venerdì 11 novembre 2011

Martino di Tours




Oggi 11 NOVEMBRE celebriamo

SAN MARTINO DI TOURS, VESCOVO
(317-397)
Memoria


Figlio di un tribuno romano, Martino nacque in Pannonia (Ungheria) e si arruolò giovanissimo nell’esercito imperiale. Abbandonata la milizia dopo aver ricevuto il battesimo, si recò in Gallia per divenire discepolo di sant’Ilario di Poitiers. Condusse vita eremitica nell’isola Gallinara (Alassio), poi, per consiglio di Ilario fondò a Ligugé (Vienne, Poiton), il primo monastero di tutto l’Occidente. Di lì mandò i suoi monaci all’opera missionaria in tutto il paese. Nel 373 venne scelto come vescovo di Tours. Contemporaneo di sant’Ambrogio, ne emulò lo zelo, divenendo uno dei fondatori della Chiesa della Gallia. Eresse il monastero di Marmoutier, in cui preparava i giovani al sacerdozio, un primo vero seminario che diede molti vescovi alla nazione. Peregrinava di villaggio in villaggio, svolgendo un efficace apostolato fra pastori e contadini, creando parrocchie rurali: il centro della vita economica si spostava allora dalle città alle campagne. Operò ad eliminare il paganesimo e a stabilire la pace religiosa turbata da errori. Fu uno dei primi santi non martiri ad essere onorato nella liturgia. Il suo culto fu ed è ancora diffusissimo: decine e decine di comuni in Italia portano il suo nome.


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Dalle "Lettere" di Sulpicio Severo.
Martino previde molto tempo prima il giorno della sua morte. Avvertì quindi i fratelli che ben presto avrebbe cessato di vivere. Essi si rattristarono grandemente e cominciarono a piangere. Commosso dalle loro lacrime, Martino rivolse a Dio questa preghiera: "Signore, se sono ancora necessario al tuo popolo, non rifiuto la fatica: sia fatta la Tua volontà". Egli non fece alcuna scelta per sè. Non ebbe paura di morire e non si rifiutò di vivere. Rivolto con le mani al cielo, continuava a pregare e si accorse che il diavolo gli stava vicino. Gli disse allora: che fai qui, bestia sanguinaria? Non troverai nulla in me, sciagurato! Il seno di Abramo mi accoglie. Nel dire queste parole, rese l'anima a Dio. Martino povero e umile entra ricco in Paradiso."

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Anche a noi succederà lo stesso: nell'ora della nostra morte il diavolo sarà vicino a noi per impossessarsi della nostra anima e forse noi non potremo rispondergli come Martino, perchè saremo pieni di peccati. Come faremo a salvarci? Procuriamo fin d'ora di avere accanto al nostro letto di morte qualcuno che reciti la Coroncina della Divina Misericordia; infatti :
Dal "Diario" di santa Faustina Kowalska.
"Mi disse Gesù: Scrivi che quando verrà recitata la coroncina vicino agli agonizzanti, Mi metterò tra il Padre e l'anima agonizzante non come giusto Giudice, ma come Salvatore misericordioso... " (Diario, 1541)
E se invece moriremo da soli? In tal caso certamente Dio ci concederà la forza di recitarla da noi stessi.
Dal "Diario" di santa Faustina Kowalska.
"Mi disse Gesù: Nell'ora della morte difenderò come Mia gloria ogni anima che reciterà questa coroncina" (Diario,811). Ci crediamo?

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Di seguito propongo la "Vita di Martino" di Sulpicio Severo. Buona lettura!




Sulpicio Severo

Vita di Martino

Severo al dilettissimo fratello Desiderio

1. Io per mia parte, o unanime fratello, avevo deciso di lasciare incompiuto nei suoi appunti e di non pubblicare il piccolo libro che avevo scritto sulla vita di san Martino, trattenendolo tra le pareti domestiche, perché, di natura timorosissima quale sono, cercavo di evitare il giudizio degli uomini, temendo di dispiacere ai lettori, con il mio stile troppo rozzo, e di esser ritenuto degno in sommo grado della generale riprovazione, ciò che penso accadrà, io che m’ero appropriato impudentemente d’una materia giustamente riservata a scrittori eloquenti; ma non ho potuto rifiutarmi alle tue ripetute richieste. Che cosa vi sarebbe, infatti, che io non tributerei al tuo affetto anche a danno del mio onore? 2. Eppure t’ho consegnato il libretto perché sono fiducioso e credo che non lo rivelerai a nessuno, poiché me l’hai promesso. Ma temo che tu sarai per lui come una porta d’uscita, e una volta uscito non possa esser richiamato indietro. 3. Se ciò dovesse accadere e ti accorgerai che sia letto da alcuni, con buona grazia chiederai ai lettori che valutino la sostanza più della forma, e con animo equo tollerino se un modo di esprimersi forse difettoso offenda le loro orecchie, poiché il regno di Dio si fonda non già sull’eloquenza bensì sulla fede. 4. Rammentino anche che la salvezza fu predicata al mondo non già da oratori – certamente, se fosse stato utile, il Signore avrebbe potuto predisporre anche questo –, bensì da pescatori. 5. Io infatti, non appena m’indussi a scrivere, poiché ritenevo empio lasciar nell’ombra le virtù di un uomo così eminente, fra me e me decisi di non arrossire di eventuali sgrammaticature: poiché non ho mai posseduto una grande scienza in tale materia, e se qualcosa di tali studi ho forse una volta assaporato, l’ho tutto smarrito nella desuetudine di così gran tempo. 6. Ma tuttavia, per risparmiarci una così molesta difesa, soppressone il mio nome, se ti sembra, il libretto sia pure pubblicato. Per far ciò, raschia il titolo sul frontespizio, affinché la pagina sia muta e, quel che basta, parli della materia, non parli dell’autore. Addio, venerabile fratello in Cristo, onore di tutti i buoni e di tutti i santi.

Vita del santo Martino, vescovo

1,1. Moltissimi mortali, vanamente dediti al desiderio della gloria mondana, credettero d’immortalare la memoria del loro nome, se avessero illustrato con la penna la vita degli uomini illustri. 2. Tale inganno apportava un frutto non certo perenne, ma tuttavia di una sia pur piccola entità, alla speranza che avevano concepito, poiché propagavano, sebbene vanamente, la memoria di sé, e con il proporre ai lettori esempi di grandi uomini suscitavano una considerevole emulazione. Ma tuttavia questa loro cura non riguardava per nulla quell’altra vita beata ed eterna. 3. Che cosa giovò a essi, infatti, la gloria dei loro scritti destinati a scomparire con il mondo? O quale beneficio ottenne la posterità dal leggere le battaglie di Ettore e il filosofare di Socrate, quand’è non solo stoltezza l’imitarli, ma anche follia non contestarli con ogni asprezza, in quanto essi, stimando la vita umana soltanto per le azioni presenti, affidarono le loro speranze alle favole, le anime ai sepolcri? 4. Essi in effetti credettero di doversi perpetuare soltanto alla memoria degli uomini, mentre dovere dell’uomo è ricercare la vita eterna piuttosto che l’eterna memoria, non già con lo scrivere o il combattere e il filosofare, ma con il vivere piamente, santamente, religiosamente. 5. E questo umano errore tramandato nella letteratura prese tanto vigore, che esso ha trovato davvero molti emuli sia di questa vana filosofia, sia di quel folle eroismo. 6. Onde mi sembra che farò opera degna, se scriverò la vita d’un uomo santissimo, che in seguito sarà ad altri di esempio, per cui certamente quanti leggeranno saranno spronati alla vera saggezza e alla celeste milizia e alla divina virtù. E in ciò traiamo ragione anche di nostro vantaggio, nella misura in cui ci aspettiamo non una vana memoria tra gli uomini, ma un eterno premio da Dio, poiché, sebbene noi stessi non così abbiamo vissuto da poter essere di esempio ad altri, tuttavia ci siamo adoperati a non lasciar in ombra chi dovesse essere imitato. 7. Dunque inizierò a scrivere la vita del santo Martino, quale fu la sua condotta sia prima dell’episcopato, sia durante l’episcopato, sebbene inutilmente io abbia tentato di accedere a ogni suo atto; così sono ignote le azioni di cui egli solo fu testimone davanti a sé stesso, poiché non ricercando l’elogio degli uomini, per quanto fu in lui, volle che tutte le sue virtù restassero in ombra. 8. Quantunque anche dei fatti che ci erano noti, molti ne abbiamo omessi, poiché abbiamo ritenuto bastasse ricordarne soltanto alcuni di maggior rilievo. Nello stesso tempo è stato necessario pensare anche ai lettori, affinché una affollata abbondanza non procurasse loro qualche molestia. 9. Scongiuro poi coloro che mi leggeranno, di prestar fede alle mie parole, e di non ritenere che io abbia scritto alcunché se non ben noto e accertato; altrimenti avrei preferito tacere piuttosto che dir cose false.

