venerdì 11 novembre 2011

Sören Kierkegaard - Articoli e riflessioni 1


Nella ricorrenza del Dies Natalis di questo grande pensatore cristiano, ho pensato di proporre qualche articolo che più da vicino richiama la tensione cristiana che animava Soren Kierkegaard.
L'autore degli articoli seguenti è Cornelio Fabro.

1. Il conforto del paradiso

2. Sorpresa e attesa cristiana della morte

3. La libertà umana e l'eternità dell'inferno



1. Il conforto del Paradiso in Sören Kierkegaard

I cosiddetti Novissimi della pietà cristiana - morte, giudizio, inferno e paradiso - costituiscono anche il sottofondo e l'atmosfera della produzione di Kierkegaard come «scrittore religioso», quale egli espressamente si qualificò. La stessa centralità che assumono, nella sua rivendicazione della purezza originaria del Cristianesimo, le dottrine del peccato e della Passione di Cristo assieme all'esigenza della rinuncia ascetica e dell'Imitazione di Cristo (Kierkegaard è stato un ardente ammiratore del mirabile opuscolo medievale), mettevano in primo piano il conforto della fede nella vita futura e della speranza della beatitudine in Dio con Cristo, gli Angeli ed i Santi. Anzi, possiamo dirlo subito, il nucleo centrale della sua crescente polemica - che sarà interrotta soltanto dalla morte - contro la Cristianità mondanizzata («specialmente nel Protestantesimo, specialmente in Danimarca!») è che la Cristianità stabilita ha convalidato allegramente - sul conto della Passione e Morte di Cristo - tutti i piaceri terreni ritornando al giudaismo anzi al paganesimo. Perciò, contro Lessing e l'intera deformazione del Cristianesimo fatta dal pensiero moderno. Kierkegaard afferma ch'è nel tempo che l'uomo deve decidere della sua eternità con la sua scelta (cfr. Briciole e Postilla) e che si tratta della scelta decisiva: o con Cristo o contro Cristo (Malattia mortale,Esercizio del Cristianesimo).

Kierkegaard in quest'alternativa vede la realtà della libertà e fonda la serietà della scelta: «...poiché c'è un solo Nome, in cielo e in terra, uno solo (cfr. At. 4,12) e quindi una sola via da scegliere - se un uomo vuole scegliere con serietà e scegliere bene. Infatti ci devono essere molte vie, affinché l'uomo possa scegliere: ma deve anche essercene una soltanto da scegliere, se la serietà dell'eternità deve riposare sulla scelta.. Una scelta di cui è indifferente se si sceglie l'una o l'altra cosa, non ha la serietà eterna della scelta; dev'essere in ballo l'alternativa di guadagnare tutto o di perdere tutto affinché la scelta abbia la serietà dell'eternità, anche se - come si dice - deve esserci una possibilità di poter scegliere qualcos'altro perché la scelta possa essere realmente una scelta» (Vangelo delle sofferenze, tr. it. di C. Fabro, Fossano 1971, p. 96 s.). Di qui anche lo stimolo gioioso per il cristiano a sopportare la sofferenza: «Solo la sofferenza forma per l'eternità; perché l'eternità è nella fede, ma la fede è nell'obbedienza, ma l'obbedienza è nella sofferenza. L'obbedienza non è fuori della sofferenza, la fede fuori dell'obbedienza, l'eternità senza la fede. Nella sofferenza l'obbedienza è obbedienza, nell'obbedienza la fede è fede, nella fede l'eternità è eternità» (Op. cit., p. 146).

I vertici di quest'elevazione di Kierkegaard sul Paradiso s'intensificano negli ultimi anni quando la tensione del suo spirito è tutta presa dall'opera nefasta di distruzione che il pensiero moderno ha esercitato all'interno del Cristianesimo sul doppio fronte del dogma e della morale: anche i frutti di tosco che stanno oggi invadendo la teologia e la vita dei cristiani si chiamano demitizzazione, secolarizzazione, teologia della morte di Dio, teologia atea, epoca post-cristiana... E fra gli obiettivi primari da demitizzare sono soprattutto l'inferno ed il paradiso. La risposta di Kierkegaard oggi sarebbe perciò ancor più veemente: accenniamo a qualche testo che vorremmo fosse un invito ad una lettura diretta soprattutto degli scritti della maturità del grande danese ormai accessibili, quasi integralmente, al lettore italiano assieme al suo capolavoro ch'è il grande Diario.

