sabato 11 luglio 2015

Il catechismo secondo Pinocchio



di Filippo Rizzi

Si è spento all’età di 87 anni l’arcivescovo emerito di Bologna, il cardinale Giacomo Biffi. Da tempo ricoverato a Villa Toniolo (Bologna) dove aveva subito un difficile intervento chirurgico con l’asportazione di una gamba, le sue condizioni di salute erano peggiorate giovedì scorso, poi un lieve miglioramento prima del crollo. Biffi si è spento alle 2,40 di questa mattina (sabato 11 luglio) . Aveva compiuto 87 anni lo scorso 13 giugno e recentemente aveva ricevuto anche una lettera di Papa Francesco : «Sono stato informato delle Sue condizioni di salute e desidero esprimerLe la mia profonda vicinanza in questo momento di sofferenza». Biffi era nato a Milano il 13 giugno 1928, aveva compiuto gli studi scolatici nei seminari della diocesi e fu ordinato sacerdote il 23 dicembre 1950 dall’arcivescovo il cardinale benedettino Alfredo Ildefonso Schuster. Si laureò in teologia nel 1975 con una tesi su «La colpa e la libertà nell’odierna condizione umana». 

E’ stato uno studioso di rango e grande ammiratore del pensiero di Louis Billot, Charles Journet, del filosofo russo Solovev e ovviamente di Sant’Ambrogio. Ha insegnato nei Seminari milanesi Teologia dogmatica e ha pubblicato numerose opere prestigiose di teologia, di catechesi e di meditazione. Biffi è conosciuto dal grande pubblico di studiosi per le sue opere di carattere scientifico ma anche divulgativo come La Sposa chiacchierata. Invito all’ecclesiocentrismo, Alla destra del Padre, Ambrogio Vescovo. Attualità di un maestro o il bestseller, tradotto in più lingue, Contro Maestro Ciliegia. Commento teologico a «Le avventure di Pinocchio». Recentemente per Cantagalli, in un racconto biografico, aveva dato alle stampe, il libro Memorie e digressioni di un italiano cardinale, in cui Biffi narrava, con gli occhi acuti dell’osservatore mai banale, il suo Novecento. In occasione del suo 87esimo compleanno, il 13 giugno scorso, come omaggio al suo magistero e ministero a Bologna le Edizioni Studio Domenicano (Esd) hanno pubblicato tre volumi “Stilli come rugiada il mio dire”; si tratta di una serie di omelie inedite per il tempo ordinario scritte dal porporato milanese durante i suoi anni di guida della diocesi di Bologna. 

Legatissimo alla diocesi ambrosiana, sua terra di nascita e di formazione è stato parroco a Legnano nella chiesa dei santi Martiri Anauniani, una popolosa comunità di lavoratori. Nove anni dopo è stato trasferito a Milano, nella parrocchia di Sant’ Andrea, che ha retto per sei anni, durante i quali ha costituito il primo Consiglio pastorale parrocchiale. È stato canonico teologo del Capitolo metropolitano di Milano e vicario episcopale per la Cultura. Nominato vescovo titolare di Fidene e ausiliare dell’arcivescovo di Milano il 7 dicembre 1975, ha ricevuto la consacrazione episcopale l'11 gennaio 1976 dal cardinale Giovanni Colombo, definito spesso da Biffi, come «esempio e modello» per la sua vita di sacerdote e di pastore. Biffi ha inoltre fondato e diretto l'Istituto lombardo di Pastorale. Nella diocesi milanese ha ricoperto anche l’incarico di responsabile della Commissione per il Rito Ambrosiano. 

Fino al 1984 è rimasto nella diocesi ambrosiana come vescovo ausiliare. Il 19 aprile 1984 veniva pubblicata la sua nomina alla sede arcivescovile di Bologna dove egli entrava il 2 giugno, durante le tradizionali celebrazioni della Madonna di San Luca, succedendo al compianto arcivescovo Enrico Manfredini. Ha retto la diocesi di Bologna per quasi vent’anni, fino al 16 dicembre 2003. Nella Quaresima del 1989 è stato chiamato a predicare gli Esercizi Spirituali per la Curia Romana, ai quali ha preso parte Giovanni Paolo II. Nella Quaresima del 2007 ha predicato nuovamente gli Esercizi Spirituali per la Curia Romana, alla presenza di Papa Benedetto XVI. Ha inoltre partecipato al conclave che ha portato all’elezione, nell’aprile del 2005, di Benedetto XVI. I funerali di Biffi si terranno martedì 14 luglio alle 10.30 nella cattedrale di Bologna, San Pietro. A presiederli sarà il successore diretto di Biffi, sulla cattedra petroniana, il cardinale Carlo Caffarra.