2,1. Dunque, Martino era originario della città fortificata di Sabaria, nelle Pannonie, ma fu allevato in Italia, a Pavia; i suoi genitori erano di rango non basso, secondo la valutazione del mondo, ma pagani. 2. Suo padre fu dapprima semplice soldato, poi tribuno militare. Egli stesso, seguendo da giovane la carriera delle armi, militò nella cavalleria della guardia sotto l’imperatore Costanzo, poi sotto il Cesare Giuliano; tuttavia non a suo buon grado, poiché, quasi fin dai primi anni, la santa infanzia del nobile fanciullo aspirò piuttosto al servizio di Dio. 3. Infatti, in età di dieci anni, contro il volere dei genitori, si rifugiò in una chiesa e chiese di diventare catecumeno. 4. Poi, in mirabile modo, convertitosi interamente al servizio di Dio, in età di dodici anni desiderò ardentemente il deserto, e avrebbe soddisfatto a quei voti, se la debolezza dell’età non gli fosse stata d’impedimento. L’animo suo, tuttavia, sempre proteso verso le celle degli eremiti o verso la Chiesa, già nell’età puerile meditava ciò che in seguito compì religiosamente. 5. Ma essendo stato prescritto dai sovrani che i figli dei veterani fossero coscritti nella milizia, per rivelazione del padre che considerava ostilmente la sua santa condotta, in età di quindici anni fu preso, incatenato e obbligato ai legami del giuramento militare, pago di un solo servo per compagno, al quale tuttavia, con ruoli rovesciati, il padrone fungeva da servitore, così che per lo più era egli stesso a togliergli i calzari, egli stesso a detergerli, e insieme prendevano cibo, ma era egli più sovente a servire in tavola. 6. Trascorse quasi tre anni sotto le armi prima del battesimo, integro tuttavia dai vizi dai quali quel genere d’uomini è solito essere intricato. 7. Grande la sua benignità verso i commilitoni, mirabile la gentilezza, ma la pazienza e l’umiltà oltre l’umana misura. Non è infatti necessario lodare in lui la frugalità, come fu a tal segno da lui praticata, che già in quel tempo lo si sarebbe creduto non soldato, ma monaco. Per queste sue virtù aveva così strettamente avvinto a sé tutti i commilitoni, da esserne venerato con mirabile affetto. 8. Non ancora rigenerato in Cristo, egli si comportava bensì come un candidato al battesimo per le opere di carità: assistere i tribolati nelle malattie, soccorrere gli sventurati, nutrire i bisognosi, vestire i nudi, nulla riservare a sé della paga della milizia, fuorché quanto servisse al sostentamento quotidiano. Già da allora egli era un ascoltatore non sordo ai precetti del Vangelo, e non si curava del domani.

3,1. Così, un giorno, non avendo nulla indosso oltre alle armi e al semplice mantello di soldato, nel pieno d’un inverno che s’irrigidiva più aspramente del solito, al punto che moltissimi soccombevano alla violenza del gelo, gli accadde d’incontrare sulla porta della città di Amiens un povero nudo. E poiché questi pregava i passanti di aver pietà di lui, e tutti passavano oltre senza curarsi dello sventurato, quell’uomo ricolmo di Dio comprese che, siccome gli altri si rifiutavano a un atto di carità, quel povero era riservato a lui. 2. Ma che fare? Non aveva null’altro che la clamide, di cui era vestito; infatti aveva già sacrificato tutto il resto in una uguale opera buona. E così, brandita la spada che aveva alla cintura, divise la clamide a metà, e ne donò al suo povero una parte, dell’altra si rivestì. Frattanto alcuni astanti si misero a ridere, poiché lo trovarono indecoroso in quella veste mutilata; molti tuttavia, di animo più saggio, si diedero a gemere profondamente per non aver fatto nulla di simile, poiché possedendo senz’altro più di lui, avrebbero potuto vestire quel povero senza ridursi alla nudità. 3. Dunque, la notte seguente, essendosi abbandonato al sonno, vide Cristo vestito della parte della sua clamide, con la quale aveva coperto il povero. Gli fu ordinato di considerare attentamente il Signore, e di riconoscere la veste che aveva donato. Subito dopo, udì Gesù dire con chiara voce alla moltitudine di angeli che stavano intorno a lui: «Martino, che ancora non è che un catecumeno, mi ha coperto con questa veste». 4. Davvero memore delle sue parole, il Signore, che un tempo aveva proclamato: «Ogni volta che avete aiutato una di queste mie umilissime creature, avete aiutato me» (Mt 25,40), dichiarò di essere stato vestito nella persona di quel povero; e a confermare la testimonianza di una così buona opera, Egli non disdegnò di mostrarsi in quel medesimo abito che il povero aveva ricevuto in dono. 5. Ciò visto, il santissimo uomo non si esaltò d’orgoglio umano, ma riconoscendo nella sua opera la bontà di Dio, mentre era in età di diciotto anni s’affrettò a ricevere il battesimo. E tuttavia non rinunziò subito alla condizione di soldato, trattenuto dalle preghiere del suo tribuno, al quale lo legavano vincoli di amichevole cameratismo: infatti costui s’era ripromesso di ritirarsi dal mondo una volta trascorso il tempo del suo tribunato. 6. Trattenuto da questa attesa, Martino, quasi per due anni dopo aver ricevuto il battesimo, continuò il servizio militare, benché soltanto di nome.

4,1. Frattanto, i barbari invasero le Gallie e il Cesare Giuliano, concentrato l’esercito presso la città di Worms, prese a distribuire un donativo ai soldati; com’è consuetudine, venivano chiamati per nome uno per uno, finché si giunse a Martino. 2. Allora, ritenendo che fosse la circostanza opportuna per chiedere il congedo – infatti pensava che non avrebbe serbato integra la libertà, se avesse accettato il donativo senza continuare il servizio – disse a Cesare: 3. «Finora ho militato ai tuoi ordini, permettimi ora di militare al servizio di Dio. Riceva il donativo chi fa proponimento di combattere per te; io sono soldato di Cristo: combattere non mi è lecito». 4. Allora, a queste parole, il tiranno si adirò grandemente, esclamando che lui rifiutava il servizio militare per timore della battaglia, che si sarebbe svolta il giorno dopo, non già a causa della sua convinzione religiosa. 5. Ma Martino, intrepido, reso anzi più fermo nel suo proposito dal tentativo di spaventarlo, disse: «Se ciò è attribuito a vigliaccheria, e non alla mia fede, domani mi porrò inerme davanti alla schiera, e in nome del Signore Gesù, protetto non dallo scudo o dall’elmo, ma dal segno della croce, penetrerò sicuro tra i reparti dei nemici». 6. Lo si fece dunque afferrare e trascinare in prigione, perché tenesse fede a quanto aveva detto e fosse opposto inerme ai barbari. 7. Il giorno dopo, i nemici mandarono ambasciatori di pace, offrendo di consegnare se stessi e tutte le loro cose. Chi potrebbe dunque dubitare che questa sia stata davvero una vittoria di quell’uomo santo, a cui fu concesso di non essere mandato inerme in battaglia? 8. E sebbene il Signore nella sua bontà avrebbe potuto salvare il suo soldato anche tra le spade e i dardi dei nemici, tuttavia, affinché i suoi santi sguardi non fossero oltraggiati anche dalla morte di altri, soppresse la necessità del combattimento. 9. Infatti Cristo si sentì costretto a offrire in favore del suo soldato soltanto una vittoria nella quale, sottomessi i nemici senza spargimento di sangue, nessuno avesse a morire.