In quel gioiello di letteratura edificante ch'è il Vangelo delle sofferenze,Kierkegaard commentando il detto paolino: «Poiché la nostra tribolazione breve e lieve produce in noi un peso eterno di gloria che supera ogni misura» (2 Cor. 4,17), ne cava un motivo di gioia come un riverbero del Paradiso: «che anche quando la sofferenza temporale è più pesante, la beatitudine dell'eternità ha tuttavia il sopravvento». Diamo l'avvio della mirabile meditazione:

«Sì, questo è ovvio, ed anche se fosse del tutto evidente che ogni uomo lo fa, bisognerebbe anche che ogni uomo fosse sicuro che la beatitudine dell'eternità ha il sopravvento; poiché basta che questo pensiero sia messo sul serio sulla bilancia, perché esso riesca ad avere il sopravvento. Oh, ma com'è raro forse che un uomo pesi con questa esattezza. E, comunque, nel mondo da un giorno all'altro e da mane a sera non si fa che parlare di soppesare e soppesare; eppure la realtà e che colui il quale non ha l'idea dell'eternità sempre con sé come la seconda grandezza della bilancia, costui non sovrappesa nulla, non può neppure sovrappesare. Poiché soppesare una realtà temporale con un'altra realtà temporale, quando si trascura l'eternità, non è soppesare, è un illudersi, è sprecare il proprio tempo e sprecare la beatitudine lasciandosi illudere dalle sciocchezze della vita. Qui si mostra di nuovo quanto è contenuto nella semplice parola: soppesare. Il significato fondamentale del soppesare umano è di pesare (deliberare) fra il temporale e l'eterno; in ogni altro soppesare umano deve essere presente questo significato fondamentale, altrimenti il soppesare - malgrado ogni affaccendarsi e l'ostentata importanza - manca di fondamento e non dice nulla (...).

Ahimé, così forse vivono i più; essi si chiamano perfino cristiani benché il punto decisivo che sta a fondamento del Cristianesimo sia appunto quel significato fondamentale di soppesare. Molti forse vivono ingannati a questo modo dalla temporalità. Illustriamo questa situazione con una semplice immagine. Quando il ricco, in una notte buia ma piena di stelle, viaggia comodamente nella sua carrozza con le fiaccole accese, egli è sicuro, non teme nessuna difficoltà, egli porta con sé la luce, e tutt'attorno il buio quasi fugge. Ma proprio perché viaggia con le lanterne accese e con tanta luce vicino a sé, egli però non può vedere le stelle; le sue fiaccole oscurano le stelle che il povero contadino, il quale viaggia senza fiaccole, può vedere splendidamente nella notte buia ma piena di stelle. Così essi vivono ingannati dalla temporalità: o, perché occupati nelle necessità della vita, s'affaticano a procurarsi delle visuali; oppure, sprofondati nel benessere e nei giorni felici, essi hanno come lanterne accese e attorno a loro tutto è così sicuro, così chiaro, così comodo - ma manca la visuale, la visuale delle stelle.

Certamente siffatti uomini sono illusi sul proprio conto, ma non hanno l'intenzione d'ingannare gli altri portandoli alla cieca o accecandoli; poiché questa luce accecante della temporalità è altrettanto pericolosa come una guida cieca al buio. Tuttavia vi sono anche uomini i quali sfacciatamente ingannano se stessi e sfacciatamente vogliono trascinare con sé anche gli altri. Essi vogliono estirpare completamente quest'idea dell'eternità e la beatitudine dell'eternità; vogliono, grazie alle astute invenzioni del benessere di ogni genere, rendere loro piacevole il più possibile la temporalità così da non poter più vedere l'eternità» (tr. cit., p. 201 ss.).

