mercoledì 8 luglio 2015

Tra indios quechua e colorados




(Gianluca Biccini) Il movimento per l’indipendenza dell’America ispanofona fu un «grido» di liberazione per i popoli del continente, «spremuti, saccheggiati» e privati della libertà. La terza giornata di Papa Francesco in Ecuador è iniziata a Quito nel parco del Bicentenario, che celebra appunto i due secoli dell’affrancamento delle popolazioni latinamericane dal giogo dei «potenti di turno».
Nella mattina di martedì 7 luglio il Papa ha dapprima incontrato per circa un’ora i cinquanta vescovi del Paese nel centro congressuale. In un clima informale e familiare ha risposto alle loro domande in privato; e dai presuli ha ricevuto in dono una statua di san Francesco con le ali. Subito dopo il Pontefice ha celebrato la messa «per l’evangelizzazione dei popoli» alla presenza di tantissimi fedeli e del presidente della Repubblica. Il parco, conosciuto come il “polmone di Quito”, è stato inaugurato solo nel 2013; prima era l’aeroporto internazionale in cui atterrò anche Giovanni Paolo II in occasione del suo viaggio nel 1985. Realizzato con criteri di sostenibilità ambientale, è uno spazio verde molto frequentato dai quiteños.
È stato un nuovo bagno di folla per Francesco — per molti ormai affettuosamente Panchito — soprattutto quando lo ha percorso in lungo e in largo sulla papamobile. Molti i cori da stadio rivoltigli:Francisco amigo, estoy haciendo lío! Te queremos Francisco, te queremos! Esta es la juventud del Papa! Centinaia le bandiere, non solo ecuadoriane, sventolate al suo passaggio. Molti, forse duecentocinquantamila, hanno trascorso la notte sotto la pioggia e la grandine all’aperto per poter esserci, toccati dalla semplicità e dall’umanità del Papa. Tra loro alcuni indios seminudi e con la faccia dipinta, secondo le tradizioni locali. Come nella sera precedente al Palazzo presidenziale, anche in questa circostanza hanno abbellito la scena, in particolare l’altare, gli arredi floreali, realizzati con ottantamila rose donate dai coltivatori. Francesco — che indossava una casula ricamata a mano da religiose di Cuenca con motivi decorativi della cultura india — ha di nuovo usato il pastorale di legno visto il giorno precedente a Guayaquil. E come ha fatto con l’arcidiocesi costiera, anche qui a Quito ha lasciato in dono un calice.
Una corale di 240 voci ha eseguito i canti liturgici, accompagnata dai 94 musicisti dell’orchestra sinfonica nazionale. Tra gli altri è stato riproposto Ecuador, abre las puertas al Redentor, con cui venne accolto anche Giovanni Paolo II. Altri canti popolari nazionali hanno scandito i vari momenti del rito: come quello mariano intonato sulle note di una melodia inca, che secondo la tradizione accompagnò il corteo funebre dell’ultimo imperatore, Atahualpa.
Concelebranti principali l’arcivescovo di Quito, il francescano Fausto Trávez Trávez, e il suo predecessore, il cardinale Raúl Eduardo Vela Chiriboga, quinto porporato nella storia del Paese. Le letture sono state proclamate in spagnolo dalla presidente del consiglio ecuadoriano dei laici e da un indigeno della diocesi di Riobamba in lingua quechua. Quest’ultimo rappresentava i 2 milioni e seicentomila membri di questo popolo che vive in un’area rurale mantenendo costumi e culture tradizionali e al quale lo Stato ha finalmente riconosciuto un’ampia autonomia.
Significative anche le scelte degli intenzionisti, tra i quali una donna che da quarant’anni si occupa di pastorale famigliare, un afro-ecuadoriano della valle del Chota, nella Sierra, e un’indigena shuar. Nell’animazione liturgica sono stati coinvolti rappresentanti di tutte le 25 circoscrizioni ecclesiastiche del Paese, provenienti dalle zone rurali e dalla foresta, dalle paludi e dalla sierra, persino dalle isole Galápagos. Alla processione offertoriale si distinguevano, per l’abbigliamento e i colori propri della sua cultura, un anziano del vicariato apostolico di Napo, una famiglia della tribù Tsáchila, che qui chiamano il popolo dei colorados. Tra gli offerenti anche una volontaria dell’arcidiocesi di Monaco e Frisinga, impegnata in un progetto che risale ai tempi del concilio Vaticano II grazie all’amicizia tra i cardinali Julius August Döpfner e Bernardino Echeverría Ruiz.
All’omelia Francesco ha ricordato come il luogo della messa celebri i duecento anni dell’indipendenza dell’America latina. Più volte interrotto dagli applausi, ha invitato a ritrovare quell’«unione di sforzi» — come l’ha definita l’arcivescovo di Quito — che ha consentito di raggiungere la libertà. Con il suggerimento che proprio l’evangelizzazione può essere un veicolo di unità. Perché, ha concluso, chi rende testimonianza evangelizza: «Questa è la nostra rivoluzione — perché la nostra fede è sempre rivoluzionaria — questo è il nostro grido».

