venerdì 3 aprile 2015

Per la redenzione dell’umanità



Ultima cena ed equità. 

(Abraham Skorka) Secondo il rituale della Pasqua ebraica, nelle prime due sere della festività nella diaspora, e solo nella prima in Israele, si deve celebrare una cena speciale regolata da diversi passi dal grande contenuto simbolico. Il suo primo obiettivo è di ricreare l’ultima cena degli avi in terra d’Egitto, più di 3300 anni fa, prima della loro uscita verso la libertà, per narrarne eloquentemente la storia ai propri figli. Il Pentateuco indica in quattro punti il significato pedagogico, di trasmissione, che tale cena deve avere (Esodo, 10, 2; 12, 26-27; 13, 8; 13, 14), sottolineando l’importanza di questa lezione che i genitori devono offrire ai figli.
Spiegare che cos’è la libertà appare a prima vista come esporre un tema evidente e facilmente comprensibile, ma in realtà si tratta di una delle materie più complesse e cruciali nella storia umana. Al termine della seconda guerra mondiale — quando si cercava affannosamente un’ipotesi per capire com’era potuto accadere che il popolo tedesco, artefice nei primi decenni del XX secolo dei progressi più significativi nel campo delle scienze e delle arti, avesse potuto cedere dinanzi al fascino di un demente — Erich Fromm scrisse il suo famoso Paura della Libertà. Era la stessa ricerca che intraprese Hannah Arendt e che plasmò nel suo noto libro Le origini del totalitarismo. Il significato profondo dell’essere liberi non si rivelò così elementare e semplice come lo era stato in un passato lontano.

L’attuale realtà mondiale dimostra chiaramente quanto l’umanità sia lungi dall’avere acquisito una comprensione profonda di questo concetto. Le società che continuano a idolatrare idee o individui, vedendo in essi la fonte redentrice per tutte le loro mancanze, e gli individui che, pur avendo acquisito vaste conoscenze in diverse discipline, vendono la propria dignità per denaro o per una posizione sociale, sono meri esempi di una carenza spirituale di cui la Bibbia ci avverte drammaticamente e che ci esorta a superare.
L’agire impulsivamente, senza alcuna analisi critica, e l’inebriarsi soddisfacendo gli istinti più bassi senza essere consapevoli del limite, sono manifestazioni di una realtà in cui dominatori e dominati rendono omaggio alle divinità che riempiono tristemente il tempio idolatrico eretto nella realtà postmoderna attuale, così ricca di sorprendenti progressi tecnologici e ridondante del paganesimo più abietto. Una delle frasi che si ripete nel racconto biblico è che Dio deve giudicare non solo il faraone, despota schiavista, ma anche le sue divinità, nelle quali ripone la sua fede e attraverso le quali giustifica il suo potere e agisce (Esodo, 12, 12; Numeri 33, 4). La storia non è stata ancora superata.
La Bibbia non solo enuncia concetti e norme generiche con cui organizzare una società fondata sulla giustizia, condizione necessaria per garantire la libertà dei suoi membri, ma spiega anche la loro quintessenza.
Nel capitolo 25 del Levitico si elenca una serie di norme per garantire la giustizia sociale. Ogni famiglia deve avere un terreno inalienabile, di sua proprietà. Se i suoi membri non potranno lavorarlo per ottenerne frutti, lo potranno affittare. La terra sarà lavorata per sei anni e il settimo riposerà. Dopo sette cicli, riposerà anche nell’anno quinquagesimo, chiamato giubileo. In quell’anno scadranno tutti gli affitti e i terreni torneranno ai loro proprietari. I latifondi e la miseria che generano sono limitati da questa norma, rudimento di quello che fu conosciuto nel XX secolo come “riforma agraria”.
L’aiuto al prossimo perché possa vivere con dignità viene descritto dettagliatamente in questo capitolo che si conclude con il versetto: «Poiché i figliuoli d’Israele son servi miei; sono miei servi, che ho tratto dal paese d’Egitto. Io sono l’Eterno, l’Iddio vostro» (Torah, Levitico, 25, 55). Solo l’uomo libero può servire Dio e questa condizione si può raggiungere attraverso la giustizia sociale e l’equità.
Ma come definire esistenzialmente l’equità sociale? Al di là delle norme e dei tecnicismi legali, che cos’è l’equità sociale che garantisce la libertà piena dei membri di una società, è regolata da un sistema giuridico e si considera liberamente organizzata?
La risposta si trova nel versetto 36 del suddetto capitolo: «E viva il tuo fratello presso di te». Non basta offrire doni, né alleviare umilmente la fame. Si devono garantire condizioni minime di educazione, cultura, alimentazione, salute e tutto il necessario per un’esistenza dignitosa, affinché i membri della società si ritrovino affratellati nelle loro condizioni di vita.
Non basta aiutare quelli che stanno “fuori dal sistema”; tutti devono stare dentro il sistema, come fratelli che condividono armoniosamente la propria vita sotto uno stesso tetto. Solo allora il messaggio delle gesta d’Egitto acquista il suo significato ultimo. Parlare di redenzione vuol dire riferirsi alla realizzazione di questo progetto di vita. Perciò la liturgia ebraica insegna che si deve ricordare la storia dell’uscita dall’Egitto ogni giorno e ogni sera della vita.
L’ultima cena narrata nei testi dei Vangeli è quella con cui Gesù e i suoi discepoli celebrarono la Pasqua a Gerusalemme, una delle tre festività del pellegrinaggio alla città e al Tempio che si trovava al suo centro. In quella cena rituale — in cui, a quel tempo come nel presente, i loro fratelli ebrei mangiano solo pane azzimo, il pane della povertà — fu istituita l’Eucaristia. Il tema che considerarono continua a essere lo stesso: la redenzione dell’individuo e dell’umanità. Come creare un realtà in cui la dignità umana si manifesti sulla faccia della terra nella sua massima espressione affinché la presenza del Creatore sia più manifesta agli occhi e ai cuori di molti? È stata, è e continuerà a essere la domanda che ogni generazione si dovrà porre. D’altronde, dovrebbe essere la domanda fondamentale nel dialogo tra ebrei e cristiani, soprattutto nel ricordare la storia di questa festività che entrambi indicano con lo stesso vocabolo, poiché Pasqua è una deformazione dell’aramaico Pasja, che deriva dell’ebraico Pesaj.
Sebbene da allora in poi i cammini dei cristiani e degli ebrei hanno cominciato a divergere, guardandosi gli uni gli altri nel corso dei secoli, entrambi hanno ricordato la loro origine comune e l’essenza della sfida fondamentale che li avvicina. Antiche lezioni comuni sono tornate in mente, insieme al loro sempiterno messaggio e a una rinnovata speranza.
L'Osservatore Romano