Invece per il cristiano deve star saldo che: «La nostra tribolazione, ch'è breve e lieve, produce in noi un peso eterno di gloria che supera ogni misura» (p. 205).

In questo contesto si può collocare la storia o allegoria deliziosa (di evidente suggestione evangelica) della pietra preziosa capitata miracolosamente a due vecchietti: si trova nel fascicolo VIII (§ 3) de Il Momento dell'11 settembre 1855, cioè al culmine della polemica contro la Cristianità degenerata ed a due mesi appena dalla morte. Il mirabile pezzo ha per titolo: «Un'eternità per pentirsi» (En Evighed til a fortryde: S. V. XIV, 318 s.):

«Vivevano, in una regione dell'Oriente, due poveri vecchi: un uomo e una donna. Essi, come si è detto, non avevano che povertà; e la preoccupazione per l'avvenire aumentava, naturalmente, col passare degli anni. Essi non tormentavano certamente il cielo con le loro preghiere, poiché essi troppo temevano Dio; ma essi di continuo si rivolgevano al cielo per aiuto.

Quand'ecco un mattino avvenne che la vecchia, avvicinandosi al focolare, trova sul camino una grossa pietra preziosa; essa corre a mostrarla al marito, il quale esperto in materia, capisce facilmente ch'essi hanno la vita ormai assicurata.

Così si spalanca per questi due vecchietti un lieto avvenire: che gioia! Però, semplici e timorosi di Dio come erano, decisero, poiché avrebbero potuto vivere ancora un giorno, di attendere ancora un giorno per vendere la pietra preziosa. Nella notte seguente la donna sognò che essa era portata in Paradiso. Un angelo le mostrava tutt'attorno la magnificenza che solo una fantasia orientale può immaginare. E l'angelo la condusse in una sala dove vi erano lunghe file di poltrone ornate tutte di pietre preziose e di perle e destinate - come spiegava l'angelo - alle anime pie. E alla fine gliene mostrò anche una destinata a lei. Mentre essa l'osservava più da vicino si accorse che nello schienale mancava una grossa pietra preziosa. Ed essa chiede all'angelo come mai ciò fosse.

Oh - attenzione, che ora comincia la storia! L'angelo dunque risponde: «questa era la pietra che tu trovasti sul camino: tu l'hai avuta in anticipo, né può essere sostituita».

Al mattino la donna racconta il sogno al marito, ed essa era del parere che sarebbe stato meglio rinunciare pei restanti anni della loro vita alla pietra piuttosto che perderla per tutta l'eternità. E il suo pio marito fu dello stesso parere.

Così la sera essi posero di nuovo la pietra sul camino e pregarono Dio di riprenderla. E così fu, al mattino essa era completamente scomparsa e i due vecchietti sapevano dove era andata a finire, ch'essa era tornata al suo posto giusto».

Uno dei lati più ripugnanti della Cristianità protestante era per Kierkegaard la mondanità dei pastori e la corsa del giovane pastore per accaparrarsi subito una bella moglie, come ironizza spesso il Diario: di qui la sua ferma difesa del celibato dei preti, come già abbiamo scritto qui e altrove. Egli considerava il celibato sacerdotale come una prova esistenziale ed una testimonianza della fede nella trascendenza e nell'immortalità dell'anima. Questo pensiero della trasfigurazione spirituale diventa dominante negli ultimi Diari, è il «criterio di distanza» com'egli lo chiama:

«Nella Chiesa antica si diceva con la più grande serietà e col più profondo pathos, che, per la caduta degli angeli, il numero degli eletti era rimasto incompleto. Allora si pensava che lo scopo infinitamente elevato per l'aspirazione del Cristiano l'uomo lo poteva raggiungere col far buon uso di questa vita, prendendo così il posto degli angeli decaduti. Ahimé, il numero di quegli angeli nessuno lo sapeva, forse non era grande; né si era d'accordo se Dio intendesse aumentare quel numero rispetto al suo progetto primitivo. Ma che dunque fosse tuttavia possibile diventar angeli, che il buon uso di questa vita fosse commensurabile con la decisione dell'eternità, ciò costituiva la serietà più profonda del Cristiano, il suo pathos più alto. Perciò egli era disposto a rinunziare a tutto, a soffrire tutto, pronto a esser sacrificato. E quindi ogni minuto di quel tempo prezioso aveva per lui un'importanza infinita; si chiamava sempre responsabile per ogni suo atto, per ogni parola che diceva, per ogni pensiero della sua anima, per ogni movimento del suo volto, onde non aver la colpa di perder ciò che l'occupava infinitamente.

