mercoledì 23 novembre 2011

San Colombano abate


Oggi 23 celebriamo la memoria liturgica di san Colombano (563-615), monaco.


Gli storici sono d’accordo nel datare la sua nascita attorno al 528. A 15 anni entra nel monastero di Cluan, nell’Ulster; poi passa nel celebre monastero di Bangor, sotto la direzione di un santo, l’abate Comgall. Colombano diventa capo di un gruppo di dodici monaci che passano il mare per giungere sul continente. Colombano e i suoi confratelli depongono il sacco da viaggio in Bretagna. Dopo avere fondato tanti monasteri, muore nel 615.

* * *
BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 11 giugno 2008
San Colombano
Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei parlare del santo abate Colombano, l’irlandese più noto del primo Medioevo: con buona ragione egli può essere chiamato un santo “europeo”, perché come monaco, missionario e scrittore ha lavorato in vari Paesi dell’Europa occidentale. Insieme agli irlandesi del suo tempo, egli era consapevole dell’unità culturale dell’Europa. In una sua lettera, scritta intorno all’anno 600 ed indirizzata a Papa Gregorio Magno, si trova per la prima volta l’espressione “totius Europae – di tutta l’Europa”, con riferimento alla presenza della Chiesa nel Continente (cfr Epistula I,1).
Colombano era nato intorno all’anno 543 nella provincia di Leinster, nel sud-est dell’Irlanda. Educato nella propria casa da ottimi maestri che lo avviarono allo studio delle arti liberali, si affidò poi alla guida dell’abate Sinell della comunità di Cluain-Inis, nell’Irlanda settentrionale, ove poté approfondire lo studio delle Sacre Scritture. All’età di circa vent’anni entrò nel monastero di Bangor nel nord-est dell’isola, ove era abate Comgall, un monaco ben noto per la sua virtù e il suo rigore ascetico. In piena sintonia col suo abate, Colombano praticò con zelo la severa disciplina del monastero, conducendo una vita di preghiera, di ascesi e di studio. Lì fu anche ordinato sacerdote. La vita a Bangor e l’esempio dell’abate influirono sulla concezione del monachesimo che Colombano maturò col tempo e diffuse poi nel corso della sua vita.
All’età di circa cinquant’anni, seguendo l’ideale ascetico tipicamente irlandese della “peregrinatio pro Christo”, del farsi cioè pellegrino per Cristo, Colombano lasciò l’isola per intraprendere con dodici compagni un’opera missionaria sul continente europeo. Dobbiamo infatti tener presente che la migrazione di popoli dal nord e dall’est aveva fatto ricadere nel paganesimo intere Regioni già cristianizzate. Intorno all’anno 590 questo piccolo drappello di missionari approdò sulla costa bretone. Accolti con benevolenza dal re dei Franchi d’Austrasia (l’attuale Francia), chiesero solo un pezzo di terra incolta. Ottennero l’antica fortezza romana di Annegray, tutta diroccata ed abbandonata, ormai coperta dalla foresta. Abituati ad una vita di estrema rinuncia, i monaci riuscirono entro pochi mesi a costruire sulle rovine il primo eremo. Così, la loro rievangelizzazione iniziò a svolgersi innanzitutto mediante la testimonianza della vita. Con la nuova coltivazione della terra cominciarono anche una nuova coltivazione delle anime. La fama di quei religiosi stranieri che, vivendo di preghiera e in grande austerità, costruivano case e dissodavano la terra, si diffuse celermente attraendo pellegrini e penitenti. Soprattutto molti giovani chiedevano di essere accolti nella comunità monastica per vivere, come loro, questa vita esemplare che rinnovava la coltura della terra e delle anime. Ben presto si rese necessaria la fondazione di un secondo monastero. Fu edificato a pochi chilometri di distanza, sulle rovine di un’antica città termale, Luxeuil. Il monastero sarebbe poi diventato il centro dell’irradiazione monastica e missionaria di tradizione irlandese sul continente europeo. Un terzo monastero fu eretto a Fontaine, un’ora di cammino più a nord.
A Luxeuil Colombano visse per quasi vent’anni. Qui il santo scrisse per i suoi seguaci la Regula monachorum - per un certo tempo più diffusa in Europa di quella di san Benedetto – disegnando l’immagine ideale del monaco. È l’unica antica regola monastica irlandese che oggi possediamo. Come integrazione egli elaborò la Regula coenobialis, una sorta di codice penale per le infrazioni dei monaci, con punizioni piuttosto sorprendenti per la sensibilità moderna, spiegabili soltanto con la mentalità del tempo e dell’ambiente. Con un'altra opera famosa intitolata De poenitentiarum misura taxanda, scritta pure a Luxeuil, Colombano introdusse nel continente la confessione e la penitenza private e reiterate; fu detta penitenza “tariffata” per la proporzione stabilita tra gravità del peccato e tipo di penitenza imposta dal confessore. Queste novità destarono il sospetto dei Vescovi della regione, un sospetto che si tramutò in ostilità quando Colombano ebbe il coraggio di rimproverarli apertamente per i costumi di alcuni di loro. Occasione per il manifestarsi del contrasto fu la disputa circa la data della Pasqua: l’Irlanda seguiva infatti la tradizione orientale in contrasto con la tradizione romana. Il monaco irlandese fu convocato nel 603 a Châlon-sur-Saôn per rendere conto davanti a un sinodo delle sue consuetudini relative alla penitenza e alla Pasqua. Invece di presentarsi al sinodo, egli mandò una lettera in cui minimizzava la questione invitando i Padri sinodali a discutere non solo del problema della data della Pasqua, problema piccolo secondo lui, “ma anche di tutte le necessarie normative canoniche che da molti – cosa più grave – sono disattese” (cfr Epistula II,1). Contemporaneamente scrisse a Papa Bonifacio IV – come qualche anno prima già si era rivolto a Papa Gregorio Magno (cfr Epistula I) – per difendere la tradizione irlandese (cfr Epistula III).
Intransigente come era in ogni questione morale, Colombano entrò poi in conflitto anche con la Casa reale, perché aveva rimproverato aspramente il re Teodorico per le sue relazioni adulterine. Ne nacque una rete di intrighi e manovre a livello personale, religioso e politico che, nell’anno 610, si tradusse in un decreto di espulsione da Luxeuil di Colombano e di tutti i monaci di origine irlandese, che furono condannati ad un definitivo esilio. Furono scortati fino al mare ed imbarcati a spese della corte verso l’Irlanda. Ma la nave si incagliò a poca distanza dalla spiaggia e il capitano, vedendo in ciò un segno del cielo, rinunciò all’impresa e, per paura di essere maledetto da Dio, riportò i monaci sulla terra ferma. Essi, invece di tornare a Luxeuil, decisero di cominciare una nuova opera di evangelizzazione. Si imbarcarono sul Reno e risalirono il fiume. Dopo una prima tappa a Tuggen presso il lago di Zurigo, andarono nella regione di Bregenz presso il lago di Costanza per evangelizzare gli Alemanni.
Poco dopo però Colombano, a causa di vicende politiche poco favorevoli alla sua opera, decise di attraversare le Alpi con la maggior parte dei suoi discepoli. Rimase solo un monaco di nome Gallus; dal suo eremo si sarebbe poi sviluppata la famosa abbazia di Sankt Gallen, in Svizzera. Giunto in Italia, Colombano trovò un’accoglienza benevola presso la corte reale longobarda, ma dovette affrontare subito difficoltà notevoli: la vita della Chiesa era lacerata dall’eresia ariana ancora prevalente tra i longobardi e da uno scisma che aveva staccato la maggior parte delle Chiese dell’Italia settentrionale dalla comunione col Vescovo di Roma. Colombano si inserì con autorevolezza in questo contesto, scrivendo un libello contro l’arianesimo e una lettera a Bonifacio IV per convincerlo a fare alcuni passi decisi in vista di un ristabilimento dell’unità (cfr Epistula V). Quando il re dei longobardi, nel 612 o 613, gli assegnò un terreno a Bobbio, nella valle della Trebbia, Colombano fondò un nuovo monastero che sarebbe poi diventato un centro di cultura paragonabile a quello famoso di Montecassino. Qui giunse al termine dei suoi giorni: morì il 23 novembre 615 e in tale data è commemorato nel rito romano fino ad oggi.
Il messaggio di san Colombano si concentra in un fermo richiamo alla conversione e al distacco dai beni terreni in vista dell’eredità eterna. Con la sua vita ascetica e il suo comportamento senza compromessi di fronte alla corruzione dei potenti, egli evoca la figura severa di san Giovanni Battista. La sua austerità, tuttavia, non è mai fine a se stessa, ma è solo il mezzo per aprirsi liberamente all’amore di Dio e corrispondere con tutto l’essere ai doni da Lui ricevuti, ricostruendo così in sé l’immagine di Dio e al tempo stesso dissodando la terra e rinnovando la società umana. Cito dalle sue Instructiones: “Se l’uomo userà rettamente di quelle facoltà che Dio ha concesso alla sua anima allora sarà simile a Dio. Ricordiamoci che gli dobbiamo restituire tutti quei doni che egli ha depositato in noi quando eravamo nella condizione originaria. Ce ne ha insegnato il modo con i suoi comandamenti. Il primo di essi è quello di amare il Signore con tutto il cuore, perché egli per primo ci ha amato, fin dall’inizio dei tempi, prima ancora che noi venissimo alla luce di questo mondo” (cfr Instr. XI). Queste parole, il Santo irlandese le incarnò realmente nella propria vita. Uomo di grande cultura –scrisse anche poesie in latino e un libro di grammatica – si rivelò ricco di doni di grazia. Fu un instancabile costruttore di monasteri come anche intransigente predicatore penitenziale, spendendo ogni sua energia per alimentare le radici cristiane dell’Europa che stava nascendo. Con la sua energia spirituale, con la sua fede, con il suo amore per Dio e per il prossimo divenne realmente uno dei Padri dell’Europa: egli mostra anche oggi a noi dove stanno le radici dalle quali può rinascere questa nostra Europa.
Tracce di Lettura
Fratelli carissimi, ascoltate attentamente. Vi parlerò della inesauribile sorgente divina. Però, per quanto sembri paradossale, vi dirò: Non estinguete mai la vostra sete. Così potrete continuare a bere alla sorgente della vita, senza smettere mai di desiderarla. È la stessa sorgente, la fontana dell’acqua viva che vi chiama a sé e vi dice: «Chi ha sete venga a me e beva» (Gv 7,37). Bisogna capire bene quello che si deve bere. Ve lo dice lo stesso profeta Geremia, ve lo dice la sorgente stessa: «Hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, dice il Signore» (Ger 2,13). È dunque il Signore, il nostro Dio Gesù Cristo, questa sorgente di vita che ci invita a sé, perché di lui beviamo. Beve di lui chi lo ama. Beve di lui chi si disseta della Parola di Dio… Beviamo dunque alla sorgente che altri hanno abbandonata».

