sabato 4 luglio 2015

XIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

Nella 14.ma domenica del Tempo ordinario, la liturgia ci propone il Vangelo in cui Gesù torna a Nazareth per portare anche qui la buona notizia del Regno, ma non può compiere alcun prodigio a causa dell’incredulità dei suoi conterranei. Quindi dice:
«Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua»
Il Vangelo di oggi ci tocca in modo particolare, specialmente chi tra noi è un poco un abituè della domenica: fedeli al precetto festivo, come gli abitanti di Nazareth erano fedeli frequentatori della Sinagoga, ascoltiamo la Parola, ne seguiamo i dotti commenti, facciamo la Comunione e poi ritorniamo ai nostri affari. Ma oggi, come quel giorno a Nazareth, ci aspetta una sorpresa: Gesù non commenta la Parola, ma annuncia e dimostra con prodigi che Lui è venuto a compiere la Parola per tutti noi. Il mondo oggi non ha bisogno di uditori della Parola ma di cristiani che, scoprendo le immense ricchezze del loro battesimo, vivano radicalmente il Vangelo. A Nazareth  i conoscenti di Gesù, i suoi amici…, invece di ascoltare, di accogliere la parola, aprono la bocca per mormorare e criticare: Ma come? Chi si crede di essere?.. Noi lo conosciamo bene. “E si scandalizzavano di Lui”. Proprio come noi! In un mondo che cambia, che propone ogni giorno valori diversi, spesso opposti al Vangelo, ci sentiamo più intelligenti, più capaci di rispondere ai problemi di oggi, più moderni: “cristiani adulti”, diciamo, pronti a seguire le mode che ci sono proposte! E ci scandalizziamo del Vangelo, della croce, e ricorriamo a tanti giochini intellettuali per giustificare che si tolga la croce non solo dalle scuole e dai luoghi pubblici, ma anche dalle nostre case, dalla nostra vita. Ci vergogniamo di farci un segno di croce in pubblico. Questa parola viene oggi a tirarci fuori dalla nostra ”religione soft” per renderci credibili testimoni del Vangelo.   Pasotti
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1 Gesù Partì di là e venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono.2Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? 3Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. 4Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». 5E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. 6aE si meravigliava della loro incredulità.6bGesù percorreva i villaggi d'intorno, insegnando.

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Non si può amare la divinità di Cristo senza amare prima la sua umanità

Commento al Vangelo della XIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) -- 5 luglio 2015


Questa Domenica il Signore ci accompagna a Nazaret, la sua Patria. Si tratta di una tappa fondamentale sul cammino per diventare e rimanere cristiani. Come lo fu per i suoi discepoli, che in quel sabato fecero l'esperienza dello scandalo che covava nel cuore mimetizzato nell’iniziale stupore.
Essa deve partire dalla conoscenza di noi stessi. Per questo, come accadde a San Paolo, Dio ha messo anche nella nostra carne una “spina” che ci umilia; ognuno di noi sa di che cosa si tratta. Qualcosa che ci impedisce di “montare in superbia”, e che il nostro ego non riesce a sopportare.
E’ tuo marito che ogni giorno distrugge la tua immagine di marito? E’ tua moglie che si sta buttando via tra rimpianti e nevrosi? E’ tuo figlio che non ti ascolta e si è infilato in un brutto peccato?
E’ la difficoltà di comunione con le persone chiamate con te ad evangelizzare, in parrocchia, nella missione, a catechismo? Sei tu, il tuo carattere iroso, la tua debolezza psicologica? E’ un fatto accaduto molti anni fa che ti rapisce il pensiero e ti impedisce la felicità?
Bene, sappi che non puoi essere cristiano se ogni giorno non giunge alla tua vita “un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarti”. Ogni giorno, hai capito bene. Ogni giorno un problema, un’incomprensione, un’umiliazione. Non ti piace? Neanche a San Paolo piaceva, e ha pregato perché Dio allontanasse da lui quella spina, ma niente. Non aveva capito che quella era la sua salvezza.