5,1. Poi, lasciato il servizio militare, Martino si recò presso sant’Ilario, vescovo della città di Poitiers, la cui fede, in materia delle cose di Dio, si trovava allora provata e riconosciuta, e presso di lui dimorò un po’ di tempo. 2. Il medesimo Ilario tentò, conferitagli la funzione di diacono, di stringerlo più saldamente a sé e di legarlo al servizio di Dio; ma avendo egli rifiutato più volte, proclamando di essere indegno, quel sacerdote di così alto ingegno comprese che Martino avrebbe potuto essere impegnato in un sol modo, se gli si conferisse un incarico nel quale apparisse una certa umiliazione. E così lo invitò con insistenza a essere esorcista. Egli non ricusò tale ordinazione, perché non sembrasse di averla in dispregio come troppo umile. 3. E non molto dopo, esortato in sogno a visitare con religiosa sollecitudine la patria e i genitori, ancora prigionieri del paganesimo, partì con il consenso di sant’Ilario, da molte sue preghiere e lacrime impegnato a tornare. Con tristezza – così dicono – egli intraprese quel lungo viaggio, avendo assicurato ai fratelli di dover affrontare molte avversità: ciò che poi i fatti confermarono. 4. Per prima cosa, tra le Alpi, seguendo impervi sentieri, cadde in mano ai briganti. E avendo uno di costoro, sollevata la scure, librato il colpo sul suo capo, un altro fermò la mano di chi stava per ferire; legategli tuttavia le mani dietro il dorso, venne consegnato a uno di loro che lo sorvegliasse e lo spogliasse. E questi, condottolo in luoghi remoti, prese a chiedergli chi fosse. Rispose d’essere un cristiano. 5. Gli chiese quindi se avesse paura. Allora con estrema fermezza dichiarò di non essersi mai sentito tanto sicuro, perché sapeva che la misericordia di Dio si sarebbe manifestata soprattutto durante le prove della vita; egli piuttosto si doleva per lui, come di chi, esercitando il brigantaggio, era indegno della misericordia di Cristo. 6. E prendendo a trattare del Vangelo, predicava al brigante la parola di Dio. Perché indugiare più a lungo? Il brigante credette, e mettendosi al seguito di Martino lo ricondusse sulla via giusta, chiedendogli di pregare Dio per lui. Egli stesso, poi, fu visto condurre vita ascetica, così che i fatti appena ricordati si possono dire ascoltati dalle sue stesse labbra.

6,1. Dunque, avendo Martino proseguito il suo viaggio, dopo ch’ebbe oltrepassato Milano, durante il cammino gli si fece incontro il diavolo, preso aspetto umano, chiedendogli dove si dirigesse. Ed essendosi avuta da Martino questa risposta, che là egli si dirigeva dove il Signore lo chiamava, gli disse: 2. «Dovunque andrai e qualunque cosa tenterai, troverai il diavolo davanti a te». Allora Martino rispondendogli con parole del profeta, disse: «Il Signore è il mio sostegno; non temerò che cosa possa farmi l’uomo» (Sal 117,6). E subito il nemico svanì dal suo cospetto. 3. Così, com’egli aveva concepito con tutta l’intenzione dell’animo, liberò la madre dall’errore del paganesimo, mentre suo padre perseverava nel male; tuttavia salvò molti con il suo esempio. 4. Poi, essendo cresciuta l’eresia ariana in tutto il mondo e soprattutto nell’Illirico, trovandosi pressoché solo a opporsi con fierissima energia alla fede corrotta dei vescovi ed essendo stato sottoposto a numerosi maltrattamenti – fu anche pubblicamente battuto con le verghe e infine obbligato a uscire dalla città – ritornando in Italia, trovò la Chiesa travagliata anche nelle Gallie, a causa dell’allontanamento di sant’Ilario, che la violenza degli eretici aveva costretto all’esilio; e si stabilì in eremitaggio a Milano. E anche lì Aussenzio, animatore e capo degli Ariani, accanitamente lo perseguitò, e più volte oltraggiatolo, lo fece scacciare dalla città. 5. E così, stimando che si dovesse cedere alle circostanze, si ritirò nell’isola denominata Gallinaria, in compagnia d’un prete, uomo di grandi virtù. Qui per parecchio tempo si sostentò con le radici delle erbe. E in quel periodo prese come cibo l’elleboro, una pianta, secondo quanto dicono, velenosa. 6. Ma avendo sentito la forza del veleno che l’assaliva, in prossimità della morte, scacciò con la preghiera l’incombente pericolo e subito ogni dolore venne fugato. 7. E non molto dopo, avendo appreso che, grazie al pentimento del sovrano, era stata accordata a sant’Ilario la facoltà di ritornare dall’esilio, egli tentò d’incontrarlo a Roma e partì alla volta della città.

7,1. Poiché Ilario era già passato, tallonandolo lo segui e lo raggiunse, ed essendo stato ricevuto da lui con ogni affettuosità, stabilì una cella d’eremita non lontano dalla città. In quel tempo gli si unì un catecumeno, desideroso di formarsi sulle regole di vita d’un uomo così santo. Trascorsi pochi giorni, colto all’improvviso da malattia, quegli era travagliato dalla violenza della febbre. 2. Proprio allora, per caso, Martino era partito. Ed essendo stato lontano per tre giorni, al suo ritorno ne trovò il corpo esanime: la morte era stata così improvvisa, che quello s’era dipartito dalle cose umane senza battesimo. Il corpo, esposto, era circondato dai fratelli afflitti, intenti a rendergli il triste officio, quando Martino accorse piangente e gemente. 3. Ma allora con tutto l’animo concentrato nello Spirito Santo, ordinò a tutti gli altri di uscire dalla cella in cui giaceva il corpo, e serrata la porta, si prosternò sulle membra esanimi del fratello defunto. Ed essendosi per alquanto tempo immerso in preghiera, avvertito per tramite dello Spirito che la virtù del Signore era presente, sollevatosi un po’ e fissato il volto del morto, aspettava intrepido l’esito della sua preghiera e della misericordia del Signore. Era appena trascorso lo spazio di due ore, e vide il morto riacquistare a poco a poco movimento in tutte le membra, e palpitare nell’uso della vista con gli occhi dischiusi. 4. Allora, rivoltosi a gran voce al Signore, rendendo grazie riempiva di grida la cella. Udito ciò, quelli ch’erano stati immobili fuori della porta subito irruppero dentro. Meraviglioso spettacolo: vedevano vivere chi avevano lasciato morto. 5. Così reso alla vita, subito ricevuto il battesimo, visse poi molti anni, e per primo fu a noi testimone e insieme materia dei miracoli di Martino. 6. Egli medesimo da allora era solito raccontare che, spogliato del corpo, era stato condotto al tribunale del Giudice, e ne aveva ricevuto la triste sentenza di dover essere relegato nei luoghi oscuri e fra le turbe volgari; da due angeli era poi stato osservato al Giudice che lui era quello per cui Martino pregava; così era stato ordinato che fosse ricondotto indietro dai medesimi angeli, e restituito a Martino, reso alla sua vita di prima. 7. Da questo momento, per la prima volta la rinomanza dell’uomo beato risplendette: così chi era già da tutti ritenuto santo, fu anche ritenuto potente e veramente simile agli Apostoli.

8,1. Poco dopo, mentre passava lungo il terreno d’un tal Lupicino, un uomo ragguardevole secondo il giudizio del mondo, fu accolto dal luttuoso clamore d’una folla gemente. 2. Ad essa sollecitamente avvicinatosi, e chiesto che cosa fosse quel pianto, gli fu spiegato che un povero schiavo di quelli della casa s’era tolta la vita impiccandosi. Saputo ciò, entrò nella piccola cella, dove il corpo giaceva, e chiusa fuori tutta la folla, disteso sulla salma per un po’ di tempo pregò. 3. Ben presto, rianimato in volto, ma ancora languenti gli occhi, il morto si sollevò verso il volto di Martino; e con lenti sforzi cercando di alzarsi, afferrata la mano del beato uomo si rizzò in piedi, e così insieme con lui avanzò fino al vestibolo della casa, tra gli sguardi intenti di tutta la turba.