Ora noi (specialmente nel Protestantesimo, specialmente in Danimarca!) viviamo in modo (è vero, com'è vero che io qui sto scrivendo) che non c'è sol uomo a cui venga in mente di fare per davvero la minima cosa, neppur la cosa più piccola, pensando di dover rapportarsi pateticamente alla decisione di diventare un angelo» (Diario 1853-1855, XI2A 331; tr. it. di C. Fabro, III ed., Brescia 1980-83, nr. 4442, t. XII, p. 33).

Nell'ultimo testo del Diario del 25 settembre 1855, Kierkegaard distingue gli spiriti superiori in due classi, i demoniaci e gli spirituali: i primi si ribellano a Dio, i secondi - fermi nel pensiero che Dio è amore - prendono il volo dello spirito e sospirano il Paradiso. Solo questi sono maturi per l'eternità.

«E costoro Dio anche accoglie nell'eternità. Infatti cosa vuole Dio? Vuole anime che lo possano lodare, adorare, ringraziare...: un'occupazione di Angeli! Perciò Dio è circondato dagli Angeli. Perché quella caterva di esseri che si contano a legioni nella cristianità, i quali per 10 talleri schiamazzano e suonan la tromba a onore e lode di Dio, è una genia che a Lui non piace. No, a Lui piacciono gli Angeli. E ciò che gli piace ancora più della stessa lode degli Angeli, è un uomo che nell'ultimo scorcio della vita (quando Dio fa l'impressione di essere tutta crudeltà e quasi con la crudeltà più sopraffina fa di tutto per togliergli ogni brama di vivere!) tuttavia continua a credere che Dio è l'Amore e ch'è per Amore che Dio lo fa. Un uomo simile diventa un Angelo. Ed in cielo a lui sarà più facile cantare le lodi di Dio: il tempo del tirocinio, il tempo dell'apprendimento, è anche sempre il tempo più duro. Come se un uomo avesse intrapreso il giro del mondo per trovare il cantore o la cantante dal timbro più perfetto: così Iddio nel cielo se ne sta in ascolto. E ogni volta che sente una lode da un uomo ch'Egli ha portato al punto estremo della noia della vita, Iddio dice fra sé e sé: qui c'è il tono giusto. Dice: "è qui", come se fosse una scoperta ch'Egli fa. Ma Dio questo lo sapeva, perché Lui stesso era presente presso quell'uomo e l'aiutava, in quanto Dio può aiutare per quel che solo la libertà tuttavia può fare. Soltanto la libertà, può farlo. E nella sua gioia di poterLo ringraziare egli è allora così felice che non vuol sentire più nulla, non vuol sentire assolutamente se non Dio stesso. Pieno di riconoscenza, egli riferisce tutto a Dio e prega Dio che le cose restino come sono: ch'è Dio che fa tutto. Perché egli non crede a se stesso, ma soltanto a Dio» (XI2 A 439; tr. it. nr. 4500, t. XII, p. 91 ss.).