Non c’è altra via che conduca al Cielo, fratello. E sai perché? Perché esiste il peccato che abita nella carne. E nella carne esso deve essere, ogni giorno, perdonato! Non scandalizzarti per favore, c’è una punta di orgoglio che si muove in noi dinanzi ai problemi, alle sofferenze, alle ferite della carne e dell’anima, e lì e solo lì possiamo davvero incontrare il Signore e il suo amore.
E’ necessaria dunque la spina che Dio stesso permette che si conficchi nella nostra carne per far uscire il pus che ci avvelena il cuore e la mente. Solo così potremo umiliarci e chiedere aiuto a Cristo, che si è fatto carne proprio per incontrare le nostre ferite e guarirle con la sua misericordia.
San Paolo lo aveva sperimentato, per questo ci annuncia oggi che la Grazia di Dio ci basta! Che non deve cambiare la nostra storia, la famiglia, il lavoro, la situazione economica e la nostra salute. Così com’è è perfetta perché, come accadde al Popolo di Israele nel deserto, ci fa conoscere la nostra debolezza perché possiamo abbandonarci all’amore di Dio. Perché la “sua potenza si manifesta pienamente nella nostra debolezza”. Fratelli, “quando siamo deboli, è allora che siamo forti!”.
Un cristiano, infatti, ha scoperto e accettato di essere un peccatore, e che senza Cristo non può far nulla. Per questo, in un mondo che si vanta delle proprie presunte capacità, si “vanta delle angosce sofferte per Cristo”. Si vanta della sua debolezza di fronte alla storia e alla croce che essa presenta perché in lui dimora Cristo, che lo fa entrare dove tutti cercano di scappare. Dalla Verità!
Ecco perché oggi la Chiesa ci accompagna a Nazaret. Come i discepoli, anche noi abbiamo fatto l’esperienza di essere stati raggiunti dallo sguardo di Gesù che ci ha colti al lavoro, in famiglia, persino sui luoghi del peccato. Ed è stato impossibile non seguirlo, non lasciarsi attrarre da quell'Uomo che non si è scandalizzato di noi.
E anche noi abbiamo ascoltato le parole di Gesù e contemplato le sue opere senza capire, come storditi e con il cuore indurito, interrogandoci sulla sua identità. Ci siamo impauriti nella tempesta, dubitando e mormorando. Ma, come i discepoli, siamo ancora con Lui. E oggi è Nazaret, la sua casa, la sua famiglia, i suoi amici, la sua patria.
Qui possiamo conoscerlo meglio perché qui succede qualcosa d'imprevisto; ancora una volta le parole di Gesù scuoteranno le nostre esistenze, tranceranno certezze, illumineranno, formeranno. Nazaret, infatti, è l'esperienza dello scandalo. Lo stesso che proviamo di fronte alla nostra e all’altrui debolezza.
Fratelli, dobbiamo passare con Gesù nel “disprezzo” che noi stessi proviamo per noi stessi, nella nostra casa, nella nostra famiglia, perché così spesso non siamo quello che vorremmo essere. Così come non lo sono la moglie, il marito, i figli. Dobbiamo passare per una purificazione profonda, che fa male all’orgoglio…
Imbattendosi nelle sue parole, la patria di Gesù, la carne della carne di Lui, si ribella, si agita, si stupisce e fa domande sino a precipitare nello scandalo. “Skandalon” significa letteralmente "pietra che fa inciampare". Gesù, per la sua patria, per amici e parenti, era come un sasso capitato tra i piedi, e tutti vi erano inciampati. 