Il San Francesco donato al Papa a Quito. Il sesto sigillo 

(Pietro Messa) Nella mattina del 7 luglio, durante la visita a Quito, i cinquanta vescovi della Conferenza episcopale dell’Ecuador hanno regalato al Papa una statua di san Francesco. Secondo un’iconografia classica nella mano sinistra tiene un teschio, che è segno della meditazione delle vanità del mondo, mentre nella destra ha il crocifisso che guarda con occhi affettuosi. In basso vi è una pecorella che indica la custodia che il santo d’Assisi ebbe per la creazione, mentre l’abito è finemente ricamato, segno della vita gloriosa che già gode. Quindi un’immagine consueta di cui si trovano esemplari anche in Europa.
Quello che invece fa meraviglia sono le ali, persino presenti in sovrabbondanza di tre copie, due attaccate alle spalle e una ai piedi. 
Solitamente si è abituati a vedere le sei ali nella raffigurazione della stigmatizzazione di san Francesco e precisamente nel serafino alato in cui due ali si prolungano sopra il capo, due si dispiegano per volare e due coprono tutto il corpo. Viene dunque spontaneo chiedersi il perché della presenza di tali ali nella statua di san Francesco. Per rispondere, bisogna partire da lontano, almeno da un monaco italiano morto nel 1202, ossia quando ad Assisi Francesco di Pietro di Bernardone aveva circa vent’anni.
Come ha dimostrato Gianluca Potestà, uno dei punti di partenza del pensiero dell’abate Gioacchino da Fiore è la preminenza della vita monastica rispetto agli altri stati di vita, ossia chierici e coniugati. Il monaco calabro, riprendendo una teoria precedente — la gerarchia degli ordines intesi come modalità di vivere nella vita ecclesiale — vede in principio i coniugati, poi i chierici e infine, come realtà escatologica, i monaci. Applicando a questa gerarchizzazione la prospettiva trinitaria a lui cara, concorda i coniugati con il Padre, i chierici con il Figlio e i monaci con lo Spirito Santo. Successivamente, volendo attribuire a ciascuno i propri libri, dà ai chierici i quattro Vangeli, per corrispondenza ai coniugati quattro storie dell’Antico Testamento (Giobbe, Tobia, Giuditta ed Ester) e ai monaci quattroevangelia nova, ossia testi aventi a che fare con l’ordo monasticus
Semplificando assai, già si coglie nella menzione di evangelia novauna problematica a livello teologico: se, infatti, il tempo dei monaci guidati dallo Spirito Santo e aventi dei nuovi vangeli apre a una prospettiva di novità pone in discussione la centralità e definitività della rivelazione in Cristo Gesù prospettandone un superamento. 
Tale domanda si accentua considerando che commentando il racconto delle nozze di Cana, Gioacchino afferma che lo sposo delle nozze di Cana designa Gesù, e Gesù designa lo Spirito. Similmente riguardo alla presentazione di Gesù al tempio il piccolo Gesù posto nelle mani del vecchio Simeone è figura dello Spirito. A questo proposito, Potestà osserva che «la prospettiva tipologica comunemente accettata nell’interpretazione medievale della Bibbia esclude che Cristo possa essere a sua volta tipo di altri: nel passaggio da tipo ad antitipo si esige infatti sempre un incremento, la cui stessa possibilità è in questo caso negata in linea di principio. “Non sono venuto ad abolire, ma a completare”, si legge infatti in Matteo 5, 17 a fondamento della tipologia biblica. Intendendo Gesù come tipo dello Spirito, Gioacchino compie quindi una scelta di profonda rottura sul piano ermeneutico (e teologico)».
Negli anni Quaranta del secolo XIII i frati minori entrano in contatto con la dottrina di Gioacchino da Fiore in Toscana e nella Provenza; un’ulteriore luogo di contatto tra i francescani e il pensiero gioacchimita fu Napoli, città in cui fu lettore anche frate Giovanni da Parma — il quale ebbe anche stretti legami con Ugo di Digne — eletto ministro generale dei frati minori nel 1247. Nel 1254 frate Gerardo da Borgo San Donnino pubblica il Liber introductorius in cui riprende aspetti del pensiero gioacchimita portandoli alle estreme conseguenze parlando di un vangelo eterno; di conseguenza viene denunciato e condannato.
Nel 1257 al posto di Giovanni da Parma è eletto Bonaventura da Bagnoregio il quale ha davanti tale complessità della situazione dell’Ordine minoritico che rischia persino di essere soppresso. Bonaventura ha davanti due possibilità: continuare ad affermare la novità spirituale-escatologica dei frati minori, rimanendo però nel sospetto dell’eresia, o rinunciare alla forza propulsiva di tale dimensione per spegnere tutte le accuse.
Semplificando alquanto si può dire che Bonaventura non si pone nella prospettiva dell’aut-aut ma dell’et-et. Il frate provenzale Pietro di Giovanni Olivi racconta che nel 1266 a Parigi ha ascoltato Bonaventura predicare affermando che san Francesco è l’angelo del sesto sigillo, l’uomo serafico, annuncio dei tempi nuovi caratterizzati da uomini spirituali. Tuttavia le sue stimmate indicano che ciò non significa un superamento di Gesù Cristo a favore dello Spirito Santo — come poteva far credere una certa lettura delle opere di Gioacchino da Fiore — ma una maggior cristificazione operata proprio dalla docilità allo Spirito Santo che conforma a Gesù ricordando tutto ciò che lui ha detto. In questo modo a una maggior radicalità spirituale corrisponde una maggior cristificazione. Veramente san Francesco èalter Christus e angelo del sesto sigillo, nuovo san Giovanni Battista che annuncia i tempi nuovi. 
La lettura teologica che Bonaventura dà di san Francesco sarà fatta propria dai frati spirituali, poi dagli osservanti e quindi da quelli che partirono per evangelizzare l’America. Ecco allora che i primi dodici francescani, «predicatori e confessori devoti», noti anche come i dodici apostoli, che sbarcano in Messico il 13 maggio 1524, sono animati da questo desiderio di iniziare là quella radicalità evangelica che vedevano quasi impossibile in Europa. Non meraviglia dunque che in quelle terre si diffuse l’immagine del serafico san Francesco con le ali di «angelo del sesto sigillo».
L'Osservatore Romano