Affinché mangiamo di questo pane, e beviamo a questa sorgente… egli dice essere il «pane vivo che dà la vita al mondo (Gv 6,51.33) e che dobbiamo mangiare… Osservate bene da dove scaturisce questa fonte; poiché quello stesso che è il pane è anche la fonte, cioè il Figlio unico, il nostro Dio Cristo Signore, di cui dobbiamo aver sempre fame.

È vero che amandolo lo mangiamo e desiderandolo lo introduciamo in noi; tuttavia dobbiamo sempre desiderarlo come degli affamati. Con tutta la forza del nostro amore beviamo di lui che è la nostra sorgente; attingiamo da lui con tutta l’intensità del nostro cuore e gustiamo la dolcezza del suo amore. Il Signore infatti è dolce e soave: sebbene lo mangiamo e lo beviamo, dobbiamo tuttavia averne sempre fame e sete, perché è nostro cibo e nostra bevanda. Nessuno potrà mai mangiarlo e berlo interamente, perché mangiandolo e bevendolo non si esaurisce, né si consuma. Questo nostro pane è eterno, questa nostra sorgente è perenne.


Istruzione spirituale, 13, 2, 3
* * *

"Nulla piace tanto agli uomini quanto parlare delle cose altrui, darsi pensiero degli affari degli altri e passare il tempo in inutili conversazioni, mormorando degli assenti. Tacciano quelli che non possono dire: "Il Signore mi ha dato una lingua da iniziati, perchè io sappia indirizzare allo sfiduciato una parola di sollievo" (Is.50,4). Se proprio dobbiamo parlare, che sia una parola di pace". Dalle "Istruzioni", 11,1-2.

San colombano, Abate
Per approfondire:
IL LINGUAGGIO DELLA PREGHIERA IN SAN COLOMBANO
di Sr. M. TERESA BUSSINI OSB ap
La preghiera è sempre uno sguar­do insieme verticale e orizzontale, mai l'uno o l'altro soltanto. Si cerca il volto di Dio, e si è rimandati alla creazione e alla storia: qui ci sono le sue tracce, i segni del suo amore e della sua misericordia. Ci si interro­ga sulla vita e puntualmente si è ri­mandati a Dio e al suo mistero. In­terrogandosi sulla vita si giunge a Dio, e contemplando Dio si è riman­dati a una nuova visione della vita. La preghiera nasce dalla vita e dopo essersi rivolta a Dio ritorna alla vita, ma con occhi nuovi e aprendo nuove possibilità. E’ l’esperienza di Colombano, il monaco venuto da oltre il mare, vestito di bianco e tonsurato all’irlandese, con la borsa legata alla cintola, che contiene l’unico suo tesoro: il vangelo.
La preghiera non è un rapporto verbale con Dio ma un rapporto esistenziale, di cui il rapporto verbale è semplicemente l'espressio­ne esplicita e parziale. Prima degli atti di preghiera c'è nella Bibbia un costante atteggiamento di "davanti a Dio", che possiamo pensare come una preghiera vitale, implicita, che dà senso e verità alla preghiera di pa­role. Una delle storture più gravi che la Bibbia rimprovera è la separazio­ne tra preghiera e morale, culto e vi­ta (Is 1; Am 5; Ger 7).
Dio è dovun­que e lo spazio della preghiera è la vi­ta. Il NT ne ha ancora allargato, se possibile, lo spazio, parlando di pre­ghiera "nello Spirito e nella verità": il luogo della preghiera è lo Spirito, non Gerusalemme o il Garizim (Gv 4,21).
Tutta la vita del santo monaco irlandese è stata questo: vita che è preghiera, preghiera che si fa vita, sempre…con i suoi monaci e con chi evangelizza, con i potenti con i quali si scontra, con la gerarchia ecclesiale non sempre benevola con lui.
La preghiera nasce dalla coscienza del dono e dalla consapevolezza del limite, ma sempre in una visione aperta, nel desiderio di andare oltre. Se è vero che lo sguardo parte dall'e­sperienza quotidiana, dalla storia in cui si vive, dalle sue gioie e dai suoi drammi, è altrettanto vero che poi lo sguardo va verso colui che è oltre la storia. Al di là dei beni di Dio la preghiera cerca Dio. La vena segreta di ogni preghiera è il desiderio di Dio. La preghiera esprime così la solitudine dell'uomo che si sente esiliato, insoddisfatto, pellegrino verso l'assoluto e straniero qui, mai perfettamente integrato e capito, mai perfettamente espresso. Le cose del mondo, gli stessi doni di Dio, sono immagine di Dio, non Dio. La preghiera è il segno che l'uomo è fatto per Dio, esprime il desiderio di incontrarlo. Questo ha vissuto senza riserve Colombano e questa era la sua realtà più profonda da non fargli temere di usare la cultura “mondana” per parlare di Dio.