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L'ULTIMA INTERVISTA 
Biffi: catechismo secondo Pinocchio (10 luglio 2013)


Quest’anno ricorre un importante anniversario, dall’alto valore simbolico per 
la biografia del cardinale Giacomo Biffi: i 130 anni (era il febbraio del 1883) dalla prima edizione de Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi, alias Carlo Lorenzini. Un anniversario che tocca nel profondo le corde più intime della sua memoria di «pinocchiologo», come ama definirsi il cardinale. Lo spunto di questi 130 anni (1883-2013) rappresenta l’occasione per l’arcivescovo emerito di Bologna (che da poco, il 13 giugno scorso, ha compiuto 85 anni) di riprendere in mano e di rileggere il suo saggio, pubblicato dal 1977 dalla Jaca Book e ristampato ininterrottamente in varie edizioni fino ad oggi, Contro Maestro Ciliegia. L’ammirazione per Le avventure di Pinocchio è nata in Biffi nel 1935 e non si è mai sopita, tanto che il cardinale è sempre tornato a parlarne e discuterne in dibattiti pubblici, molto dei quali dedicati al nostro Risorgimento, negli anni del suo lungo ministero di arcivescovo di Bologna (1984-2003) e non solo. «Del mio primo incontro con il libro di Pinocchio conosco con esattezza la data: 7 dicembre 1935. Me lo comprò mio padre alla fiera di Sant’Ambrogio, quando avevo sette anni – rammenta dalla sua abitazione sulle colline bolognesi il porporato di origini milanesi –. Ricordo che era un’edizione economica. Fu così che il fatale burattino entrò nella mia vita, e vi rimase». Una passione maturata negli anni successivi, tanto da rileggere il testo di Collodi come un vero «capolavoro teologico e di introspezione» già tra i banchi di scuola: «Una prima illuminazione la ebbi in terza liceo dalla lettura di un saggio di Piero Bargellini: Pinocchio ovvero la parabola del figliol prodigo. Poi vennero gli studi di teologia. La mia tesi di dottorato su "Colpa e libertà nella condizione umana" fu tutta debitrice al libro di Collodi. Solo che dovetti scriverla in un linguaggio accademico, col risultato che fu apprezzata da tutti e letta da nessuno…».

Come nacque, sul finire degli anni Settanta, l’idea di un libro proprio su Pinocchio?
«Rammento che ne parlai con il cardinale Giovanni Colombo, di cui in quegli anni ero vescovo ausiliare a Milano, e la sua risposta alle mie esitazioni: "Dipende da quello che scriverà". Tutto ciò mi spinse a compiere l’impresa di un commento teologico. L’idea mi solleticava da tempo. E infatti in quel racconto riscontrai da subito non solo il carattere giocoso di intrattenimento e pura evasione: conteneva un messaggio che svelava il mistero centrale dell’universo. Ai piccoli lettori non diceva tanto come dovessero comportarsi, bensì narrava la storia dell’uomo e presentava il senso dell’esistenza. Ed era in fondo la storia che ci è insegnata dalla Rivelazione cristiana. Il successo di Pinocchio è ancora, a 130 anni dalla sua pubblicazione, un enigma straordinario. Nacque per caso, scritto di malavoglia da Collodi per un giornale di bambini, a puntate irregolari e interrotto due volte, la prima con la convinzione di concluderlo per sempre. E invece è l’unico libro uscito in Italia dopo l’Unità che abbia avuto un successo mondiale. La spiegazione è una sola. Contiene un messaggio eterno, che tocca le fibre del cuore di tutti gli uomini di ogni tempo e cultura».

Un libro, eminenza, che insomma suggerirebbe di leggere anche ai ragazzi di oggi presi da ben altre distrazioni: videogiochi, internet…
«Certamente, anche perché si tratta di un magnifico catechismo adatto ai bambini come agli adulti. Pinocchio è la verità cattolica che erompe travestita da fiaba. E soprattutto facciamo bene a darlo in mano ai ragazzini, in una società come la nostra così distratta, affascinata dalla civiltà dell’immagine e catturata più dalle cose superficiali che da quelle sostanziali. In quelle pagine vi è in fondo, a mio giudizio, la sintesi dell’avventura umana. Comincia con un artigiano che costruisce un burattino di legno chiamandolo subito, sorprendentemente, figlio. E finisce con il burattino che figlio lo diventa per davvero. Ma c’è anche molto di più. C’è, ad esempio, Lucignolo che rappresenta la perdizione: dove il destino dell’uomo non sempre è a lieto fine. C’è la figura di Maestro Ciliegia, vero maestro dell’antifede: un personaggio che non vuole andare al di là di ciò che vede e tocca. Quello che mi ha sempre colpito è l’oggettiva concordanza di struttura tra la fiaba e l’ortodossia cattolica».

