le esigenze dell’uomo, i desideri, imporre un’immagine di desiderio o di esigenza diversa da quell’impeto senza confine che ha il cuore. E così cresce della gente limitata, conclusa, prigioniera, già mezzo cadavere, cioè impotente». L’uomo è uno ma diviso, fugge dal suo cuore ("fugitivus cordis sui" dice Agostino) non usa, o usa male, o parzialmente (per il peccato originale) quei criteri che sono infallibili. Il cuore dell’uomo è tentato dal sogno, può atrofizzarsi, riducendo l’ampiezza infinita dei suoi desideri perché: “Le esigenze del cuore sono esigenze di felicità; senza la fede questa certezza di felicità non può essere ragionevole, ma acquista la forma, una forma che le dà il cuore stesso, prendendo pretesto da qualche presenza che non è ancora la grande Presenza (l’uomo per la donna, il bambino per la madre, i soldi per chi ama i soldi, l’esito politico per chi fa politica) e questo si chiama sogno; il cuore dell’uomo è tentato dal sogno; invece il cuore dell’uomo è fatto per la felicità. Se riconosce la grande Presenza, capisce che è dalla grande Presenza che può venire la ragione della certezza che i suoi desideri si attuino; perciò domanda con l’aiuto della grande Presenza di raggiungerli, così come essa vi ha dato forma eterna (195) [...] tutte le circostanze in cui l’uomo vive son tentazione di sogno oppure segni dell’ideale… L’uomo scopre che l’attrattiva che tutte le circostanze hanno è qualcosa di provvisorio che rimanda all’attrattiva definitiva e ultima della grande Presenza… Perciò il desiderio, che rappresenta l’essenza della speranza, è che Cristo venga, che, anche nelle circostanze provvisorie, Cristo sia più raggiunto, Cristo sia più glorificato…».

6. «Chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi» (Gv 14, 12)
L’ultimo punto è introdotto da un’altra frase detta in quell’ultima cena: «Chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi».
«Rimanete in me e io in voi» è l’esperienza possibile oggi nell’appartenenza, attraverso il Battesimo, alla compagnia della Chiesa, in cui si manifesta la contemporaneità di Cristo, l’unica in grado di consentirci di stare davanti al reale da uomini. «Essere contemporanei a Cristo è l’unica condizione perché inizi realmente la conoscenza di Lui come consistenza di tutte le cose (Col 1), come inizio di un popolo nuovo (Gal 3), come criterio con cui affrontare la totalità dell’esperienza (cattolicità), e come origine di posizione culturale, di un punto di vista che permette di vagliare tutto e trattenere ciò che vale (1Ts 5)».
La compagnia cristiana è il luogo in cui l’esperienza di quella novità di vita, altrimenti impossibile altrove, inizia a manifestare nel tempo, come albore, non come giorno pieno, la realtà della promessa fatta da Cristo ai suoi, che corrisponde alla grandezza delle attese del nostro cuore: «Chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi» (Gv 14,12). Non si tratta certo della promessa di un successo mondano, di necessaria grandiosità di esiti, di una raggiungibile egemonia, soprattutto in questi tempi drammatici in cui la Chiesa, ferita per i limiti e i peccati dei suoi membri, è avversata con una insistenza che rende particolarmente attuale la cruda domanda di Eliot nei Cori da La Rocca: «Perché gli uomini dovrebbero amare la Chiesa? Perché dovrebbero amare le sue Leggi? Essa ricorda loro la vita e la morte e tutto ciò che vorrebbero scordare. È gentile dove sarebbero duri e dura dove essi vorrebbero essere teneri». Qual è dunque la grandezza dell’opera per cui vale la pena vivere rischiare edificare instancabilmente, morire. Sempre Eliot: «E se il sangue dei martiri deve fluire sui gradini, dobbiamo prima costruire i gradini e se il tempio deve essere abbattuto, dobbiamo prima costruire il tempio».
L’opera più grande è, in ogni tempo, in ogni cultura, in ogni frangente storico, il cambiamento, la rinascita dell’io nell’incontro con Cristo e la sua libera appartenenza a Lui, che investe, come ci ha ricordato Carrón qui a Rimini quest’anno, «il modo stesso di guardare, di percepire, di giudicare, di sentire di manipolare, di trattare la realtà (personale, sociale, culturale, politica)». Cristo stesso insiste nella sua promessa. «Non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del Vangelo, che non riceva già nel presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni e nel futuro la vita eterna» (Mc 10, 29s.).