L'immagine abitualmente delineata e trasmes­sa di san Colombano è quella di un monaco «duro, auste­ro, legnoso, intransigente»: del resto, lo stesso Jonas concludeva la vita del fondatore di Luxeuil e di Bobbio sottolineando il suo «vigore» - la sua «stre­nuitas» -, che, almeno in parte secondo l'in­clinazione della sua indole, «poteva giungere - asserisce Jean Leclercq - fino alla violenza ed accompagnarsi a rudezza», «saremmo quasi tentati di dire: [...] barbaro coi barbari». (L’universo religioso,p. 109)
«Colombano è insostituibile nel mondo monastico dell’Alto Medioevo: rude nell’ascesi, senza sconti nei riguardi sia di se stesso sia dei suoi monaci, rigoroso e inflessibile sia di fronte ai grandi di questo mondo che agli esponenti della gerarchia ecclesiale quando si trattava di difendere le proprie idee; spesso nella sua collera trascende, non è certo portato al fascino, rude anche nella sua bontà, ma proprio tutte queste sfaccettature fanno di lui un personaggio affascinante; (F. Brunholzl, Histoire de la littèrature latine du moyen age,p. 185) secondo Leclercq: una «per­sonalità piena di contrasti». Se le Regulae e il Paenitentiale rimandano un'immagine di rudezza e di inflessibilità, il testo della lettera sesta è una delle più belle e commosse pagine di tutta la letteratura latina del Medio Evo; si rivolge al Papa con la dolcezza che sarà propria, in secoli lontani, solo di Caterina da Siena e alcuni passi delle Istruzioni e dei Carmi sono attraversati da una profonda sete di Dio e di eternità.
Dio è ovunque e il primo linguaggio con cui Colombano prega è vivere questa presenza fino a spezzare i legami più forti con il luogo della sua nascita e della sua giovinezza. Colombano sentì la vocazione a ‘pellegrinare’ nello spirito di Abramo e così si presenta: “un pellegrino in queste terre” “un uccello raro”, un “colombo”. La "peregrinazione" significava mortificazione, esilio, povertà, distacco a imitazione di Abramo, che lascia la sua terra e la sua casa.
La tradizione della peregrinatio fu sempre esplicitamente fondata su alcuni brani chiave delle Scrit­ture; ma per un irlandese essa derivava molto della sua forza dal fatto di esse­re una forma di rinuncia ascetica alle particolari strutture sociali e politiche della società irlandese, nella quale la posizione e la protezione legale dell'individuo erano legate intimamente all'appartenenza al gruppo familiare e alla comunità politica locale. Scegliere la peregrinatio significava rinunciare volontaria­mente alla propria posizione legale e sociale. La rinuncia al mondo secolare era lo scopo centrale di ogni peregrinatio ascetica ed essa traeva molta della sua forza dai tratti particolari della società irlandese secolare, nella quale l'onore e la posizione sociale erano del tutto avvinti all'appartenza ad una famiglia ‘estesa’ e alla comunità politica locale.
Segno di questo stato di peregrinazione è la parsimonia nell’uso dei beni terreni, o come esorta Colombano:
Mangiamo col povero, beviamo col povero, condividiamo la sorte del povero, per meritare almeno così di entrare insieme col povero in quel luogo, dove verranno saziati coloro che qui per Cristo hanno fame e sete di giustizia (Mt 5, 6). (Instruct. VII,2)
Colombano, scegliendo di essere un “peregrinus”, non ha fatto altro che evidenziare nella sua vita la condizione "ontologica" dell'essere e dell'esistenza umana e creata: «Siamo viandanti e pellegrini»
O vita umana fragile e mortale,
quante creature hai in­gannato,
quanti hai sedotto, quanti hai accecato. Tu che, mentre fuggi via, nulla sei;
mentre sembri aver consistenza sei un'ombra;
e mentre sei esaltata altro non sei che fumo;
tu che ogni giorno fuggi e ogni giorno ritorni;
tu che fuggi via mentre ritorni e ritorni scivolando via (...).
Tu, o vita mortale, null'altro sei se non una via,
una nube o una parvenza fugace e inconsistente,
incerta e lieve ombra,
simile a un sogno;
La vedi e non la vedi;
è e non è;
cogli solo l'attimo presente, per quanto dura;
afferra ciò che è,
e vedi che è nulla…(Instruct.,V,1-2)
Non ci richiamano forse queste frasi quelle di filosofi esistenzialisti dei nostri giorni?
E Colombano continua:
Non amiamo la via più della patria,
per non perdere la patria eterna (...).
Con­serviamo salda in noi questa convinzione,
così da vivere nella via come viandanti, come pellegrini,
quali ospiti del mondo,
senza legarci ad alcuna passione,
senza de­siderio alcuno dei beni terreni,
ma in modo tale da colmare le nostre anime
della bellezza delle realtà celesti e spirituali,
cantando con la virtù e con la vita:
Quando verrò e apparirò davanti al volto del mio Dio?
Infatti l'anima mia ha sete del Dio forte, vivo (Sa1 41, 3..) (Instruct.,VIII,2)
Il tema ricorre e rende toccanti e appassionati i sermoni di san Colomba­no, rivelatori di un cuore capace delle emozioni più profonde, così come il grido che nasce dal desiderio di Dio è il filo conduttore delle righe in cui Colombano depone la rudezza apparente del cuore e lascia libero sfogo a ciò che è il suo sentire più vero:
E’ il Signore, il nostro Dio Gesù Cristo, la sorgente della vita,
per questo ci invi­ta a sé, che è la fonte,
perché di lui beviamo.
Beve di lui chi lo ama.
Beve di lui chi si disseta della parola di Dio;
chi piena­mente lo ama, e pienamente lo desidera.
Beve di lui chi è acceso di amore per la sa­pienza (...).
Apriamo, mangiando di quel pane che è disceso dal cielo,
la bocca del nostro uomo interiore (...).
Pane e Fonte sono il medesimo e unico Figlio,
il nostro Dio,Cristo Signore,
di cui dobbiamo sempre aver fame (...).
Tu sei tutto per noi (...).