9,1. Press’a poco nella medesima epoca, era richiesto come vescovo di Tours; ma poiché non poteva essere facilmente strappato dal suo eremo, un tal Rusticio, cittadino appunto di Tours, dando a intendere una malattia di sua moglie, gettandosi alle sue ginocchia, riuscì a farlo uscire. 2. Così, predisposte turbe di cittadini lungo il cammino, fu per così dire condotto sotto scorta fino alla città. In mirabile modo un’incredibile moltitudine non solo da quel borgo ma anche dalle città vicine s’era radunata per recare i suoi consensi. 3. A tutti un’unica volontà, i medesimi desideri, il medesimo sentimento: Martino era il più degno dell’episcopato; fortunata la chiesa che avrebbe avuto un tal vescovo. Un piccolo numero tuttavia, e alcuni dei vescovi che erano stati convocati per insediare il vescovo, empiamente si opponevano asserendo ch’era personaggio spregevole, ed era indegno dell’episcopato un uomo dall’aspetto miserando, dal sordido abbigliamento, dalla capigliatura arruffata. 4. Così stando le cose, il popolo, di più saggio sentire, irrise la folla di costoro, che mentre desideravano diffamare l’illustre uomo, ne rendevano pubbliche le virtù. Né a quelli invero fu lecito far altro che quanto il popolo, per volontà di Dio, si proponeva di fare. Tuttavia tra i vescovi presenti, si dice che un tal Difensore fosse stato il principale avversario. Quindi si osservò ch’egli fu colpito allora da un aspro biasimo con la lettura d’un versetto profetico. 5. Infatti, essendo fortuitamente rimasto assente, ostacolato dalla ressa, il lettore che in quel giorno aveva l’incarico di leggere i testi sacri, essendo tutti confusi gli officianti, uno degli assistenti, preso il Salterio, s’apprese al primo versetto che trovò. 6. Ora il Salmo era questo: «Per bocca degli infanti e dei lattanti hai reso gloria a te stesso a causa dei tuoi nemici, perché tu distrugga il nemico e il difensore» (Sal 8,3). Alla lettura di queste parole, si levò un clamore del popolo, e la parte che si opponeva fu confusa. 7. Si ritenne che questo salmo fosse stato letto per volontà divina, così che udisse tale testimonianza sulle sue opere Difensore, il quale per bocca d’infanti e di lattanti, mentre il Signore rendeva gloria a se stesso nella persona di Martino, era stato designato e parimenti distrutto come nemico.

10,1. Ed ora, di qual condotta e valore si sia mostrato dopo avere assunto l’episcopato, non è nelle nostre facoltà esporre compiutamente. Perseverava infatti con assoluta fermezza a esser l’uomo che s’era mostrato in precedenza. 2. La medesima umiltà nel suo cuore, la medesima povertà nel suo abito; e così, pieno d’autorità e di grazia, compiva il suo ufficio episcopale, tuttavia in modo da non tralasciare la condotta e le virtù monastiche. 3. Per molto tempo abitò dunque in una piccola cella addossata alla chiesa; poi, non potendo sopportare la fastidiosa inquietudine per tutti coloro che gli facevano visita, si stabilì in una cella d’eremita a circa due miglia fuori della città. 4. Questo luogo era così appartato e remoto, da non invidiar nulla alla solitudine d’un deserto. Da una parte era infatti costeggiato dallo strapiombo rupestre d’un alto monte, il corso del fiume Loira con una sua breve rientranza precludeva il resto del terreno; vi si poteva accedere per una sola via, per di più oltremodo scomoda. Egli stesso aveva una piccola cella fatta di legni. 5. Molti fratelli erano alloggiati allo stesso modo; i più s’erano fatto un ricettacolo nella roccia scavata del monte soprastante. Erano quasi ottanta discepoli, che venivano formati sull’esempio del beato maestro. 6. Nessuno possedeva lì alcunché di proprio, tutto era messo in comune. Non era lecito comprare o vendere nulla com’è abitudine di molti monaci; nessun’arte era esercitata, eccettuato il lavoro dei copisti, di cui erano tuttavia incaricati i più giovani; gli anziani erano esclusivamente dediti alla preghiera. 7. Raro a ciascuno l’uscire dalla cella, tranne che per recarsi al luogo di raduno per la preghiera. Prendevano cibo tutti insieme, passato il tempo del digiuno. Nessuno toccava vino, a meno che l’infermità non l’obbligasse. 8. Moltissimi vestivano di pelo di cammello: un abito troppo fine era ritenuto una colpa grave. E questo tanto più bisogna considerare mirabile, in quanto molti fra loro, si diceva, erano nobili, i quali educati in modo assai diverso, si erano assoggettati a questa vita di umiltà e di ascesi; molti di loro in seguito li abbiamo veduti vescovi. 9. Infatti quale città o chiesa non avrebbe desiderato per sé un sacerdote uscito dal monastero di Martino?

11,1. Ma per cominciare a parlare degli altri miracoli, di cui dette prova durante il suo episcopato: non lontano dal borgo, assai vicino all’eremo, c’era un luogo che la falsa credenza popolare aveva consacrato come fosse un luogo dove i martiri giacevano sepolti. 2. Infatti v’era anche un altare che si riteneva collocato lì dai vescovi precedenti. Ma Martino non prestando fede in modo avventato a eventi incerti, chiedeva con insistenza ai preti e ai chierici, maggiori di lui per età, di rivelargli il nome del martire e la data della sua passione: era turbato da grande scrupolo, diceva, poiché a questo proposito la tradizione degli avi non gli apportava nessuna certezza coerente. 3. Essendosi dunque per molto tempo tenuto lontano da quel luogo, senza abrogare il culto, poiché restava nell’incertezza, e senza accordare l’avallo del suo prestigio al popolo, affinché la superstizione non crescesse più oltre in vigore, un giorno, presi con sé alcuni fratelli si recò sul luogo. 4. Poi, eretto proprio sul sepolcro si rivolse pregando al Signore, affinché gli rivelasse chi fosse stato sepolto lì e quali meriti avesse avuto. Allora, volgendosi a sinistra, vide accanto drizzarsi un’ombra sordida, truce; le comandò di dire il nome, i meriti. Dice il nome, confessa il crimine; era stato un brigante, giustiziato per i delitti, celebrato per errore del popolo; nulla aveva in comune con i martiri, poiché questi dimoravano nella gloria, lui nella pena. 5. In mirabile modo, i presenti ne udivano la voce, ma non ne vedevano la persona. Allora Martino espose che cosa aveva visto e ordinò di rimuovere dal luogo l’altare, che era stato lì, e così liberò il popolo dall’errore di quella superstizione.

12,1. Accadde in seguito che, mentre era in cammino, trasportassero in direzione opposta alla sua la salma d’un pagano verso la sepoltura, con un apparato funebre pieno di superstizione; scorta da lontano una turba che veniva verso di lui, ignaro di cosa si trattasse, per un poco ristette. C’era infatti uno spazio intermedio di cinquecento passi, così ch’era difficile discernere quel che vedeva. 2. Tuttavia, poiché distingueva un gruppo di contadini, e al soffio del vento volteggiavano teli di lino gettati sui corpi, credeva che si compissero cerimonie sacre di carattere pagano, poiché i contadini Galli avevano questa consuetudine, nella loro miserevole follia, portare attorno in processione per i loro campi statue di dei pagani coperti di candidi teli. 3. Levato dunque il segno della croce verso quelli che gli venivano incontro, ordinò alla turba di non muoversi dal luogo dov’era e di deporre il fardello. Allora in mirabile modo avresti potuto vedere quei miserabili dapprima irrigidirsi come sassi. 4. Poi, cercando di procedere con sommo sforzo, non riuscendo ad avanzare oltre, ruotavano su se stessi in ridicolo volteggio, finché vinti deposero il fardello della salma. Attoniti e guardandosi l’un l’altro, pensavano silenziosi a ciò che era potuto loro accadere. 5. Allora quell’uomo santo, avendo constatato che quella folla era raccolta per delle esequie e non per una cerimonia pagana, sollevata di nuovo la mano concesse loro la facoltà di riprendere il cammino e di sollevare la salma. Così, quando volle, li costrinse a restar fermi e, quando gli piacque, permise loro di allontanarsi.

