domenica 5 luglio 2015

L’identità fluida di Facebook

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di Leone Grotti
Battersi a favore dei diritti gay oggi non costa niente, ma rende molto. Lo sa bene Mark Zuckerberg, fondatore e Ceo di Facebook, il social network più famoso e popolato al mondo (un miliardo e 400 milioni di utenti), che ha ormai fatto della battaglia in favore dell’amore Lgbt un marchio di fabbrica.
LA CAMPAGNA DI FACEBOOK. Zuckerberg ha sostenuto il matrimonio gay, ha fatto pressione sui giudici della Corte suprema americana perché si dichiarassero a favore delle nozze “same-sex”, ha versato decine di migliaia di dollari per le campagne elettorali di giudici e avvocati generali pro-Lgbt, ha modificato e continua a modificare Facebook per rendere la piattaforma virtuale sempre più simile a quel mondo per cui si battono i promotori dell’ideologia gender. Eppure c’è ancora chi lo accusa di discriminare i gay, in un paradossale vortice di diritti negati che sembra non avere fine e nel quale Zuckerberg ha dimostrato di sapersi districare alla perfezione.
I PRIMI SEGNALI. Tutti si sono accorti che Zuckerberg era pronto a impegnarsi in prima persona nella battaglia dei diritti Lgbt nel 2011. Quell’anno circa 70 dipendenti del social network hanno annunciato che avrebbero partecipato al Gay Pride di San Francisco. Settanta persone sono poca cosa su uno staff che allora contava oltre quattromila dipendenti (oggi sono duemila in più), ma si trattava di un segnale. Proprio quello che il social network ha voluto dare, sempre nel 2011, quando ha permesso per la prima volta a tutti i suoi iscritti di selezionare le opzioni “unioni civili” e “convivenza” per descrivere la propria “situazione sentimentale”.
LE STATUINE. Nel 2012, quando il co-fondatore di Facebook, Chris Hughes, si è sposato con il suo compagno Sean Eldridge, il social network ha aggiornato le icone del matrimonio disponibili: alle classiche statuine uomo/donna sulla torta, ha aggiunto le statuine uomo/uomo e donna/donna. Era un altro piccolo segnale e da lì a poco sarebbe stato seguito dal “coming out” di Zuckerberg.
TUTTI AL GAY PRIDE. Nel 2013, il Ceo di Facebook si è messo alla testa di un corteo di oltre 700 dipendenti al Gay Pride di San Francisco, facendo stampare un migliaio di magliette con il logo dell’azienda ben in vista. Contemporaneamente, ha dato a tutto il mondo la possibilità di parteggiare per la campagna Lgbt senza sforzo: bastava selezionare nel proprio status la nuova opzione “I’m feeling pride”, accompagnata da un piccolo arcobaleno. Dopo poco tempo sulla sua pagina personale è apparso questo post: «Sono orgoglioso che il nostro paese si stia muovendo nella giusta direzione, e sono felice per i tanti miei amici e le loro famiglie #PrideConnectUs».
INVESTIMENTO ECONOMICO. Era già cominciata la battaglia che avrebbe portato alla storica sentenza della Corte suprema americana di pochi giorni fa, che ha definito il matrimonio gay un diritto costituzionale. Allora i giudici avevano posto le basi di quest’ultima decisione abolendo la legge del 1996 che definiva il matrimonio come unione fra uomo e donna. Ma per Zuckerberg quella dei diritti gay è molto più che una semplice battaglia civile: è un investimento economico. E non ci si può stupire che un uomo che ha portato in neanche dieci anni la sua società a valere oltre 200 miliardi di dollari sia sensibile a certe cose.
«È BUSINESS». Insieme ai big della Silicon Valley e ad altre 200 imprese, Facebook scrisse alla Corte suprema che i diritti gay sono importanti dal punto di vista economico. «Noi siamo il futuro, noi vogliamo che le cose vadano avanti, non vogliamo restare indietro. La legge ci costringe a trattare una parte dei nostri impiegati legalmente sposati differentemente da altri, quando il nostro successo si basa sul benessere e il morale dei nostri dipendenti». Morale che dipende da un «ethos del luogo di lavoro di trasparente correttezza». Allora commentò Jane Schacter, docente di legge alla Stanford University: «È un brand, è marketing, è business. Del resto, hanno poco da perdere».
LE PRIME CONSEGUENZE. Qualcosa da perdere in realtà c’era e c’è stato. Da quando Zuckerberg ha deciso di schierarsi a favore del “progresso” e dei diritti legati al sentimento, al desiderio e all’amore che diventa istituzione, ha dovuto anche pagarne le conseguenze. Nel 2014 è stato subissato di critiche per aver finanziato con 10 mila dollari la rielezione dell’avvocato generale dello Utah, Sean Reyes, favorevole a politiche su internet molto vantaggiose per Facebook, ma oppositore delle nozze gay. Così, il trentenne americano si è dovuto rifare versando a scanso di equivoci 8.500 dollari per la rielezione dell’avvocato generale della California, Kamala Harris, favorevole al matrimonio gay. E quando ha invitato a parlare il governatore conservatore repubblicano del New Jersey, Chris Christie, gli utenti hanno lanciato l’hashtag #UnfriendChristie, intimandogli di rompere il rapporto perché «gli amici non permettono agli amici di mettere il veto sull’uguaglianza».