Ti prego, o Gesù, di ispirare i nostri cuori col soffio del tuo Spirito

e di trafiggere col tuo amore le nostre anime,
perché ciascuno di noi pos­sa dire con tutta verità dal profondo
del suo cuore:
Fammi conoscere l'amore dell'anima mia (Ct 1, 7).
Desidero che quelle ferite siano impresse in me, o Signore.
Beata l'anima che è così trafitta dalla carità,
che cerca la fonte, che beve,
e che, bevendo, ha sempre sete, e desiderando sempre attinge,
e assetata sempre beve;
così, l'anima, amando, sem­pre cerca,
e nel suo essere piagata, viene risanata.
Il Dio e Signore nostro Gesù Cristo, medico pietoso,
si degni di piagare con que­sta ferita l'intimo dell'anima nostra". (Instruct. XIII,1-3)
Sono accenti che quasi uno non si aspettava, che richiamano la tenerezza ver­so Gesù di sant'Ambrogio, e quelli che si ritroveranno negli scritti monastici me­dievali - e il pensiero va a san Bernardo e non a lui solo - e negli scritti della pietà "devota".
E già che abbiamo ricordato san Bernardo, possiamo osservare anche che la stes­sa concezione del "sapere" della fede li accomuna, e in realtà non loro soltanto, ma quelli che rappresentano la tradizione della "teologia monastica" o, meglio, forse, la teologia detta "negativa", che del resto è quella dei veri grandi teologi, tra i quali Tommaso d'Aquino.
La troviamo particolarmente nel primo sermone di Colombano, quello sulla fede:
Dio Uno e Trino è, per così dire, un mare,
che non si può attraversare né scruta­re (...).
Cerca la suprema scienza non attraverso dispute di parole,
ma attraverso la per­fezione dei buoni costumi;
non con la lingua ma con la fede;
essa nasce dalla sem­plicità del cuore;
non vi si giunge attraverso i ragionamenti di una dottrina
che non si radica nella pietà.
Se cercherai con le argomentazioni della ragione l'Ineffabile,
egli si farà da te più lontano (Qo 7, 23); se cercherai con la fede,
la Sapienza starà alle porte (Prv 1, 21)(...).
Chi è Dio e quanto è grande, egli solo lo sa.
Tuttavia, poiché è il nostro Dio,
benché a noi invisibile,
a lui dobbiamo bussare, e bussare spesso;
sempre dobbiamo cercare di trattenere il Dio profondo,
il Dio immenso, misterioso, eccelso, onnipo­tente,
e pregarlo, per i meriti e l’intercessione dei santi,
che conceda alle nostre tenebre
almeno qualche scintilla della sua luce.(Instruct., I,4-5)
In Colombano pare di vedere raffigurato dal vivo come l’amore fa gustare ben oltre ciò che si vede la grandezza divina toccata con la mano del cuore.
E’ questa esperienza essenziale di Dio, della luce che egli è e che rifiuta ogni forma di tenebre, che fa forse diventare preghiera anche la durezza che veste le pagine del Penitenziale e la Regola. Il de Vogüé, scrive: «La Regola conventuale di san Colombano è un'opera sorprendente, anzi ingrata. A leggere le sue liste di puni­zione, si penserebbe di essere caduti in una galera. Questo tariffario penitenziale ci offre tuttavia una visione esatta non solo delle osservanze praticate, ma anche dello spirito generoso di conversione che li animava.
L'aspetto ai nostri occhi più saliente e più ingrato è l'assillo costante delle colpe e della loro repressione. Questa preoc­cupazione è così ridondante da imprimere alla Regola cenobitica la forma pro­pria di un penitenziale. Per interpretare esattamente questo carattere sconcertante occorre incessantemente ricordarsi del principio posto da Colombano stesso all’inizio della Regola cenobitica: `La confessione e la penitenza liberano dalla morte’. Non si tratta di un ammaestramento a colpi di frusta, ma della liberazione dal peccato. Il senso acuto del peccato è indubbiamente la lezione fondamentale che quest'epoca dà alla nostra». (de Vogüé, Règles et Penitentiels monastiques, p. 10)
“La varietà delle colpe deve essere guarita con un rimedio: la va­rietà delle penitenze. Ecco perché, fratelli, i santi Padri hanno così stabilito: essi esigono che noi confessiamo tutto, non solo i crimini gravi, ma anche le negligenze più importanti. Sicché gli stessi piccoli peccati non sono da trascurare nella confessione, dal mo­mento che è scritto: Chi trascura le piccole cose, prima o poi trascu­rerà le grandi.”( Regula coenobialis )
Le penitenze previste per le colpe gravi dei monaci, dei chierici e dei laici ci stupiscono per la loro severità.
“Per avere leggerezza verso la maestà divina: dodici colpi di disciplina per non essersi chinato davanti alla croce, o per aver mangiato senza attendere la benedizione. Sei colpi di disciplina se l'ebdomadario tossisce intonando un salmo, o per un comunicando che urta coi denti il calice, o per il prete che offre il Santo Sacrificio non in ordine, o per il dia­cono non rasato. Ma se il prete dimentica l’ offertorio, riceve cento colpi. Il monaco che racconta delle storie oziose è perdonato la prima volta; se è recidivo, merita cinquanta colpi. Incorre nella sanzione più dolorosa anche chi si appropria di un oggetto destinato all’uso comune: cento colpi. Così chi non riceve la benedizione a tavola rispondendo: “Amen” è punito con sei colpi di disciplina. Per chi dimentica di fare il segno della croce sul cucchiaio prima di servirsene, o sulla lampada prima di accenderla - uguale pena. Per inavvertenze leggere, come il non chinarsi alla fine di un salmo, si deve semplicemente restare a fare ora­zione. Ma se per disattenzione un incaricato ha lasciato sprecare nutrimento o bevanda, frutto di tanto lavoro, canterà dodici salmi stando completamente disteso sul pavi­mento della chiesa, «senza muovere un solo membro”.
E le sanzioni si riferiscono anche a situazioni che ai nostri occhi parrebbero davvero insignificanti.Ma esse suppongono da parte di tutti un vigore spirituale e una generosità mirabili e lo sforzo per eliminare dalla vita regolare le più piccole mancanze attesta lo slancio e la serietà di questo monachesimo, teso verso una totale purezza. L’importante è comprendere l'ideale di penitenza che l'Irlanda, nella persona di Colombano, porta sul continente. È evidente l'eco del Vangelo. Ai monaci come al resto dei cristiani la missione irlandese lancia un potente appello alla conversione, che sarà ascoltato da molti.
Dalle sue considerazioni sulla condizione della vita umana sbalza fuori un quadro veramente fosco; sulla scena di un mondo più apparente che reale, poiché è tutto sotto la legge inesorabi­le della caducità, gli uomini si muovono come ombre inconsistenti, ombre che devono però diventare autentiche persone attraverso la catarsi della penitenza e della mortificazione; «con 1'aiu­to di Dio, sforziamoci di liberarci dai vizi, per poterci poi ornare delle virtù. Mondiamoci in­nanzitutto dalla superbia, dall'invidia, dall'ira, dalla bestemmia, dall'iniquità, dalla malizia, dal­la tristezza, dalla vanagloria, dalla cupidigia, dal­la malignità, da ogni amarezza, per venir ricolmati di umiltà e dolcezza, di benevolenza, mansuetu­dine, temperanza, misericordia, giustizia, letizia e carità» (Istr. II, 2).