Per questo, la profezia è come frustrata e il potere che Gesù aveva manifestato nei villaggi vicini e perfino in terra pagana, si infrange sui bastioni della carne. Quel soffermarsi solo sui tratti somatici, quel controllo doganale dei documenti anagrafici, quel rimestare nei ricordi per restarne imprigionati, quei criteri soffocati nell'evidenza della ragione piantata sulla superficie, impediscono a Gesù di operare prodigi:  "E’ uno come noi – dicono –. La sua pretesa non può essere che una presunzione" (Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù). 
E' lo scherzo che gioca la carne perché è incapace di distendere lo sguardo oltre le apparenze, è meschina nel domandarsi "da dove gli venga" la sapienza e il potere per operare i prodigi, incapace di aprirsi alla meraviglia che accoglie umilmente il mistero che può salvare. Affetti, amori, passioni, la melma che muove la carne è vanità di vanità che il vento porta via in un baleno.
E’ accaduto a Nazaret come succede nelle nostre case, nelle nostre famiglie: gelosie, invidie, competizioni, speranze, progetti, regole e leggi che definiscono i legami di sangue; anche quando gli affetti sembrano più puri, il veleno della corruzione ne mina la limpidezza e la gratuità. Ne siamo tutti testimoni, anche i bimbi più piccoli ne fanno esperienza quotidiana.
Le domande che si scambiavano a Nazaret di fronte a Gesù, sono le stesse che sorgono nei nostri cuori e li chiudono in faccia al potere di Cristo, manifestazioni della superbia di chi non sa fermarsi sull'uscio della propria ragione e della carne riconoscendone i limiti, per accogliere la novità che sgorga dalla storia visitata e redenta da Dio.
Siamo imprigionati nell'orgoglio che ci fa credere alle convinzioni acquisite dall'abitudine; non esiste nulla da sperare e credere al di fuori di quello che abbiamo visto con gli occhi della carne: il marito con cui sono sposata da "trent'anni" non può cambiare; nel figlio che ho "allevato" e ho visto ribellarsi e chiudersi, non può celarsi il mistero dell'opera prodigiosa di Dio, il lavorio interiore della sua sapienza capace di strapparlo all'inganno, nei tempi e nei modi che solo Lui sa. 
E allora, quanta “meraviglia”, la stessa di Gesù, quando ci ritroviamo rifiutati e disprezzati. E quanti accanimenti per ovviare a questo, per indurre gli altri ad accettarci, a riconoscerci ruolo e identità. Quanti genitori legano i figli sino a soffocarli, spesso subdolamente; o sono incapaci di correggere per paura di essere rifiutati; quanti coniugi vivono in un continuo compromesso che accumula fascine al fuoco del risentimento; e quante esplosioni e incendi, e devastazioni, e matrimoni distrutti, e figli sbandati.
La carne non può superare il suo limite, e questo è il peccato, il fallimento del progetto d’amore nel quale siamo stati creati. Per questo Gesù dirà che “chi non odia suo padre, sua madre, il marito, la moglie, i fratelli, i figli, la patria, persino la propria vita, non può essere suo discepolo”, non può seguirlo. Chi fonda la sua vita sulla carne vivrà la maledizione della corruzione, non vedrà il bene da nessuna parte, sarà cieco e senza discernimento, e per questo inciamperà, si scandalizzerà. 
Proprio come scandalo dei “compatrioti” di Gesù che pensano d'aver capito, di sapere, mentre sperimentano la maledizione di chi non vede oltre il fatto biologico, e il bene, l'amore misericordioso di Dio, scivola via. Come succede a noi, ogni giorno. 
Per questo Gesù dirà a Nicodemo che “occorre rinascere dall'alto”, entrare in un nuovo seno, che è quello della Chiesa, il fonte battesimale. Per immergersi nell'acqua del battesimo si deve odiare tutto quello che si frappone come un ostacolo a Cristo, alla vita secondo lo Spirito.