Nell'ultima malattia Kierkegaard chiedeva a Dio, non di guarire, ma «...anzitutto il perdono dei peccati, che tutto mi sia perdonato. Poi chiedo a Dio che mi scampi dalla disperazione nell'ora della morte. Spesso mi viene in mente il versetto che dice: "Sia bene accetta a Dio la mia morte!"» (Diario, tr. it., Appendice A, p. 95). E mantenne fino alla fine una profonda pace e serenità di spirito. Il pastore Emil Boesen, amico d'infanzia ch'era andato a visitarlo e che ha lasciato nelle sue Memorie il ricordo commosso dell'ultimo commiato col grande amico, ne trasse un'impressione profonda. Ed il nipote di Kierkegaard, H. Lund, poteva scrivere al Boesen il 18 novembre 1855, ad una settimana dalla morte del grande zio: «Finalmente Dio nella Sua infinita grazia e misericordia lo trasse a Sé, nella sua eterna pace e felicità, alla quale egli per tutta la vita aveva aspirato dalle pene e molestie del mondo, di cui la sua vita era stata tutta ricolma. - Ora egli non è più. Voi avete perduto l'amico della vostra giovinezza, ma io ho perduto il mio unico e migliore amico, un consigliere provetto e sempre fedele, una guida sperimentata e sempre sicura. Piangiamo, ma non lo compiangiamo» (Diario, tr. it., Appendice A, t. XII p. 104).

Egli aveva così raggiunto quanto aveva vagheggiato nel Vangelo delle sofferenze: «Come il Nome di Gesù Cristo è l'unico in cielo e in terra, così anche Cristo è l'unico (Maestro) che ha preceduto in quel modo. Fra il cielo e la terra non c'è che un'unica via: seguire Cristo. Fra il tempo e l'eternità non c'è che un'unica scelta, una sola: scegliere questa via. Sulla terra c'è un'unica speranza eterna: seguire Cristo fino al cielo. Nella vita c'è un'unica gioia: seguire Cristo. E nella morte un'ultima beata gioia: seguire Cristo fino alla vita» (tr. it., p. 102).

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Il Modello del passaggio dalla morte alla gloria è per Kierkegaard il martirio di Stefano ch'egli descrive con un trittico di luce:

Stefano

«E dette queste parole, s'addormentò nella morte» (At. 7, 59).

1. S'addormentò nella morte. - Quant'è calmo! Perché, certo, uno può anche dormire un sonno agitato. Ma allora non si può dire che «si addormenta nella morte». Dormire, calmi, quest'è un simbolo della pace. Quant'è calmo! quale pace! Doppiamente, per il contrasto: una folla furibonda che digrigna i denti...; e lui? egli dorme. Il Suo Maestro e Signore dormiva nella barca, mentre la tempesta infuriava (Mc. 4, 35 ss.). E ora il discepolo Lo imita: ...dormire in quel momento!

2. S'addormentò nella morte. - Quanta potenza! E quanto impotente d'altro canto, quanto impotente sei tu, mondo empio, con tutta la tua rabbia e il tuo schiamazzo! Di cosa sei capace? Vedi qui di cosa sei capace: egli dorme! Diventa pur insonne tu per rabbia, metti in sconquasso tutto; ma non lui, non uno che dorme. Quanta potenza per dormire in quel momento! E non solo poter dormire in quel momento, ma poter mettersi a dormire in quel momento! Quanto poco ci vuole di solito per disturbare il sonno di un uomo: ma poter dormire a quel modo! Quasi sei ridicolo, o mondo, con la tua impotenza. Egli dorme. Il sonno lo distacca da tutto. Egli non fa resistenza! No, tutt'altro, dorme. Non ti risponde: dorme! Non bada affatto a te: dorme. Egli è come in un mondo lontano, come assente: dorme.

3. E, dette queste parole, s'addormentò nella morte. - Quali parole? Eccole: «Signore, non imputare loro questo peccato». Allora è con questa formula che uno si addormenta. Come si dice a un bambino che deve dire una preghiera a voce alta e poi addormentarsi, così anche Stefano si addormentò, e così diceva: «Egli pregava per loro!». Per se stesso ha pregato tante e tante volte: tutta la sua vita fino all'ultimo e le sue sofferenze erano una preghiera per se stesso. Ora non rimane che un momento, un minuto ancora egli prega per i suoi nemici. Però bisogna ammettere che più breve è il tempo che rimane, e più facile riesce il decidersi di pregare per i propri nemici: se egli avesse dovuto vivere con loro più a lungo, forse non sarebbe stato facile pregare per loro.

Ma noi impariamo da lui. Pregare per se stessi, pregare per i nostri nemici: allora ci si addormenta in pace.