I mezzi per conseguire un'autentica santità sono molti, ma si possono ridurre a un solo intento: piacere a Dio per poter entrare nel suo Regno quali figli che, pur recidivamente ribelli, deside­rano raggiungerlo nella gloria. Come può il fan­go anelare alle realtà celesti? Fragile come fiore d'erba che un soffio di vento disperde, l'uomo è tuttavia chiamato a rifiorire in cielo. È a questo che tutto converge, è in vista di questo futuro di felicità incomparabile che il monaco, e il cristia­no, libera il proprio cuore dall'attaccamento alle cose di questo mondo. La resistenza alle sedu­zioni del maligno costituisce una vera e propria battaglia, una guerra senza tregua. Vince chi vin­ce se stesso, ossia chi mette a morte il suo vec­chio io al fine di vivere unicamente per Cristo poiché siamo suoi: «Siamo di Cristo, non nostri!» (Istr. X, 2) poiché siamo stati da lui comprati a caro prezzo. Il vero amore a se stessi è quello che ci fa morire per vivere in Cristo: «Vincendo te stesso avrai vinto tutti. Se vinci te stesso…, morto a te stesso, sarai giudicato vivo da Dio” (Istr. X,3).
Possiamo sentire il sentimento, che attraversa tutti gli scritti di san Colombano, della vita terrena nel suo stesso essere effimera e sfuggente, da condursi sotto il giudizio di Dio, e che proveniva esattamente da questa ancora più profonda e diffusa «sete del Dio vivente», o desiderio di Dio, che si esprime in ardenti e intense preghiere. Ne citiamo qualche brano:
Veglia veramente beata quella in cui si è in attesa di Dio (...).
Si degnasse il Si­gnore di scuotere anche me,
spregevole ma pure suo umile servo,
dal sonno della mia inerzia
e accendermi talmente di quel fuoco della sua divina carità,
da farmi di­vampare del suo amore fin sopra le stelle (...).
Potessi avere quel legno
con il quale sempre accendere, alimentare, riattizzare e ravvivare
quel fuoco, quella fiamma,
così che mai si estingua, ma sempre sappia cre­scere.
Dio mio, donami,
ti prego, nel nome del tuo Figlio Gesù Cristo,
quella carità che mai viene meno,
perché la mia lucerna si mantenga sempre accesa,
né mai si estingua; arda per me, brilli per gli altri.
Dégnati, o Cristo, dolcissimo nostro Salvatore,
di accendere le nostre lucerne:
brillino continuamente nel tuo tempio
e siano alimentate perennemente da te,
che sei la luce perenne,
perché siano rischiarate le nostre oscurità
e fuggano da noi le te­nebre del mondo.
Dona, o Gesù mio, la tua luce alla mia lucerna (...).
Fa' che io guardi, contem­pli,
desideri te solo,
e, amandoti, solo a te sia rivolto,
e sempre la mia lucerna brilli e arda davanti a te.
Ti prego, amantissimo nostro Salvatore,
di mostrarti a noi che bussiamo,
per­ché, conoscendoti, amiamo te,
te soltanto, te solo desideriamo,
a te solo sia volta la nostra meditazione giorno e notte,
a te solo sempre pensiamo.
Degnati di infonderci un amore così grande,
quale si conviene a te che sei Dio
e quale meriti che ti sia reso,
perchè il tuo amore
pervada tutto il nostro essere interiore
e ci faccia completamente tuoi.
In questo modo non saremo capaci di amare
altra cosa all'infuori di te, che sei eterno,
e la nostra carità non potrà essere estinta
dalle molte acque di questo cielo,
di questa terra e di questo mare,
come sta scritto: "Le grandi acque non possono spegnere l'amore" (Ct 8, 7).
Possa questo avverarsi per tua grazia, anche per noi,
o Signore nostro Gesù Cristo,
a cui sia gloria nei secoli dei secoli. Amen. (Instruct., XII, 2-3).
Dobbiamo certo riconoscere che Colombano era eminentemente «un uomo d'azione» più che di elaborate meditazioni e di lettere, e che la sua opera di scrittore non è assimilabile a quella di Gregorio Magno, a lui contemporaneo e da lui ammirato e declamato come «il bellissimo Decoro della Chiesa Romana, quasi Fiore augu­stissimo di tutta la languente Europa. Osservatore egregio, perito nella contemplazione della divina parola». L'abate irlandese aveva infatti letto la Regola Pastorale di Gregorio - «ho letto il tuo libro sul governo pastorale, conciso nello stile, esteso nella dottrina, ricolmo di misteri» -, e al papa chiedeva anche le Omelie su Ezechiele, ma la finezza e l'attenzione psicologico-spirituale erano incomparabili.
Tuttavia nei Carmina incontriamo ancora una volta un altro lato di Colombano. Si cita il Poenitentiale, segnato da colpi di bastone, digiuni, di quarantene e penitenza: ma le sue poesie trasudano sapienza umana e cri­stiana, buon senso, equilibrio, delica­tezza.
Esse come i Sermoni presentano la miseria dell’uomo e la compunzione, il disprezzo del mondo e l’amore a Cristo e rivelano forse il profilo più intimo e più vero di Colombano: il Colombano “mistico”, adorante e ammutolito di fronte al mistero di Dio; l’innamorato di Cristo, nel quale si risolve la sua vita; l’orante che converte la parola in preghiera.
Lo si dice lettore della Bibbia e dei Padri, ma conosce benissimo non solo poeti cristiani come Giovenco, Prudenzio, Venanzio Fortunato, ma anche Virgilio, Orazio, Ovidio, Stazio, Giovenale, e in alcuni versi ricorda il dulce carmen di Saffo [...]un metro che egli conobbe e imparò proba­bilmente da Boezio: voci e toni tutti di una squisita cultura umanistica ricevuta a Bangor (non mai dimenticata, forse rinnovata e, in certe forme appresa sul continente, se è vero che certi contenuti dei “Carmina” sono lontani dalla cultura letteraria dell’Irlanda) e che dai suoi monasteri egli trasmetterà alla rinascita carolingia e alla sto­ria culturale del Medio Evo. Questo non significa che il messaggio di questi carmi sia diverso da quello delle opere "asce­tiche": è lo stesso, ma accompagnato, in alcuni specialmente, da un diffuso senso di dolcezza, di serenità, quasi di ascolto, si potrebbe dire che la poesia rivesta l'austerità della vita e la preghiera che ne nasce ha il colore della bellezza.
Ed è particolarmente commovente vedere il mona­co e l'asceta austero, poco incline all’esteriorità, rivestire le parole che esprimono il suo ca­rattere personale di una forma poetica, l'unica bellezza che si è permesso di coltivare nel mondo che ha abbracciato. Questa attenzione all’arte della parola tradisce quell’aspetto dell’uomo Colombano nascosto dietro l’austerità dell’ascesi.