Un testo che per buona parte del Risorgimento ha rappresentato una specie di «Bibbia mazziniana» e in cui lei ha invece scovato una profonda e sotterranea «anima cattolica»…
«La tesi del mio saggio è stata quella di uscire da una certa retorica risorgimentale e sfatare qualche luogo comune. Già nel 1860 Collodi appare deluso dagli esiti dell’avventura unitaria (alla quale aveva dato il suo apporto partecipando alle due prime guerre di indipendenza). Successivamente, a poco a poco, dimostra di non aver più fiducia negli uomini che contano; pare addirittura essersi convinto che gli adulti sono "irredimibili" e perciò decide di rivolgersi nei suoi scritti soltanto ai ragazzi. Chi sono i suoi lettori? Sono i ragazzi del 1881, l’anno in cui Collodi scrive Pinocchio; non sono né sabaudi né repubblicani né anticlericali né clericali: nessuna ideologia li aveva ancora raggiunti. Ma non sono dei barattoli vuoti. Sono i ragazzi del catechismo, delle prediche del parroco, delle preghiere delle mamme, dei dipinti delle chiese. Non conoscono le ideologie, conoscono la verità cattolica. L’autore vuole così entrare in comunione di spirito con loro. Collodi ha voluto dunque scrivere una storia che, per parlare alla mente e al cuore dei piccoli, li andasse a trovare dove di fatto stavano, nel loro mondo spirituale con le loro persuasioni».

Una figura chiave della fiaba è la Fata turchina. Cosa rappresenta nella vicenda di Pinocchio questo personaggio?
«Ne Le avventure di Pinocchio compare con la Fata turchina l’idea della redenzione e il "principio femminile della salvezza"; in lei vi è la salvezza donata dall’alto: e quindi Cristo, la Chiesa, la Madonna. Lo straordinario personaggio della Fata dai capelli turchini è posto appunto a indicare l’esistenza di questa salvezza che è donata dall’alto e può guidare al lieto fine la tragedia della creatura ribelle. Il protagonista raggiunge così il suo riscatto, e in tal modo scampa alla sorte di Lucignolo che non si è ravveduto; tutto si conclude con il ritorno al padre». 

Un libro che ci aiuta anche a riflettere sul mistero del male e sul tema della libertà. Quale è la sua considerazione a riguardo?
«Nella favola le forze malefiche sono rappresentate vivacemente nelle figure del Gatto e della Volpe. Ma più di tutti l’Omino, corruttore mellifluo, insonne. Memorabili sono le sue parole: "Tutti la notte dormono, io non dormo mai". E poi c’è il tema della libertà. Basti pensare alla scelta di un burattino legnoso come protagonista della narrazione, anch’essa una cifra: è in fondo il simbolo dell’uomo, che da ogni parte viene condizionato, è schiavo degli oppressori e dei persuasori occulti. E rimane legato a fili invisibili che determinano le sue decisioni e rendono illusoria la sua libertà. Se Pinocchio non resta prigioniero del teatrino di Mangiafuoco è perché a differenza dei suoi fratelli di legno riconosce e proclama di avere un padre. È questo il segreto della vera libertà, che nessun tiranno può portar via».

Eminenza, si può parlare di un Collodi credente e «cattolico a modo suo»?
«Collodi aveva una sua fede. "Non sono miscredente. Stia tranquilla che ci credo", disse una volta alla madre Angiolina Orzali. A questa figura il Lorenzini rimase sempre legato. Un po’ tutti questi uomini del nostro "laico" Ottocento dovevano vedersela con una madre dalla fede limpida e viva. E poi nella sua formazione cattolica ha sicuramente contato, negli anni giovanili, la frequentazione del seminario di Colle Val d’Elsa e lo studio di retorica e filosofia presso i padri scolopi a Firenze. L’ipotesi più semplice è che proprio nei mesi della stesura finale del libro, magari con l’affettuosa e illuminante assistenza della mamma che in quel tempo gli è sempre stata vicina, il Collodi abbia riscoperto la visione e le certezze della sua prima età. E il successo e la diffusione universale di Pinocchio forse trovano qui la "ragione sufficiente". In questa favola, fantasiosamente immaginata e scritta splendidamente, tutte le genti intuiscono che c’è qualcosa di eterno e di cosmicamente vero».
Avvenire