Dormi allora, dormi in pace...

«Essi videro il suo volto come il volto di un Angelo...» (At. 7, 15): così, nella morte.

Per 1800 anni egli è stato celebrato e lodato, ma questo gl'importa ben poco! - ora dorme!

La Festa di Natale comincia e finisce con gli Angeli: ieri gli Angeli annunziarono ch'era nato il Salvatore - oggi lo testimonia S. Stefano: «Ed essi videro il suo volto come quello di un Angelo».

E se qualcuno dice: «Angeli, angeli? chi li ha mai visti? son cose da bambini!», rispondo: «Smettila con le chiacchiere, stai zitto! Cerca soltanto di divenire come Stefano, fa' che il tuo volto sia come il volto di un Angelo... Allora arriveremo anche noi a vedere gli Angeli!» (Diario 1851-1852, X4 A 434 e X4 A 438; tr. it. n.ri 3570 e 3574, t. XI, p. 77 ss.).

Testi questi, come ognun vede, di un timbro pari - perché da essi attinti - ai testi più commossi della mistica cattolica che Kierkegaard ammirava e leggeva con gaudioso trasporto a conforto e stimolo di suprema speranza nell'isolamento in cui la sua ferma contestazione l'aveva condannato.

Aveva scritto: «Il cielo aperto lo vede soltanto il Cristiano, specialmente il martire; per lui il mondo anche si chiude sempre di più. Le due cose si corrispondono. Una delle due: o a chi si apre il mondo si chiude il cielo, o a chi si chiude il mondo il cielo si apre. Tocca ora a te scegliere» (Diario, 1851-1852, X4 A 436; tr. it. nr. 3572, t. IX, p. 79).

Egli, la sua morte, l'aveva preparata giorno per giorno e l'attese e l'accolse con gioia nella speranza esultante dell'incontro con Cristo in Paradiso: «Ho la sensazione di diventare un angelo, di mettere le ali ed anche (come certamente succederà) di posarmi su una nuvola cantando: Alleluia, alleluia, alleluia!» (Diario, tr. it., Appendice A, t. XII, p. 98).


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2. Sorpresa e attesa cristiana della morte in Sören Kierkegaard

«Ut moriens viveret, vixit ut moriturus»[1]

Per il cristiano Kierkegaard, come per ogni cristiano autentico conscio dellamalitia huius mundi e della propria miseria - si tratti anche di spiriti eccelsi come Agostino, Tommaso d'Aquino, Taulero, Pascal... - il pensiero della morte era dei più familiari, perché esso indica l'orizzonte del proprio essere: come lo era (posso dirlo) anche per mia madre, umile contadina, che mai dimenticava la sera le preghiere per i defunti: De profundis, Requiem... Nei nostri paesi friulani poi, quando muore qualcuno, il defunto è vegliato in preghiera l'intera notte non solo dai parenti e dagli amici, ma a turno da tutte le famiglie con una partecipazione di fede che lenisce il dolore e illumina l'anima.

Il pensiero della morte era dei più attuali e vivaci per Kierkegaard: da un lato i frequenti lutti familiari - poiché nella sua prima giovinezza vede morire ben cinque tra fratelli e sorelle e poi la madre (1834) e infine il padre (1838) - e dall'altra parte la sua indole malinconica e la religiosità profonda. È sintomatica a questo riguardo l'esperienza del Crocifisso ch'egli espone nel Diario, mentre scrive il suo capolavoro cristologico ch'è l'«Esercizio del Cristianesimo»: «Prendi un bambino che sia stato guastato dalle chiacchiere e da quell'insegnamento a filastrocca che Cristo è stato crocifisso... Prendi cotesto bambino, presentagli dei ritratti di uomini celebri: un uomo a cavallo col cappello a tre punte, Alessandro, Napoleone e simili, e mescola queste immagini con quella del Crocifisso, il bambino domanderà come per le altre: «Questo chi è?». Dì allora: «Era l'uomo più amoroso che sia mai esistito». Il bambino domanderà: «Ma allora chi l'uccise e perché?». Oh, se anche quando sarà diventato vecchio, avesse l'uomo conservato qualcosa della sua infanzia! Che commozione non proverebbe quando, passando davanti a un rigattiere che tiene in vetrina delle figurine di Norimberga, vedesse questa frammischiata alle altre!»[2].