Il Signore passa anche oggi nella sua patria che siamo noi, e ci chiama: non possiamo essere se non seguendo il Signore. Non possiamo amare se non odiando la schiavitù della carne. Essa è redenta e sanata, liberata e santificata da Cristo. L'incarnazione fa nuova la carne, la conduce alla Croce e la innalza sino al Cielo. E' il cuore della fede della Chiesa, la risurrezione di Cristo e la risurrezione della carne debole e peccatrice, ogni giorno.
Ma essa non avviene senza la Croce, scandalo e stoltezza per chi non vuol ascoltare, salvezza per chi accoglie l'annuncio del Signore, perché "questa è la compiuta fierezza dell’amore: non si può amare la divinità di Cristo senza amare prima la sua umanità" (Hadewijch di Anversa), che è entrata nella morte, cominciando nei lunghi trent'anni vissuti nel totale nascondimento di Nazaret. 
Solo partendo dal mistero di un Dio che scende sino alla più banale e povera quotidianità dell'uomo, nella sua città, lavorando come lui, accettando il lavoro più umile che era quello del "carpentiere", riservato a quel tempo a chi non possedeva la terra, i discepoli hanno cominciato ad imparare la "sapienza della Croce", l'amore che smaschera l'inganno della "sapienza della carne".

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Commento di Enzo Bianchi
Il brano evangelico di questa domenica ci interroga soprattutto sul nostro atteggiamento abituale, quotidiano: atteggiamento che in profondità non spera nulla e dunque non attende nessuno; e soprattutto, atteggiamento che non riesce a immaginare che dal quotidiano, dall’altro che ci è familiare, da colui che conosciamo possa scaturire per noi una parola veramente di Dio. Non abbiamo molta fiducia nell’altro, in particolare se lo conosciamo da vicino, mentre siamo sempre pronti a credere allo “straordinario”, a qualcuno che si imponga. Siamo talmente poco muniti di fede-fiducia, che impediamo che avvengano miracoli perché, anche se questi avvengono, non li vediamo, non li riconosciamo, e dunque questi restano eventi inutili, miracoli che non ottengono il loro fine.
Questo, in profondità, il messaggio del vangelo odierno, una pagina che riguarda la nostra fede, la nostra disponibilità a credere. Gesù era nato da una famiglia ordinaria: un padre artigiano e una madre casalinga come tutte le donne del tempo. La sua era una famiglia con fratelli e sorelle, cioè parenti, cugini, una famiglia numerosa e legata da forti vincoli di sangue, come accadeva in oriente. Da piccolo, come ogni ragazzo ebreo, Gesù ha aiutato il padre nei lavori, ha giocato con Giacomo, Ioses, Giuda, Simone e con le sue sorelle, ha condotto una vita molto quotidiana, senza che nulla lasciasse trasparire la sua vocazione e la sua singolarità. Poi a un certo punto, non sappiamo quando, sono iniziati per lui quelli che Robert Aron ha chiamato “gli anni oscuri di Gesù”, presso le rive del Giordano e del mar Morto, dove vivevano gruppi e comunità di credenti giudei in attesa del giorno di Dio, uomini dediti alla lettura delle sante Scritture e alla preghiera. Gesù a una certa età li raggiunse e qui divenne discepolo di Giovanni il Battista (il quale lo definì “colui che viene dietro a me”: cf. Mc 1,7). Poi sentì come vocazione da Dio quella di essere un predicatore itinerante, iniziando il suo ministero dalla Galilea, la terra in cui era stato allevato (cf. Mc 1,14-15).
E quando ormai Gesù ha un gruppo di discepoli che vivono con lui (cf. Mc 3,13-19), nella sua predicazione di villaggio in villaggio, in giorno di sabato entra nella sinagoga di Nazaret, “la sua patria”. Torna dopo molto tempo trascorso altrove, e gli abitanti del villaggio lo ricordano come “figlio di” e “fratello di”. Al momento della lettura del brano della Torah (parashah) e dei profeti (haftarah), Gesù, essendo un uomo ebreo, come ogni altro ebreo di più di dodici anni, dopo essere diventato bar mitzwah, figlio del comandamento, ha la possibilità di salire sull’ambone e di prendere la parola. Non è un sacerdote, non è un rabbi ufficialmente riconosciuto – “ordinato”, diremmo noi – ma esercita questo diritto di leggere le Scritture e tenere l’omelia.