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L’ottimismo è di rigore


E’ morto nella notte a Bologna il cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo di Bologna dal 1984 al 2003. Ne dà notizia la diocesi bolognese.  Biffi aveva 87 anni è da tempo era ricoverato in una clinica bolognese dove, attorno alle tre, è morto
di Giacomo Biffi
“Vidi salire dal mare una bestia” (Ap 13,1)
L’ottimismo è di rigore.
Una delle mode culturali più curiose invalse nella cristianità in questi decenni interdice a chi si accinge a stilare un documento o proporre una riflessione sulla odierna condizione umana e sui tempi presenti di iniziare dai rilievi “negativi”: è d’obbligo partire da una rassegna dei dati improntata a un robusto ottimismo; bisogna sempre collocare in capo a tutto un esame della realtà che non tralasci di mettere in giusta luce i valori, la sostanziale santità, la “positività prevalente”.
Qualche volta mi sorprendo a immaginare, per mio personale divertimento, come sarebbe stata la lettera ai Romani se, invece che da quell’uomo difficile e sdegnoso che era l’apostolo Paolo, fosse stata stesa da qualche commissione ecclesiale o da qualche gruppo di lavoro dei nostri giorni.
L’epistola avrebbe cominciato a notare nel primo capitolo col dovuto risalto tutte le ricchezze spirituali e culturali espresse dal mondo pagano: le altezze sublimi raggiunte dalla filosofia greca; la sete del trascendente e il naturale senso religioso rivelati dalla molteplicità dei culti mediterranei; gli esempi di onestà morale, di correttezza civica, di abnegazione disinteressata, offerte dalle vicende edificanti della storia romana che una volta si insegnavano al ginnasio. Senza dubbio se la litanìa immisericorde dei vizi e delle aberrazioni mondane contenuta nell’attuale pagina ispirata, fosse suggerita oggi come contributo al testo da qualche incauto collaboratore, susciterebbe una concorde indignazione. E in realtà il giudizio di Paolo suona alle nostre orecchie insopportabilmente sgradevole: per lui gli uomini senza Cristo sono “colmi di ogni sorta di ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, oltraggiosi, superbi, fanfaroni, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia” (Rm 1,29-31).
Messi in bella evidenza i pregi del paganesimo, la nuova lettera ai Romani passerebbe poi a esaltare le prerogative dell’ebraismo e la funzione già incoattivamente salvifica della Legge mosaica, della circoncisione, delle prescrizioni rituali.
Infine, arrivata al capitolo quinto, chiarirebbe che l’opera di Adamo non è stata poi così nefasta come una volta si diceva, dal momento che la creazione resta in se stessa buona; anzi in quanto è uscita dalle mani di Dio non può non essere già santa e sacra, senza che siano necessarie altre sopravvenienti consacrazioni.
Certo, a questo punto il discorso su Gesù Cristo, la sua redenzione, il suo intervento indispensabile per il riscatto dell’umanità dall’ingiustizia, dal peccato, dalla morte, dalla catastrofe, diventerebbe meno incisivo e convincente di quanto non sia nella prosa scabra e drammatica di Paolo; ma non si può avere tutto.
Non è che i ragionamenti qui giocosamente ipotizzati siano del tutto erronei in se stessi. Al contrario, contengono molta verità e vanno doverosamente compiuti, ma non come primo approccio alla realtà delle cose. Da essi non si può partire; ad essi si può solo approdare al termine di un lungo pellegrinaggio ideale: soltanto dopo che la visione della spaventosa miseria dell’uomo ci avrà aperto la mente e il cuore a desiderare e a capire la sospirata salvezza di Cristo, ci sarà consentito di apprezzare tutto quanto di bello, di giusto, di vero, riluce già nella notte del mondo, come riverbero del Redentore, che è la verità, la giustizia, la bellezza rese persona e divenute percepibili in un volto d’uomo.
Ogni autore cristiano ha sempre avviato il suo canto da un’ode tragica sull’umano destino per arrivare all’inno di vittoria e di gratitudine al Figlio di Dio crocifisso e risorto, unica nostra speranza, che solo ci ha ottenuto la salvezza.
L’uomo, che voglia celebrare veramente la propria grandezza, non può che principiare da un “epicèdio”, cioè da una lamentazione sullo stato di morte che enigmaticamente dall’inizio ha colpito l’universo e lo serra ancora in una morsa ineludibile.
Il fondamento dell’ottimismo cristiano non può essere la volontà di tener chiusi gli occhi. Bisogna per prima cosa guardare in faccia alla “Bestia” e renderci conto di quanto siano aguzzi i suoi denti e terrificanti i suoi artigli, se si vuole onorare e amare il “Cavaliere”, e si desidera capire davvero quale dono sia la nostra liberazione e la felicità che ci è stata assegnata in sorte.