I cristiani con il dono dello Spirito nel Battesimo consapevolmente vissuto in una compagnia ecclesiale viva, hanno la possibilità di cominciare a sperimentare la realtà in modo nuovo, ricco di verità, carico di amore: «Ed è proprio la realtà quotidiana a trasformarsi, è il tempo presente quello in cui si riceve "di più", sono i normali connotati dell’esistenza umana a essere mutati: l’amore tra un uomo e una donna, l’amicizia tra gli uomini, la tensione della ricerca, il tempo dello studio, del lavoro». Sono i connotati normali dell’esistenza umana attraverso cui noi camminiamo al Destino, senza censurare e rinnegare nulla, senza lasciarci imprigionare dalla bellezza delle cose transitorie, come ricorda un Prefazio della Liturgia ambrosiana, richiamato da Giussani nell’ultimo libro appena citato: «Dio forte e buono, accordandoci i beni che passano, tu ci sospingi al possesso della felicità che permane… e, mentre concedi le consolazioni della vita presente già prometti le gioie future, perché ci sia dato fin d’ora di pregustare un’esistenza perenne e la bellezza delle cose transitorie non ci imprigioni» (Prefazio, lunedì V quaresima).
Questo sguardo nuovo, sorgente di un’iniziativa generatrice di azioni e fatti di un’umanità diversa, è il contributo fondamentale del cristiano al mondo, anzi, come ha recentemente osservato Benedetto XVI (all’ultima Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio per i Laici): «Il contributo dei cristiani è decisivo solo se l’intelligenza della fede diventa intelligenza della realtà, chiave di giudizio e di trasformazione».
Uno sguardo che è carico di ardore e di passione per Cristo, per cui la vita, in qualunque circostanza, in qualunque azione è dominata dallo struggimento che Lui si manifesti, secondo la bellissima esortazione di san Paolo ai Corinti: «L’amore di Cristo ci strugge, al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché coloro che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro» (2Cor 5,14s). Ogni azione, ogni fatica, ogni sacrificio, se vissuti nella commozione per il fatto che Egli dà la vita per noi (la carità), se diventa riconoscimento che la consistenza di tutto è Lui e grido che Egli si manifesti di più (si chiama offerta), tutto partecipa coscientemente al disegno di salvezza del mondo in Cristo. Così ogni azione, anche il gesto più umile e nascosto, può avere un valore e una dignità cosmica: dal lavare i piatti al guidare la Chiesa, dal badare a un bambino, al soffrire in un letto di ospedale, dallo stare in carcere, al governare un Paese. «Il punto di forza del cristianesimo - è una frase del nostro grande amico padre Men', prete ortodosso, di cui ricorre il 9 settembre il ventesimo anniversario del martirio - consiste proprio nel non negare nulla, ma nell’affermazione, nell’ampiezza, nella pienezza d’orizzonte che afferma tutto».
Così la grandezza dell’uomo, che rimane solo grido di totalità in Caligola, si compie come affermazione totale di amore in Miguel Mañara: «Io sono Mañara, colui che mente, quando dice, "io amo", e perché ho detto all’Eterno che l’amavo, il mio cuore è gioioso e le mie mani sono desiderabili come pane. Io sono Mañara e Colui che amo mi dice: "Queste cose non sono state [se ha rubato, se ha ucciso, che queste cose non siano state..]. Egli solo è"».
Lasciatemi concludere leggendo una lettera scritta nel 1993 da un grande amico, morto due anni orsono, Andrea Aziani, Memor Domini, a un suo compagno di avventura in Perù, in occasione di una vacanza di universitari. Essa bene testimonia la grandezza del cuore umano totalmente afferrato da Cristo e dall’amore per i fratelli e la possibilità di generazione di vita nuova che da questa affezione scaturisce:
«Caro Dado, un immenso abbraccio e un affettuosissimo ricordo. Come posso non dirti che mi manchi? Forse non ci crederai, ma il fatto è che a un certo punto si scopre che siamo veramente necessari (passi la parola) gli uni per gli altri. Ma, in realtà, ciò che è necessario è la nostra compagnia o, meglio, la nostra compagnia vocazionale. Per chi? Per noi stessi, per gli amici, per i nemici, per il mondo. Sono certo che in questo ‘bagno missionario’ di questi giorni emerga, cresca, potente e lieta in te – quindi in noi tutti – la coscienza, la certezza di quello che è Cristo in noi e per noi. O quam amabilis es bone Jesu. Sentivo nel ritiro di Avvento don Giussani scalpitare nel commentare questi versetti. Buon lavoro per questa ultima tappa. Che l’unità tra voi e fra tutti voi e il movimento sia il leitmotiv, il soggetto capace di rendere possibile e percepibile l’Avvenimento. Che qualcuno si innamori di ciò che ha innamorato noi! Ma per questo, perché sia così, noi dobbiamo bruciare, letteralmente ardere di passione per l’uomo, perché Cristo lo raggiunga. Il fuoco ha da ardere, ti ricordi Santa Caterina? Grazie per la tua splendida, umile e generosa presenza e amicizia fraterna».
Auguro a tutti voi e a me questo ardore, domandiamolo ogni giorno.
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