Noi abbiamo solo alcuni poemi di Colombano: appena una mezza dozzi­na. “Tutti parlano di ritiro dal mondo e di rinun­zia. Essi ci fanno ascoltare un canto, per così dire, duro e in ogni caso gravissimo” (F. Brunholzl, Histoire de la littérature latine du moyen age, pag. 181), ma i versi alzano dinanzi agli occhi del nostro spirito la personalità meraviglio­samente affascinante del loro autore: il messag­gero della fede che, austero, rude, solitario, entra nel profondo della nostra esperienza di Dio, con il suo essere assetato di lui, con il rivestire di forme, diremmo oggi “secolari”, la sua fede.
L'edizione critica riconosce a san Colombano precisamente cinque carmina: il Carmen de transitu mundi, ascrivibile, forse, al tempo della giovinezza. «Questo mondo è destinato a passare»: è il tema dell'intero carme sull'incombente e irreversibile labilità o mortalità intrinseca di tutte le cose di questo mondo, fonte di seduzione e di illusione per i peccatori, che va abbandonato per essere salvati. Pare di sentire le considerazioni del Qoelet o la voce dei salmi sulla carne che è come l'erba del campo, o il potente ammonimento di Cristo sul vano ammasso delle ricchezze e la perdita dell'anima. Forse Colombano pensava alla sua giovinezza, ai fascini provati, alle resistenze op­poste «ai piaceri fugaci». Non so se veramente il carme si possa fissare alla giovinezza dell'autore o non invece a quell'età in cui, con l'esperienza degli anni, egli può giudica­re l'inconsistenza della vita e offrire credibili considerazioni ed esortazioni. Ma non è questo senso della transitorietà delle cose l'aspetto più alto e attraente del carme. Il mondo può essere abbandonato, se lo sguardo si volge al volto di Colui che non passa e non perde grazia e splen­dore:
Passerà questo mondo,
giorno dopo giorno declina;
nessuno continuerà nella vita,
nessuno è sopravvissuto.
A chi prolunga la vita,
furtiva e incerta sopravviene la morte;
la tristezza della morte
afferra tutti gli erranti nella loro superbia.
Tutti gli avari sventuratamente perdono
quanto non vogliono donare per amore di Cristo;
altri, dopo di loro, lo raccolgono ( ... ).
L'amata vita presente
di giorno in giorno decresce;
mai non passerà la pena che si van preparando.
Si affannano a procurarsi ciò ch'è mutevole e perisce,
non temendo di affidarsi a quel che li seduce.
Più della luce hanno amato le tenebre (Gv 3,19) tetre.
Disdegnano di seguire come guida il Signore della vita.
Regnano come in un sogno,
godono per un'ora soltanto,
mentre si stanno per loro preparando
tormenti eterni (...).
Ecco: come erba di campo è ogni carne,
che, pur florida, brucia,
e come il fiore dell'erba
è tutta la sua gloria.
Appena sorge il sole,
appassisce l'erba e il fiore:
così è di ogni giovinezza,
quando si estenua il vigore.
Con la vecchiaia la bellezza dell'uomo si dissolve.
Ogni grazia di un tempo, con dolore scompare.
Il volto splendente di Cristo,
desiderabile sopra ogni cosa:
questo dev'essere amato
più del fiore della fragile carne.
Dopo la morte i beati
vedranno il beatissimo Re
Allora il Re dei re, il Re santo
dai santi sarà contemplato.
Abbiamo sentito, sopra, dai sermoni le affettuo­se preghiere rivolte a Cristo:
Fa' che io guardi, contempli, desideri te solo,
e solo te attenda con il più ardente desiderio
e sempre la mia lucerna brilli e arda davanti a te.
Profonde e quasi letterali in questo carme le risonanze bibliche, segno di quanto la conoscenza della Parola di Dio e la sua meditazione plasmassero il pensiero dei monaci antichi; il salterio imparato a memoria era il contenuto principale della preghiera liturgica; alcuni monaci si costringono a recitare l'intero salterio; in genere ogni giorno se ne recita un terzo, ossia cinquanta salmi; la preghiera coinvolge anche il corpo, essendo accompagnata da numerose genuflessioni, prostrazioni, o braccia aperte in forma di croce. Le notti dal venerdì al sabato e dal sabato alla domenica, come pure quelle che precedono le feste solenni, non tagliano la vigilia con quattro tempi di riposo, ma ne fanno una preghiera unica e continua, senza interruzione. Essa comporta allora settantacinque salmi, di modo che le due ultime notti della settimana, che celebrano la Risurrezione del Signore, si ripartiscono il salterio integrale. Per cui, durante queste due notti settimanali, i monaci non si coricano: è la lode ininterrotta. Se si tiene conto che l'ufficio è cantato interamente e che si aggiunge ai salmi una profusione di antifone (senza dubbio di una certa lunghezza, vista la passione dei celti per tutto ciò che concerne il canto e in particolare il canto sacro), si comprende senza difficoltà che la vigilia occupi il coro dal crepuscolo della sera al crepuscolo dell'alba.
Ma anche qui si rivela un aspetto assolutamente nuovo di Colombano: se la preghiera comune va ordinata perché sia degna nel suo svolgersi, non così quella personale: “…la vera tradizione della preghiera varia in rapporto a quanto si può fare senza venir meno al voto pro­nunciato al riguardo. Essa varia in rapporto alle possibilità ottimali di ciascuno, oppure secondo le disposizioni spirituali, tenuto conto delle ne­cessità, o di quanto il tipo di vita rende possibile. Si deve dare anche spazio al fervore di ciascuno, se è libero e solo; prendere in considerazione ciò che richiede il suo livello d'istruzione, e quanto a ciascuno permette il tempo libero concessogli dalla sua condizione, l'ardore del suo zelo, la natu­ra del suo lavoro, e anche i vari gradi di età. Per­tanto diversa deve essere la valutazione della perfezione nel raggiungimento dell'unico ideale della preghiera, dal momento che essa deve al­ternarsi con il lavoro e non può prescindere dal luogo. In tal modo, sebbene sia varia la durata dello stare in piedi o del cantare, si cercherà di realizzare sempre con uguale perfezione la pre­ghiera del cuore e la costante attenzione dell'ani­ma a Dio.” (Regula VII)
Non ci si aspetterebbe dal monaco duro, austero, intransigente, una tale considerazione per ognuno dei suoi figli, eppure Colombano si preoccupa di sottolineare il rispetto per il modo di pregare di qualsiasi monaco: ciò che conta è pregare veramente.
Anche i Versus Columbani ad Hunaldum (con acrostico: Columbanus - Hunaldo), in esametri, riprendono il tema del tempo che scorre e di ogni cosa che passa. Nei primi versi l'alto pensiero del monaco diventato poeta abbraccia e domina l'eterno panorama dell'uma­na vicenda, dell'incalzante ritmo del tempo, dei vizi e delle virtù degli uomini.
Orsù, per poter godere della vita eterna,
Mettiti ora a disprezzare le carezzevoli attrattive della fuggevole vita…
…L’insicura gloria della vita mortale velocemente passa…
Sempre il «tempo fugace (volatile tempus)» , coi suoi beni precari, è la materia dei Versus Sancti Columbani ad Sethum, di sapore oraziano e an­cora così vicini al Qoelet, ed è nuovamente Gesù la ragione del loro abbandono per beni che non passano: «Chiunque ama Cristo, segue le orme di Cristo…
Inconsistente e di breve durata