13,1. Così un altro giorno, avendo demolito un antichissimo tempio in un villaggio, e intrapreso ad abbattere un pino che si ergeva vicinissimo al santuario, il sacerdote di quel luogo e tutta la turba dei pagani cominciarono a opporglisi. 2. Ed essendo i medesimi rimasti quieti per volontà di Dio mentre il tempio veniva demolito, non tolleravano che l’albero fosse tagliato. Egli s’adoperava per far loro osservare che non v’era nulla di sacro in un ceppo; seguissero piuttosto il Dio, che egli stesso serviva; bisognava abbattere quell’albero, poiché era consacrato a un demonio. 3. Allora uno di quelli, ch’era più temerario degli altri, disse: «Se tu hai qualche fiducia in quel Dio, che dici di venerare, noi stessi abbatteremo questo albero, ricevilo su di te nella sua caduta: e se il tuo Dio è con te, come affermi, ti salverai». 4. Allora egli, intrepidamente confidando in Dio, s’impegnò a farlo. Al momento tutta quella turba di pagani consentì a questa condizione, e facilmente si rassegnarono alla perdita del loro albero, se con la caduta di esso avessero potuto schiacciare il nemico delle loro cerimonie sacre. 5. E così, essendo quel pino inclinato da una parte in modo che non v’era alcun dubbio sulla parte dove, tagliato, si sarebbe abbattuto, egli fu posto, eretto e legato, secondo la volontà di quei contadini, nel luogo in cui nessuno dubitava che l’albero sarebbe caduto. 6. E dunque essi stessi presero a tagliare il loro pino con grande allegria e letizia. Assisteva in disparte una folla di spettatori attoniti. E già il pino oscillava e sul punto di cadere minacciava il suo crollo. 7. Impallidivano in disparte i monaci, e atterriti dal pericolo ormai prossimo, avevano perduto ogni speranza e fiducia, aspettando solo la morte di Martino. 8. Ma, confidando in Dio, in intrepida attesa, quando già il pino abbattendosi emetteva un fragore, egli, levata la mano contro quello che cadeva e rovinava su di lui, oppose il segno della salvezza. Ma allora – l’avresti creduto spinto all’indietro da una sorta d’uragano –, il pino crollò dalla parte opposta, così che quasi schiacciò i contadini, che erano stati lì come in luogo sicuro. 9. Allora, levato un clamore al cielo, i pagani si meravigliarono del miracolo, i monaci piansero di gioia, tutti all’unisono glorificarono Cristo: fu ben chiaro che in quel giorno era venuta la salvezza per quelle contrade. Infatti non vi fu quasi nessuno in quella enorme moltitudine di pagani, che non reclamò l’imposizione delle mani e, abbandonato l’empio errore, non credette nel Signore Gesù. Invero prima di Martino pochissimi, anzi quasi nessuno in quei paesi aveva ricevuto il Cristo. E grazie ai suoi miracoli e al suo esempio il nome di Cristo diventò così forte che là non si trova più alcun luogo che non sia pieno di chiese e di eremi in grandissimo numero. Infatti dove egli aveva distrutto templi pagani, subito nello stesso luogo costruiva chiese o romitaggi.

14,1. E un miracolo non meno grande mostrò press’a poco nei medesimi tempi e nella medesima prova. Infatti, in un villaggio avendo appiccato il fuoco a un tempio pagano antichissimo e molto frequentato, al soffiar del vento i turbini di fiamme si spostavano su una casa vicina, anzi addossata all’edificio. 2. Appena Martino s’accorse di ciò, con rapida corsa salì sul tetto della casa, portandosi contro le fiamme che avanzavano. Ma allora, mirabile spettacolo, avresti potuto scorgere il fuoco ritorcersi contro la forza del vento, e vedere un conflitto di elementi in lotta tra loro. Così per virtù di Martino il fuoco operò soltanto lì, dove gli fu comandato 3. In un villaggio, di nome Levroux, avendo voluto ugualmente abbattere un tempio che una falsa superstizione aveva colmato di ricchezze, la folla dei pagani gli oppose resistenza, così che venne scacciato non senza violenza. 4. E così si ritirò nelle immediate vicinanze. Là per tre giorni, vestito del cilicio e coperto di cenere, in continui digiuni e orazioni, pregava il Signore affinché la virtù divina distruggesse quel tempio, poiché la mano dell’uomo non aveva potuto abbatterlo. 5. Allora gli si presentarono all’improvviso due angeli armati di lancia e di scudo a guisa di milizia celeste, dicendosi inviati dal Signore per fugare quella rustica moltitudine e portare aiuto a Martino, affinché nessuno, mentre il tempio veniva demolito, opponesse resistenza: ritornasse dunque e devotamente compisse l’opera intrapresa. 6. Così riandato al villaggio, sotto lo sguardo e nell’acquiescenza delle turbe dei pagani, mentre demoliva fin dalle fondamenta il tempio profano, ridusse in polvere tutte le are e le statue. 7. A tal vista, i contadini, comprendendo d’essere rimasti stupefatti e atterriti per volontà divina affinché non si opponessero al vescovo, quasi tutti credettero nel Signore Gesù, attestando pubblicamente con alte grida la loro fede, e che si doveva adorare il Dio di Martino, e trascurare invece idoli che non sapevano neanche aiutare se stessi.

15,1. Riferirò pure che cosa accadde in un borgo degli Edui. Dove, mentre allo stesso modo demoliva un tempio, una folla inferocita di contadini pagani si gettò contro di lui. E tentando uno più ardito degli altri di colpirlo con la spada snudata, egli, gettato il mantello, offrì il suo capo scoperto a colui che stava per ferirlo. 2. Il pagano non esitò a colpire, ma, avendo sollevato troppo in alto la mano destra, crollò in terra supino, e costernato dal timore di Dio, implorava grazia. 3. Né dissimile da questo fu l’altro fatto. Avendo un tale voluto accoltellarlo mentre distruggeva degli idoli, proprio nell’atto del colpo il coltello gli sbalzò di mano e scomparve. 4. Per lo più, quando i contadini tentavano ostilmente di dissuaderlo dal distruggere i loro santuari, con santa predicazione così mitigava gli animi dei pagani, che essi stessi, rivelata loro la luce della verità, abbattevano i propri templi.

16,1. Ma quanto alla grazia delle guarigioni, essa era in lui così potente, che quasi nessun infermo si recò da lui senza recuperare subito la salute. Ciò risulterà dall’esempio che segue. 2. A Treviri una fanciulla era preda della crudele infermità della paralisi, così che già da molto tempo il suo corpo non era in grado di compiere nessuna funzione pertinente alle attività umane: pressoché morta in ogni sua parte, palpitava appena d’un tenue soffio vitale. 3. I suoi parenti, afflitti, stavano presso di lei senz’altra attesa che quella della sua morte, quando all’improvviso fu annunziato l’arrivo di Martino in quella città. Come il padre della fanciulla venne a saperlo, corse a perdifiato a intercedere per la figlia. 4. E per caso Martino era già entrato nella chiesa. Qui, sotto lo sguardo del popolo e in presenza di molti altri vescovi, il vecchio abbracciò gemendo le sue ginocchia, e diceva: «Mia figlia muore per un penoso genere di malattia e, ciò che è più crudele della morte, vive solo per un soffio, mentre la sua carne è già morta. Ti prego di visitarla e di benedirla: confido infatti che per tua intercessione riacquisterà la salute». 5. Martino rimase come stupefatto da quella voce sconvolta, e tentò di schermirsi dicendo che ciò non era in suo potere, e che il vecchio errava nel giudizio, ed egli non era degno che Dio manifestasse per suo mezzo un segno della propria potenza. Insisteva con maggior veemenza, in lacrime, il padre, e implorava che visitasse la moribonda. 6. Infine, spinto ad andare dai vescovi che l’attorniavano, discese alla casa della fanciulla. Un’enorme turba era fuori della porta, aspettando che cosa avrebbe fatto il servo di Dio. 7. Ed egli, per cominciare, ricorrendo alle armi che gli erano familiari in situazioni di tal genere, si prostrò al suolo in preghiera. Poi, esaminando l’ammalata, chiede che gli si dia dell’olio. E dopo averlo benedetto, versa il potere del santo liquido nella bocca della fanciulla, e subito le fu resa la voce. 8. Poi a poco a poco, al suo contatto, le singole membra cominciarono a riprendere vita, finché a piè fermo si alzò al cospetto del popolo.