A differenza di Luca (cf. Lc 4,16-30), Marco non specifica né i testi biblici proclamati né il contenuto del commento di Gesù, ma mette in evidenza la reazione dell’assemblea liturgica che lo ha ascoltato. D’altronde la sua fama lo ha preceduto: torna a Nazaret come un “maestro” dai tratti profetici, capace di operare guarigioni, azioni miracolose con le sue mani. La prima reazione è di stupore e ammirazione: è un bravo predicatore, ha autorevolezza, la sua parola colpisce e appare ricca di sapienza. Ma di fronte a tale incontestabile verità ecco emergere un pensiero: lo conosciamo come uno di noi, la sua famiglia è qui, i suoi fratelli e le sue sorelle hanno nomi precisi. Dunque che cosa pretende, che cosa vuole? Perché dovrebbe essere “altro”? Sì, Gesù era un uomo come gli altri, si presentava senza tratti straordinari, appariva fragile come ogni essere umano. Così quotidiano, così dimesso, senza qualcosa che nelle sue vesti proclamasse la sua gloria e la sua funzione, senza un “cerimoniale” fatto di persone che lo accompagnassero e lo rendessero solenne nell’apparire tra gli altri.
No, troppo umano! Ma se non c’è in lui nulla di “straordinario”, come poterlo accogliere? Con ogni probabilità, Gesù non aveva neppure una parola seducente, non si atteggiava in modo da essere ammirato o venerato. Era troppo umano, e per questo “si scandalizzavano di lui” (eskandalízonto en autô), cioè sentivano proprio in quello che vedevano, in quella sua umanità così quotidiana, un ostacolo a mettere fiducia in lui e nella sua parola. Dunque quel ritorno al villaggio natale è stato un fallimento. Gesù lo comprende e osa proclamarlo ad alta voce: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”. Sì, questo è avvenuto: proprio chi pretendeva di conoscerlo, in quanto concittadino, vicino o parente, giunge a disprezzarlo. Marco aveva già annotato che all’inizio della sua predicazione i suoi familiari erano venuti per prenderlo e portarlo via, dicendo che egli era pazzo, fuori di sé (éxo: cf. Mc 3,21); ma ora è tutta la gente a emettere questo giudizio negativo su di lui: il suo atteggiamento è troppo umano, poco sacrale, poco rituale!
Gesù allora si mette a curare i malati là presenti, e ne guarisce anche qualcuno, ma è come se non avesse operato miracoli, perché il miracolo avviene quando il testimone passa dall’incredulità alla fede. Qui invece sono restati tutti increduli, per questo Marco sentenzia: “non poteva compiere nessun miracolo” (dýnamis). Gesù è ridotto all’impotenza, non può agire con potenza, non può neanche fare il bene, perché non c’è fede in lui da parte dei presenti. Che torto aveva Gesù? Rispetto a quei “suoi”, camminava troppo avanti agli altri, teneva un passo troppo veloce, vedeva troppo lontano, aveva la parrhesía, il coraggio di dire ciò che gli altri non dicevano, osava pensare ciò che gli altri non pensavano, e tutto questo restando umano, troppo umano.
Ecco ciò che attende chiunque abbia ricevuto un dono da Dio, anche solo una briciola di profezia: diventa insopportabile, e comunque è meglio non fargli fiducia… Gesù “si stupisce della loro mancanza di fede (apistía)”, e tuttavia non demorde: continua la sua missione andando altrove, sempre predicando e operando il bene. Ma senza ricevere fede-fiducia, Gesù non riesce né a convertire né a guarire.