è la gloria della carne destinata a perire…

beni che non passano sono:
i precetti della legge divina,
le regole di vita onesta dei santi Padri,
tutto ciò che in passato scrissero i maestri docili allo Spirito,
o i carmi che composero poeti dal sapiente eloquio».
È facile sentire e trovare in questi Versus fonti e ispirazioni di autori classici: «pensieri e paro­le di Virgilio, Ovidio, Orazio, Sedulio, Ausonio, Prudenzio vi affiorano sovente, ma sono così ben incastonati nel nuovo verso colombaniano che la fusione appare perfetta; segno indubbio che Co­lombano sapeva vivificare di energia propria quanto aveva appreso dagli altri».
Va sottolineata nel carme a Seth la singolarità di quell'invito a studiare poeti e prosatori profani, insieme agli scrittori ascetici, e il più delle volte si tratta di autori la cui conoscenza pres­so gli scrittori irlandesi non è attestata, per cui si deve concludere che Co­lombano non ha conosciuto e assimilato se non sul continente la più parte degli autori che utiliz­za, così come la loro metrica. Questo mi pare un aspetto bellissimo di Colombano: la vivacità di chi abbraccia tutto ciò che gli è dato di incontrare, di conoscere, di vivere come luogo e possibilità di trovare Cristo: non c’è nulla che non lo riguardi, una metrica conosciuta durante il suo camminare sulle terre d’Europa, poeti lontani dall’esperienza cristiana diventano la forma della preghiera: è un luminoso esempio di fede e di amore, della creatività che è segno di conversione. Ha poi il suo valore l'osservazione che nella poesia medievale e particolarmente in quella di san Colombano «il vino vecchio entrò negli otri nuovi, per dare al vino nuovo un sapore antico».
Una piacevole e quasi commovente sorpresa riserva, tra i testi poetici di Colombano, il vi­vace e libero Carmen Fidolio, in versetti di due sole parole (bipedali versu): l'adonio, che normalmente chiude la strofa saffica e in Colom­bano, come già in Boezio, è usato da solo.
Potremmo chiederci se sia lo stesso uomo, una volta missionario inflessibile, quello che ora, per amore di un suo amico, illustra la sua esor­tazione con esempi attinti alla mitologia greca. Siamo di fronte a un'altra rivelazione di Colom­bano, a «una nota nuova nella sinfonia già così ricca e complessa della sua spiritualità: a settan­tadue anni, già gravato dalle noie penose della vecchiaia e con un passato di logorante attività come il suo, egli si compiace ingenuamente di rinnovare in questi versi adonici un metro già caro a Saffo [...] e si abbandona spensierato al puro godimento dell'arte, colorando, con la fre­schezza vivace di una fantasia rimasta giovane, il sogno poetico che gli fioriva sulla pagina». (R. Della Cella, S. Colombano poeta, pp.36-37).

In cambio di oro

l’eroe Achille

consegnò

le spoglie di Ettore.
In forza dell’oro
di certo
si dicono aperte
le nere porte dell’Ade.
Ma ecco ancora l'apparire di Cristo:
Cristo,
arbitro del mondo,
dell'Onnipotente unico Figlio,
ti conceda le dolci
gioie della vita.
Ritorna però alla fine il richiamo abituale: «Tutto passa, il tempo fugge senza ritorno», e alla letizia spensierata anche nel verso succede a suggello il ricordo della sua vecchiaia e di quella che verrà anche per Fidolio: «Queste parole ho dettato, oppresso da terribili dolori, che patisco nel fragile mio corpo e a causa della mia vecchiaia»; «Vivi, sta' bene, sii lieto, ma ri­corda la triste vecchiaia».
Accenniamo, per ultimo, al Carmen navale. Si tratta di un "celeuma", o canto per i rematori, com­posto da Colombano per il viaggio sul Reno, da Magonza a Basilea e a Bregenz. Quel viag­gio, intrapreso per la sua espulsione dalla Gal­lia, offre al coraggioso monaco, che vi appare come condottiero, l'immagine appropriata del corso della vita, delle sue traversie, e quindi del pre­mio che verrà per quanti, sostenuti dalla memo­ria di Cristo, avranno resistito e saranno giunti al termine del percorso. Se dapprima il ritornello del "celeuma" è: «Olà, uomini! E l'eco faccia risonare il nostro Olà», esso diviene poi: «O uomini, il vostro cuore, memore di Cristo, ripe­ta: Olà».
Resistete e aspettate tempi migliori,
o voi che tante traversie avete patito:
Dio porrà fine anche a questi travagli.

Olà, uomini! E l'eco faccia risonare

rimbombando il nostro Olà!

…………………
L’onnipotente Re delle virtù, fonte dell’essere,
si fa garante per chi lotta, dà premi a chi vince.
O uomini, il vostro cuore, memore di Cristo,
ripe­ta: Olà».
La vena poetica, e più radicalmente, il senti­mento forte, potremmo dire “dolce”, nel senso forte del termine, l'affettività, che conosce la tenerezza, e la capacità e il gusto della bellezza e del "divertimento" apparten­gono al Colombano storico, al rude monaco “barbaro coi barbari”.
Se dovessimo scegliere alcune parole che tratteggino la preghiera vestita di versi del monaco irlandese forse potremmo scegliere la “Preghiera”, così lui stesso ha intitolato queste righe, in cui traspaiono in filigrana il senso profondo della lotta contro tutto ciò che è male; il sapore forte della purezza che illumina i gesti e le scelte del vivere quotidiano; il primato di Cristo e l’abbandono coraggioso di chi ha fatto del “peregrinari” la forma della “sequela Christi”, che conosce la povertà della vita e del cuore; lo abbiamo sentito poco fa :”… Mangiamo col povero, beviamo col povero, condividiamo la sorte del povero, per meritare almeno così di entrare insieme col povero in quel luogo, dove verranno saziati coloro che qui per Cristo hanno fame e sete di giustizia”.
Signore Dio, distruggi e sradica
tutto ciò che l'avversario pianta in me,
affinché, eliminata ogni iniquità,
tu possa porre sulle mie labbra la sapienza
e nel mio cuore il desiderio di ben operare.
Fa' che io serva Te solo
nelle opere e nella verità,
che sappia adempiere i comandamenti di Cristo
e cercare Te, unicamente.
Fa' che mi ricordi di Te;
dammi la carità,
dammi la castità,
dammi la fede;
dammi tutto ciò che sai essere utile all’anima mia.
Signore, compi in me il bene
e concedimi ciò che sai essermi necessario.
Amen
” La meraviglia che i suoi carmi e, senz'altro, i diversi tratti emergenti dalle sue lettere e soprattutto dai suoi sermoni suscitano, sta a indicare che un pregiudizio di interpre­tazione lo ha condizionato e ristretto, mostrandone riduttivamente solo un aspetto. Colombano va ri­valutato nella personalità e nella spiritualítà.
E, infatti, la figura di Colombano che risalta dalle sue opere è una personalità «rivalutata», se, indubbiamente, impressiona e suscita qualche immediata perplessità e sconcerto, a motivo della sua tenacia granitica e non ammansibile, pure, per altro verso, la stessa figura su­scita una irresistibile attrattiva e una sconfinata ammirazione, dello stesso genere di quelle che non hanno mancato di conquistare quanti lo hanno, via via, incontrato lungo i suoi pellegrinaggi”. (I. Biffi, La disciplina e l’amore, Jaca Book)
E c'è un'evidente ragione, in profondità, ben colta da Walker (G.S.M. Walker, San Colombano, Le opere, p. 17, nota 29). Egli scrive: «Un carattere così complesso e così contrastante, umile e alte­ro, rude e tenero, pignolo e focoso di volta in volta, aveva, come suo modello direttivo e unificante, l'aspirazione alla santità»: l'aspira­zione cioè a una piena sequela di Cristo, l'amore per il quale era il mo­vente radicale delle sue scelte e del suo stato di vita di solitario e di missionario.
Ma cosa insegna a noi Colombano con la sua preghiera, cosa dicono a noi le sue parole? Mi pare soprattutto che ciò che più balza agli occhi sia la sua intensità spirituale, fondata sulla totale sottomissione alla volontà di Dio e sulla identificazione con Cristo crocifisso. La preghiera assidua, che conosce l’ascesi del corpo e che abbraccia intelligenza e volontà, plasma la sua opera e la sua testimonianza: da lui emanava una forza che appariva necessariamente fondata su una base soprannaturale.
Colombano è un uomo di Dio tenace e combattivo, nel quale il porsi sempre innanzi al Signore ha reso possibile la composizione di tratti dall’apparenza contrastanti: “dal forte è uscito il dolce” (Gdc 14,14).
* * *
Altri testi di san Colombano
1.Dalle “Istruzioni”