17,1. Nella medesima epoca uno schiavo d’un tal Tetradio, personaggio di rango proconsolare, posseduto dal demonio, era torturato da sofferenze mortali. Martino, pregato dunque d’imporgli la mano, ordinò che glielo conducessero, ma il malvagio spirito in nessun modo poté essere tratto fuori dalla cella in cui era, a tal punto con denti rabbiosi s’avventava su quanti arrivassero. 2. Allora Tetradio si precipitò alle ginocchia del santo, affinché discendesse alla casa dove l’indemoniato era trattenuto. Ma Martino dichiarò di non poter recarsi nella casa d’un incredulo e d’un pagano. 3. Infatti Tetradio, in quel tempo, era ancora intrigato e imprigionato dall’errore del paganesimo. Dunque promise che, se il demonio fosse stato scacciato dal suo giovane schiavo, si sarebbe fatto cristiano. 4. Così Martino, imposta la mano al giovane, espulse da lui lo spirito immondo. A tale vista, Tetradio credette nel Signore Gesù, e subito diventò catecumeno, e poco dopo fu battezzato e sempre con mirabile affetto venerò Martino quale autore della sua salvezza. 5. In quei medesimi tempi, nella medesima città, entrato nella casa d’un padre di famiglia, s’arrestò proprio sulla soglia, dicendo di vedere nell’atrio della casa un orrendo demonio. Come gli ordinò di sloggiare, quello s’apprese al cuoco del padrone di casa, che si trovava nella parte interna della dimora. Lo sventurato cominciò a infuriare coi denti, e a tentar di dilaniare chiunque gli venisse incontro. Sconvolta la casa, panico tra gli schiavi, messi in fuga gli spettatori all’esterno. 6. Martino si lanciò davanti all’indemoniato e per cominciare gli intimò di arrestarsi. Ma poiché quello digrignava i denti e minacciava di mordere con le fauci spalancate, Martino gli infilò le dita nella bocca e disse: «Se hai qualche potere, divorale». 7. Ma allora, come se avesse ricevuto nella bocca un ferro arroventato, scostati i denti lontano dalle dita del santo, si guardava bene dal toccarle; e il demonio, costretto a fuggire con pene e tormenti dal corpo che possedeva, e poiché tuttavia non gli era lecito uscire attraverso la bocca, lasciando sozze tracce fu evacuato con un flusso del ventre.

18,1. Frattanto, mentre la notizia d’una migrazione e invasione dei barbari aveva messo improvvisamente in allarme la città, Martino ordinò che fosse fatto comparire davanti a lui un posseduto dal demonio; gli ingiunse di dichiarare se la notizia fosse vera. 2. Allora quello confessò che dieci demoni l’avevano assistito affinché spargesse questa diceria tra il popolo, perché almeno da questo timore Martino fosse scacciato da quel borgo; i barbari a nulla pensavano meno che a un’invasione. Così, per queste dichiarazioni fatte dallo spirito immondo in mezzo alla chiesa, la città fu liberata dal timore e dall’allarme presenti. 3. A Parigi, nel momento in cui varcava la porta della città, tra grandi turbe che andavano con lui, baciò un lebbroso nel miserevole volto tra l’orrore di tutti e lo benedisse. E subito purificato completamente dal morbo, 4. il giorno dopo il lebbroso, venendo alla chiesa con la pelle splendente, rendeva grazie per la salute recuperata. Né si deve passare sotto silenzio che frange strappate dal suo mantello e dal suo cilicio esercitarono di frequente un loro potere curativo sulle infermità. 5. Infatti, attaccate alle dita o passate intorno al collo degli infermi, spesso ne fugarono i morbi.

19,1. Arborio, un uomo che era stato prefetto, un’anima oltremodo santa e fedele, mentre sua figlia era riarsa da gravissimi accessi di febbre quartana, insinuò in petto alla fanciulla, nel colmo dell’accesso febbrile, una lettera di Martino che per caso gli era stata recapitata, e subito la febbre scomparve. 2. Questa cosa tanto impressionò Arborio, che subito votò la fanciulla a Dio e la consacrò a perpetua verginità. Recatosi a trovare Martino, gli presentò la fanciulla, vivente testimonianza dei suoi miracoli, la quale era stata guarita da lui benché lontano, e non permise che nessun altro tranne Martino le imponesse l’abito di vergine e la consacrasse. 3. Paolino, quell’uomo che avrebbe dato in seguito un così grande esempio, aveva cominciato a soffrire gravemente a un occhio e già uno spesso velo sovrapposto aveva interamente ricoperto la sua pupilla, quando Martino gli toccò l’occhio con un pennello, e soppresso ogni dolore, gli restituì la precedente salute. 4. Ed egli stesso, un giorno, poiché cadendo era ruzzolato dalla sua stanza in cima alle scale, piombando sui gradini ineguali, si procurò molte ferite: mentre giaceva esanime nella sua cella, tormentato da insopportabili sofferenze, di notte gli apparve un angelo che lavò le sue ferite e con salubre balsamo gli spalmò le lividure del corpo contuso. E così, il giorno dopo, fu restituito alla salute, tanto che non gli sembrava di aver mai patito alcun danno. 5. Ma sarebbe lungo diffondersi nei singoli episodi. Bastino questi pochi tra numerosissimi altri, e sia sufficiente che, narrando i fatti più eccellenti, non distorciamo la verità ed evitiamo il fastidio col narrarne troppi.

20,1. Ma inframmezziamo fatti minori a tanti così straordinari. Sebbene, come è tipico della nostra epoca, nella quale tutto è depravato e corrotto, è pressoché eccezionale che la fermezza d’un vescovo non si sia lasciata indurre all’adulazione d’un principe. Essendo convenuti da diverse parti del mondo numerosi vescovi presso l’imperatore Massimo, uomo d’indole feroce ed esaltato dalla vittoria nelle guerre civili, mentre intorno al principe si notava una vergognosa adulazione da parte di tutti e con degenere debolezza la dignità sacerdotale si era abbassata alla condizione di clientela del sovrano, – unicamente in Martino sussisteva ancora l’autorità degli Apostoli. 2. Infatti, anche se dovette rivolgere suppliche al sovrano in favore di alcune persone, egli esigeva piuttosto che pregare, e malgrado le insistenti richieste si astenne dalla sua mensa, dichiarando di non poter sedersi alla tavola di chi aveva tolto a un imperatore la sovranità, all’altro la vita. 3. Finalmente, Massimo affermò che non a suo arbitrio aveva assunto il potere imperiale, ma che aveva difeso con le armi un potere sovrano impostogli dai soldati per ordine divino, e la volontà di Dio non poteva essere ostile a un uomo tra le cui mani s’era compiuta una vittoria così incredibile, e nessuno degli avversari era caduto se non sul campo di battaglia; allora Martino, vinto dalle ragioni o dalle preghiere, venne al banchetto, mentre il sovrano si compiaceva mirabilmente d’aver ottenuto ciò. 4. Erano presenti come invitati, quasi convocati per un giorno di gala, sommi e illustri uomini, il prefetto e console Evodio – uomo di cui nessuno vi fu mai più giusto –, due conti investiti del più alto potere, il fratello del sovrano e suo zio. Il prete che accompagnava Martino era adagiato fra loro, ed egli poi s’era assiso in uno scranno disposto accanto al sovrano. 5. Verso la metà del banchetto, com’è uso, un servitore presentò una larga coppa al sovrano. Questi ordinò che fosse offerta piuttosto al santissimo vescovo, nell’aspettazione e ambizione di ricevere la coppa dalle sue mani. 6. Ma Martino, come bevve, consegnò la coppa al suo prete, di certo stimando che nessuno fosse più degno di bere per primo dopo di lui, e che non sarebbe stato giusto da parte sua, se avesse anteposto al suo prete il sovrano stesso o i personaggi più vicini al sovrano. 7. L’imperatore e tutti quelli che assistevano rimasero così ammirati da quel gesto, che di esso, da cui pure erano stati scherniti, si compiacquero. E per tutto il palazzo corse il detto, pieno d’ammirazione, che Martino aveva fatto in un pranzo del sovrano, ciò che nessuno dei vescovi aveva fatto nei banchetti dei più modesti funzionari. 8. Al medesimo Massimo, Martino predisse con grande anticipo che, se si fosse recato in Italia, dove desiderava andare per portar guerra all’imperatore Valentiniano, doveva sapere che sarebbe stato vincitore all’inizio dell’offensiva, ma dopo breve tempo sarebbe morto. 9. E ciò abbiamo visto avverarsi. Infatti, appena egli arrivò, Valentiniano fu scacciato in fuga; ma in seguito, trascorso quasi un anno e ricomposte le sue forze, catturò Massimo entro le mura di Aquileia e lo uccise.