IDEOLOGIA GENDER. E se il mondo, per qualunque motivo, non vuole riconoscere questa uguaglianza, ci pensa Zuckerberg ad offrirla virtualmente nel suo social network. In onore del politicamente corretto, nel febbraio del 2014 Facebook ha permesso a tutti i suoi utenti che non si identificano con le opzioni “maschio” e “femmina” di scegliere 56 modi diversi afferenti al “gender” per autodefinirsi. L’iniziativa, osannata da tutto il mondo, doveva permettere a tutti di sentirsi a proprio agio «con il proprio vero e autentico sé» attraverso un click, ma ha fatto scoppiare anche molte polemiche.
LGBT O LGBTIQQ2SA? In tanti si sono lamentati perché tra le 56 diverse opzioni non c’era quella chiamata “non-gendered identity”. Altri, hanno protestato perché il format di Facebook presenta prima “maschio”/”femmina” e solo dopo l’opzione “personalizza” con tutti i tipi di gender. Ma, si sono chiesti in tanti, perché “maschio” e “femmina” vengono prima? Sono forse più importanti dei 56 tipi di gender? La discriminazione è sempre là dove meno te l’aspetti e Facebook per tutta risposta ha dovuto aggiungere altri due tipi di gender, perché quando si abdica alla razionalità per il sentimento, l’unica via d’uscita è accontentare ogni desiderio, fondato o meno che sia. È così ha fatto Zuckerberg, aprendo il social network anche all’importante dibattito sulla sigla più opportuna da usare per combattere questi nuovi diritti: Lgbt, Lgbtq, Lgbtqi, Lgbtqqi, Lgbtqqiap, Nqbhthowtb, Glw o Lgbtiqq2sa?
26 MILIONI DI ARCOBALENI. Arrivati al 2015, Zuckerberg non ha ancora cambiato registro. Dopo che la Corte suprema ha dichiarato legittime le nozze gay in tutti gli Stati americani, il Ceo del social network ha dato a tutti gli utenti la possibilità di festeggiare comodamente da casa, mettendo a disposizione uno strumento per sovrapporre alla foto del proprio profilo un arcobaleno, simbolo della campagna per i diritti gay. Ben 26 milioni di persone hanno usato il “tool”, ricevendo mezzo miliardo di like e commenti.
INDAGINE DI MERCATO. Nei giorni successivi si è scoperto che l’iniziativa è stata utilizzata anche per condurre un’indagine di mercato sulla capacità di Facebook di influenzare l’opinione pubblica lanciando campagne virali. Ma c’è poco da stupirsi se ancora una volta marketing e diritti si intrecciano in modo inscindibile. Così come non è incredibile se ancora una volta, proprio in questi giorni, Zuckerberg è stato accusato di discriminare i transessuali.
LA PROTESTA TRANSESSUALE. Per problemi legati alla sicurezza, il social network tende a bloccare gli account di chi si iscrive con un nome che appare falso o comunque diverso da quello che viene utilizzato nella vita reale. Così, sostengono transessuali e drag queen, Facebook discrimina i maschi che si fanno chiamare con un nome da donna perché si sentono donne, anche se la carta d’identità dice il contrario, e viceversa. La campagna #MyNameIs mira a cambiare questa politica che attenta alla «libera espressione di sé» e alla possibilità di «autodefinirsi» senza vincoli di sorta.
«UNA SOLA IDENTITÀ». I portavoce del social network hanno difeso la loro politica, affermando di voler mettere al sicuro tutti gli utenti da eventuali troll, istigatori di odio, omofobi o veri e propri criminali. Ma è probabile che Zuckerberg torni sui suoi passi e cambi le regole del gioco, perché sarebbe assurdo pretendere ora che nel regno dell’identità fluida e disancorata da ogni tipo di realtà si rispetti l’utilizzo del «nome autentico». Ormai questo aggettivo su Facebook non ha più senso. Un risultato paradossale, se si pensa che nel 2010 proprio Zuckerberg sosteneva: «Ognuno ha una sola identità. Nessuno può averne due. Sarebbe un esempio di mancanza di integrità».


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