Mosé ha scritto nella legge: Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza (cfr. Gn 1, 27. 26). Considerate, vi prego, la grandezza di questa espressione Dio onnipotente, invisibile, incomprensibile, ineffabile, inestimabile, plasmò l’uomo dal fango della terra e lo nobilitò con la dignità della sua immagine. Che cosa vi può essere di comune tra l’uomo e Dio, tra il fango e lo spirito? “Dio”, infatti, “é spirito” (Gv 4, 24). Quale grande degnazione é stata questa, che Dio abbia dato all’uomo l’immagine della sua eternità e la somiglianza del suo divino operare! Grande dignità deriva dall’uomo da questa somiglianza con Dio, purché sappia conservarla. Gravissimo titolo di condanna é invece per lui la profanazione di quella immagine. Se l’uomo userà rettamente di quella facoltà che Dio ha concesso alla sua anima, allora sarà simile a Dio. Ricordiamoci che gli dobbiamo restituire tutti quei doni che egli ha depositato in noi quando eravamo nella condizione originaria. Ce ne ha insegnato il modo con i suoi comandamenti.
Il primo di essi é quello di amare il Signore nostro con tutto il cuore, perché egli per primo ci ha amati, fin dall’inizio dei tempi, prima ancora che noi venissimo alla luce di questo mondo. L’amore di Dio é la rinnovazione della sua immagine. Ama veramente Dio chi osserva i suoi comandamenti, poiché egli ha detto: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti” (Gv 14, 15). Il suo comandamento é l’amore reciproco. Così é stato detto: “Quetso é il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati” (Gv 15, 12). Il vero amore però non si dimostra con le sole parole “ma coi fatti e nella verità” (1 Gv 3, 18). Dobbiamo quindi restituire al Dio e Padre nostro la sua immagine non deformata, ma conservata integra mediante la santità della vita, perché egli é santo.
Per questo é stato detto: “Siate santi, perché o sono santo” (Lv 11, 44). Dobbiamo restituirgliela nella carità, perché egli é carità, secondo quanto dice Giovanni: “Dio é carità” (1 Gv 4, 18). Dobbiamo restituirgliela nella bontà e nella verità, perché egli é buono e verace. Non siamo dunque pittori di una immagine diversa da questa. Dipinge in sé l’immagine di un tiranno chi é violento, facile all’ira e superbo. Perché non avvenga che dipingiamo nel nostro animo immagini tiranniche, intervenga Cristo stesso e tracci nel nostro spirito i lineamenti precisi di Dio. Lo faccia proprio trasfondendo in noi la sua pace, lui che ha detto: “Vi lascio la mia pace, vi do la mia pade” (Gv 14, 27). Che cosa tuttavia ci servirebbe sapere che la pace é in sé buona, se poi non fossimo capaci di conservarla? In genere le cose migliori sono anche le più fragili. Le cose più preziose poi esigono la vigilanza più cauta e diligente. E’ troppo fragile quello che si spezza con una sola parola o che va in rovina per la più piccola offesa al fratello. Nulla piace tanto agli uomini quanto parlare delle cose altrui, darsi pensiero degli affari degli altri e passare il tempo in inutili conversazioni, mormorando degli assenti.
Tacciano quelli che non possono dire: “Il Signore mi ha dato una lingua da iniziati, perché io sappia indirizzare allo sfiduciato una parola” (Is 50, 4) e, se dicono qualcosa, sia una parola di pace. (Istr. 11, 1-2; Opera, Dublino 1957, 106-107).

2.Dalle ‘Istruzioni’
Quanto sono beati, quanto sono felici “quei servi che il Signore, al suo ritorno, troverà ancora svegli”! (Lc 12,37). Veglia veramente beata quella in cui si è in attesa di Dio, creatore dell'universo, che tutto riem­pie e tutto trascende! Volesse il cielo che il Signore [Gesù] si degnasse di scuotere anche me, meschino suo servo, dal sonno della mia mediocrità e accendermi talmen­te della sua divina carità da farmi divampare del suo amore sin sopra le stelle, sicché ardessi dal desiderio di amarlo sempre più, né mai più in me questo fuoco si estinguesse! Volesse il cielo che i miei meriti fosse­ro così grandi che la mia lucerna risplendesse conti­nuamente di notte nel tempio del mio Dio, sì da poter illuminare tutti quelli che entrano nella casa del mio Signore! O Dio Padre, ti prego nel nome del tuo Figlio Gesù Cristo, donami quella carità che non viene mai meno, perché la mia lucerna si mantenga sempre acce­sa, né mai si estingua; arda per me, brilli per gli altri. Dégnati, o Cristo, dolcissimo nostro Salvatore, di ac­cendere le nostre lucerne: brillino continuamente nel tuo tempio e siano alimentate sempre da te che sei la luce eterna; siano rischiarati gli angoli oscuri del no­stro spirito e fuggano da noi le tenebre del mondo. Dona, dunque, o Gesù mio, la tua luce alla mia lucer­na, perché al suo splendore mi si apra il santuario celeste, il santo dei santi, che sotto le sue volte mae­stose accoglie te, sacerdote eterno del sacrificio perenne. Fa' che io guardi, contempli e desideri solo te; solo te ami e solo te attenda nel più ardente desiderio. Nella visione dell'amore il mio desiderio si spenga in te e al tuo cospetto la mia lucerna continuamente brilli e arda. Dégnati, amato nostro Salvatore, di mostrarti a noi che bussiamo, perché, conoscendoti, amiamo solo da te, te solo desideriamo, a te solo pensiamo continuamente, e meditiamo giorno e notte le tue parole. Dégnati di infonderci un amore così grande, quale si conviene a te che sei Dio e quale meriti che ti sia reso, perché il tuo amore pervada tutto il nostro essere interiore e ci faccia completamente tuoi. In questo modo non saremo capaci di amare altra cosa all'infuori di te, che sei eterno, e la nostra carità non potrà essere estinta dalle molte acque di questo cielo, di questa terra e di questo mare, come sta scritto: «Le grandi acque non possono spegnere l'amore» (Ct 8, 7). Possa questo avverarsi per tua grazia, anche per noi, o Signore nostro Gesù Cristo, a cui sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.