21,1. È certo che a Martino apparvero sovente anche degli angeli, così da parlare e da intrecciare vicendevoli discorsi con lui. Quanto al diavolo, lo aveva così in vista e quasi sotto i suoi occhi, da riconoscerlo sotto qualsivoglia apparenza, sia che si contenesse nella sua propria natura, sia che si trasferisse nelle diverse figure del male. 2. E sapendo di non poter sfuggirgli, il diavolo lo assaliva frequentemente con ingiurie, poiché non poteva trarlo in inganno con insidie. Un giorno irruppe nella sua celletta con un gran ruggito, tenendo in mano un corno insanguinato di bue, e mostrando la sua mano insanguinata, e tutto rallegrato dal crimine che veniva dall’aver commesso, disse: «Dov’è, Martino, il tuo potere? Ho appena ucciso uno dei tuoi». 3. Egli allora, convocati i fratelli, riferisce ciò che il diavolo aveva dichiarato; raccomanda loro di visitare accuratamente le celle di tutti per accertare chi mai fosse incorso in tale sciagura. Gli riferiscono che non mancava nessuno dei monaci, ma che s’era recato nel bosco un contadino ingaggiato per trasportar legna con il suo carro. Ordina dunque ad alcuni di andargli incontro; 4. e, non lungi dal monastero, il contadino è ritrovato quasi privo di vita. Traendo tuttavia l’ultimo respiro, indica ai fratelli la causa della ferita mortale: essendo i suoi due buoi aggiogati, mentre cercava di stringere più saldamente le corregge allentate, un bue, con una scossa del capo fuori dal giogo gli aveva piantato un corno nell’inguine. E poco dopo rese l’anima. A voi ravvisare per qual giudizio di Dio fu dato al diavolo questo potere. 5. In Martino questo era mirabile, che non solo quanto più sopra abbiamo riferito, ma molti eventi di tal genere, ogniqualvolta accadevano, li prevedeva con grande anticipo, oppure comunicava ai fratelli che gli erano stati preannunziati.

22,1. Frequentemente il diavolo, nei suoi tentativi di farsi beffe del santo con mille nocivi artifizi, si presentava alla sua vista nelle più diverse forme. Infatti a volte si mostrava sotto le apparenze di Giove, e per lo più di Mercurio, spesso anche trasfigurato nell’aspetto di Venere e di Minerva; contro di lui Martino sempre valoroso si proteggeva con il segno della croce e con l’ausilio della preghiera. 2. Si udivano in generale le invettive con le quali una turba di demoni lo assaliva con urla sfrontate; ma sapendole tutte menzognere e vane, non si lasciava turbare da quei rimproveri. 3. Attestavano anche taluni fratelli di avere udito il demonio con sfrontate grida assalire Martino perché aveva accolto nel monastero alcuni fratelli poi riconvertiti, i quali in precedenza avevano perduto per diversi errori la grazia del battesimo; e il diavolo esponeva le loro colpe rispettive. 4. Contestando il diavolo, Martino aveva ribattuto fermamente che le antiche colpe erano emendate da una migliore condotta di vita, e per misericordia del Signore si dovevano assolvere dai peccati coloro che avessero desistito dal peccare. Quando il diavolo gli replicò che per nulla si conveniva il perdono ai colpevoli, e che ai caduti una volta nel peccato non poteva accordarsi alcuna clemenza dal Signore, si dice che Martino abbia inveito con parole di tal fattura: 5. «Se tu stesso, miserabile, smettessi di perseguitare gli uomini e ti pentissi dei tuoi misfatti, almeno in quest’epoca in cui è prossimo il giorno del giudizio, io per mia parte ti prometterei misericordia con sincera amicizia nel Signore Gesù Cristo». Oh, quale santa presunzione intorno alla bontà del Signore, sulla quale sebbene non poté offrire garanzia, eppure mostrò il suo sentimento! 6. E poiché abbiamo cominciato a parlare del diavolo e dei suoi artifizi, non mi sembra fuor di proposito, anche se esula dal soggetto, riferire quel che accadde, poiché in ciò si manifesta una parte delle virtù di Martino, e questa meravigliosa storia sarà giustamente tramandata come esempio di vigilanza, se in futuro accadrà che qualcosa di simile si produca n qualche luogo.

23, 1. Un certo Claro, giovane e nobilissimo uomo, poi divenuto prete, e ora condotto alla beatitudine da una santa morte, abbandonò tutto per raggiungere Martino; e in breve tempo splendette al sommo culmine della fede e di tutte le virtù. 2. E così, avendo stabilito la sua cella non lontano dal romitaggio del vescovo e dimorando presso di lui molti fratelli, un giovane, tal Anatolio, venne da Claro, simulando sotto la professione monastica ogni umiltà e innocenza, e abitò per qualche tempo in comune con tutti gli altri. 3. Poi, col passare del tempo, asseriva che degli angeli erano soliti intrattenersi a colloquio con lui. Poiché nessuno gli prestava fede, con dei prodigi costringeva buon numero dei fratelli a credergli. Infine si spinse fino al punto di dichiarare che c’era uno scambio di messaggeri fra lui e Dio, e pretendeva d’essere creduto ormai come uno dei profeti. 4. Claro tuttavia non poteva in alcun modo lasciarsi convincere a credere. E quello a minacciava l’ira di Dio e imminenti castighi, per la sua incredulità verso un santo. 5. Infine si dice che sbottò con tali parole: «Ecco, questa notte il Signore mi donerà dall’alto del cielo un candido abito, vestito del quale io dimorerò in mezzo a voi; e ciò sarà il segno che io sono una potenza di Dio, poiché ho ricevuto in dono una veste di Dio». 6. Allora grande fu l’attesa di tutti a questa dichiarazione. E verso la mezzanotte tutto il monastero sembrò scosso dal rombo d’un trepestio sul terreno; la cella dov’era rinchiuso il giovane, la si poteva veder balenare di lampi frequenti e s’udiva uno scalpiccio di gente che andava e veniva, e un brusio di molte voci. 7. Poi, tornato il silenzio, Anatolio, uscito dalla sua cella, chiama a sé un fratello di nome Sabazio, e gli mostra la tunica di cui era vestito. 8. Stupefatto, questi chiama tutti gli altri; accorre anche Claro, e avvicinato un lume considerano attentamente la veste. Era di estrema morbidezza, d’un eccezionale candore, di sfolgorante splendore, e tuttavia non si riusciva a capire di quale specie e vello fosse il tessuto; tuttavia a esaminarlo con curiosità, al tatto o alla vista non sembrava che una veste comune. Frattanto Claro invita i fratelli a concentrarsi in preghiera, affinché il Signore rivelasse loro più chiaramente di cosa potesse trattarsi. 9. E così trascorrono il resto della notte in inni e salmi. Appena risplendette il giorno, Claro prese Anatolio per la mano e voleva trascinarlo davanti a Martino, ben consapevole che egli non poteva esser tratto in inganno da un artifizio diabolico. 10. Allora lo sciagurato si mise a resistere con tutte le sue forze e a gridare, e diceva che gli era stato interdetto di presentarsi a Martino. E mentre lo costringevano ad andare per forza, la veste svanì fra le mani di quelli che lo trascinavano. 11. Così, chi potrebbe dubitare che anche questo fu un miracolo di Martino, a tal punto, che il diavolo non poté più a lungo dissimulare o celare le sue varietà, quando stavano per essere sottoposte agli occhi di Martino?

24,1. Si osservò d’altra parte che press’a poco nella medesima epoca v’era in Spagna un giovane uomo il quale s’era acquistato autorità con molti prodigi, ed era giunto a tal grado di esaltazione da spacciarsi apertamente per Elia. 2. E avendo un grande numero di persone avventatamente creduto ciò, giunse al punto di proclamare ch’egli era Cristo; ed anche in ciò riuscì a ordire il suo inganno, così che anche un vescovo di nome Rufo lo adorò come Dio: per la qual cosa lo vedemmo poi rimosso dall’episcopato. 3. Molti fratelli ci riferirono ugualmente che nella medesima epoca apparve in Oriente un individuo il quale si vantava d’essere Giovanni. Dal che possiamo inferire, per l’apparizione di falsi profeti di tal risma, che è imminente l’arrivo dell’Anticristo, il quale opera già in codesti miserabili il mistero d’iniquità. 4. E non è da trascurare con quanti grandi artifici nel medesimo periodo il diavolo tentò Martino. Un giorno, infatti, preceduto ed egli stesso circonfuso da una luce splendente, per trarlo più facilmente in inganno con la luminosità dell’assunto fulgore, e vestito anche d’un abito regale, cinto da un diadema di gemme e d’oro, con coturni dorati, sereno l’aspetto, lieto in volto (così che tutto poteva esser giudicato fuorché il diavolo), apparve a Martino in preghiera nella sua cella. 5. E poiché Martino al suo primo apparire rimase stupefatto, a lungo mantennero ambedue un profondo silenzio. Allora il diavolo per primo: «Sappi, o Martino, chi scorgi: io sono il Cristo; apprestandomi a discendere in terra, prima ho voluto manifestarmi a te». 6. A tali parole, poiché Martino continuava a tacere e non dava alcuna risposta, il diavolo osò ripetere la sua sfrontata dichiarazione: «Martino, perché dubiti? Credi, poiché vedi! Io sono il Cristo». 7. Allora Martino, alla rivelazione dello Spirito, concessagli affinché comprendesse che si trattava del diavolo e non del Signore, disse: «Non profetizzò il Signore Gesù che sarebbe venuto vestito di porpora né con un diadema splendente; io non crederò che è venuto Cristo, se non in quell’abito e aspetto in cui soffrì la Passione, e se non porta chiaramente i segni della croce». 8. A queste parole costui svanì come fumo. Riempì la cella d’un tal fetore, da lasciare evidente indizio che era proprio il diavolo. Questi fatti, che ho sopra riferito, li ho appresi dalla bocca dello stesso Martino, perché qualcuno non abbia a crederli favolosi.

25,1. Infatti, un tempo, per avere udito parlare della sua fede, della sua vita e virtù, bruciando dal desiderio di conoscerlo, intraprendemmo un lungo viaggio a noi caro, per vederlo; nello stesso tempo, poiché l’animo bramava ardentemente di scrivere la sua vita, in parte abbiamo interrogato lui stesso, nella misura in cui è stato possibile porgli delle domande, in parte abbiamo appreso le sue gesta da coloro che n’erano stati testimoni o le conoscevano. 2. Non si può credere con quale umiltà, con quale benignità egli mi accolse allora, rallegrandosi grandemente e colmandosi di gioia nel Signore, poiché era stato da noi tenuto in così gran conto da indurci a intraprendere un lungo viaggio per incontrarlo. 3. Miserevole come io sono – oso appena confessarlo –, quand’egli si degnò di farmi partecipe del suo santo pasto, lui stesso asperse d’acqua le nostre mani. La sera fu lui a lavare i nostri piedi, e non avemmo il coraggio di opporci o di contrastare la sua volontà: la sua autorità così mi sovrastava, che ritenevo un sacrilegio se non avessi acconsentito. 4. Il suo discorso con noi trattò solo sul dover tralasciare le attrazioni e i fardelli del mondo, per seguire il Signore Gesù in piena libertà e distacco; ci proponeva come il più eminente esempio della nostra epoca quello di Paolino, l’illustre personaggio di cui abbiamo fatto più sopra menzione, il quale aveva abbandonato i suoi immensi beni per seguire Cristo, e aveva così, pressoché unico in questi tempi, compiutamente messo in atto i precetti evangelici. 5. Lui dovevamo servire, quello proclamava modello da imitare; ed era beato il tempo presente d’una così grande lezione di fede e di virtù, poiché, secondo la parola del Signore, quel ricco che possedeva molti beni, con il vendere tutto e con il donare ai poveri, aveva reso possibile con il suo esempio ciò ch’era impossibile a farsi. 6. E poi, nelle sue parole e nella sua conversazione, quanta gravità, quanta dignità! Di quale ardore e forza intellettuale, di quale prontezza e facilità dava prova nel risolvere le difficoltà delle Scritture! 7. E poiché so che molti sono increduli al riguardo – infatti li ho visti non prestar fede mentre ero io stesso a farne loro ragguaglio –, chiamo a testimoni Gesù e la nostra comune speranza, che non ho mai udite sulle labbra di alcuno tanta scienza, tanto ingegno, tanta bontà e purezza di discorso. 8. Sebbene nel trattare delle virtù di Martino quant’è minuscolo tale elogio! In ogni caso, è straordinario che a un uomo illetterato non sia mancata neanche questa grazia.

26,1. Ma già il mio libro richiede la fine, il discorso deve essere concluso, non già perché sia esaurito quanto bisognava dire su Martino, ma perché noi, come quei maldestri poeti incapaci di concludere decentemente la loro opera, soccombiamo, vinti dalla mole del nostro soggetto. 2. Infatti, anche se è vero che le sue gesta ebbero la forza in qualche modo essere espresse con parole, la sua vita interiore e la ascetica condotta quotidiana, e l’anima sempre tesa al cielo, nessuna mai disquisizione – lo confesso in tutta verità – non riuscirà a esprimerli. Quella perseveranza, intendo dire, quella giusta misura nell’astinenza e nei digiuni, quella capacità di vegliare e di pregare, quelle notti trascorse nello stesso modo dei giorni, nessun minuto in cui non fosse intento al lavoro di Dio, in cui indulgesse al riposo o all’attività, così come al cibo o al sonno, se non per quel tanto che richiedono le esigenze della natura. 3. Io attesterò ancora che neanche se lo stesso Omero emergesse, come dicono, dal fondo degli inferi, potrebbe esporre tutto ciò, tant’è vero che ogni merito in Martino è troppo grande, perché possa venir formulato con parole. Mai in nessuna ora passò un attimo in cui non s’impegnasse nella preghiera o non s’applicasse alla lettura delle Sacre Scritture, quantunque anche nel leggere, o in quale altra cosa mai facesse, non allentava mai l’anima dalla preghiera. 4. Nulla di straordinario in ciò: com’è costume dei fabbri ferrai, che nell’intervallo del loro lavoro, per un certo sollievo dalla fatica percuotono la loro incudine, così Martino, anche mentre sembrava fare qualcos’altro, senza posa pregava. 5. Oh, uomo veramente santo, in cui non vi fu nessun inganno: nessuno giudicando, nessuno condannando, a nessuno rendendo male per male. Poiché tanta pazienza assunse come difesa da tutte le ingiurie, da poter venire impunemente oltraggiato, anche dagli ultimi chierici, lui che era il sommo sacerdote, non per questo li destituì dalla loro funzione, o li respinse, per quanto dipese da lui, dal suo affetto.

27,1. Nessuno l’ha mai visto in collera, nessuno turbato, nessuno afflitto, nessuno in atto di ridere; fu sempre uguale a se stesso: il volto raggiante d’una letizia per così dire celeste, sembrava estraneo alla natura umana. Giammai null’altro era sulle sue labbra se non il Cristo; 2. giammai null’altro nel suo cuore se non l’amore, se non la pace, se non la misericordia. Spesso era solito piangere anche i peccati di coloro che si mostravano suoi detrattori, e che mentre dimorava quietamente nel suo eremo lo laceravano con lingue avvelenate e denti di vipere. 3. E davvero abbiamo personalmente conosciuto alcuni, invidiosi della sua virtù e della sua vita, i quali odiavano in lui ciò che non vedevano in sé e che non erano in grado di imitare. E anche, doloroso e lamentevole sacrilegio, si riferiva che i suoi persecutori, benché estremamente pochi, non furono quasi altri che vescovi. 4. E invero non è necessario attribuire a essi un nome, benché la più parte di loro sbraitino intorno a noi. Basterà che, se alcuno di costoro legga o riconosca vere queste righe, ne arrossisca. Infatti se si adira, confesserà così che è di lui che si parla, mentre forse noi abbiamo pensato ad altri. 5. Ma noi non escludiamo la possibilità che, se costoro sono di tal specie, assimileranno anche noi nel loro odio per quell’uomo straordinario. 6. In ciò facilmente confido, che questa piccola opera riuscirà gradita a tutte le persone sante. Del resto, se qualcuno leggerà queste pagine con incredulità, cadrà egli stesso in peccato. 7. Io, per quanto mi riguarda, sono ben consapevole, spinto come sono stato a scrivere dall’autenticità dei fatti e dall’amore di Cristo, d’avere esposto l’evidente e d’aver detto la verità, e che una ricompensa da Dio sarà predisposta, come spero, non per tutti coloro che avranno letto, ma per tutti coloro che avranno creduto.