La morte è certamente la fine, l'uscita dal tempo, e per questo essa è misteriosa come la nascita ch'è l'ingresso nel tempo e come il tempo stesso che le contiene entrambi: per chi non ha fede, la vita è una pausa fra questi due nulla che ogni uomo riempie come crede, per vincere il vuoto della noia e della disperazione. La morte è il fatto esistenziale supremo, più della nascita: la nascita non ha nulla dietro a sé e tutto in avanti, la morte ha tutto, molto o poco, dietro a sé e nulla davanti, nulla di quella vita di cui è morte. Possiamo vedere la morte e descriverla come fa D'Annunzio nel Trionfodella morte: più esattamente vediamo i morti e descriviamo quel loro stato d'inerzia e distanza infinita: non possiamo vedere e descrivere la morte ch'è «l'esistenziale essenziale» ossia radicale, poiché in essa si compie l'esito della nostra libertà, si attua la verifica del senso della vita, si coglie l'approdo del suo mistero. È il mistero più primitivo dell'incontro supremo dell'amore col dolore come, per la madre del ragazzo, d'annunziano che appena scopre la misera spoglia del figlio dà in un grido, come per svegliarlo: «Figlio! Figlio! Figlio!», seguito da un canto: «Ella cantava il suo dolore con un ritmo che si elevava e si abbassava costantemente come la palpitazione cordiale... Era l'eloquio melodioso del sacro dolore che rinveniva spontaneamente nelle profondità dell'essere, quel ritmo ereditario su cui le antiche madri avevano modulato il loro pianto»[3]. Attingendo il tempo essenziale dell'essere, il Poeta aveva sfiorato l'enigma esistenziale ma ritraendosi subito, come sempre, di fronte all'Invisibile. Perché non vedeva in quella fine la presenza di attesa dell'eternità.

Più cristiano, ai nostri giorni di stordimento tecnologico e sociologico, è il paradigma della morte in «Il Gattopardo» di Tomasi di Lampedusa che si apre con le «zaffate dolciastre» del misero cadavere, rinvenuto nel giardino, di un giovane soldato del quinto Battaglione Cacciatori ferito nella zuffa di S. Lorenzo e venuto a morire sotto un albero di limone, e si chiude con la morte del protagonista, il principe Salina. Qui la presenza e l'attesa della morte si aprono alla luce, attorno all'agonizzante: «Fra il gruppetto ad un tratto si fece largo una giovane signora; snella, con un vestito marrone da viaggio ed ampia tournure, con un cappello di paglia ornato da un velo a pallottoline che non riusciva a nascondere una maliziosa avvenenza del volto. Insinuava una manina guantata di camoscio fra un gomito e l'altro dei piangenti, si scusava, si avvicinava. Era lei, la creatura bramata da sempre che veniva a prenderlo: strano che così giovane com'era si fosse arresa a lui; l'orario di partenza del treno doveva essere vicino. Giunta faccia a faccia con lui sollevò il velo, e così, pudica, ma pronta ad essere posseduta; gli apparve più bella di come mai l'avesse intravista negli spazi stellari. Il fragore, del mare si placò del tutto»[4].

La morte è una «partenza» quindi e pertanto anch'essa una speranza di arrivo e d'incontro.

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Non così per il pensiero contemporaneo, al quale Kant ha segnato l'essere col limite dello spazio e del tempo.

Infatti dopo le distruzioni sistematiche della Critica della ragione Pura, i postulati della Critica della ragion pratica - fra cui anche l'immortalità personale - dovevano afflosciarsi come foglie autunnali. L'uomo tutt'intero cadeva preda del tempo nell'orizzonte insuperabile della morte: l'essere è commensurato, anzi consustanziato, al tempo e la formula «essere e tempo» (Sein und Zeit) si evolve logicamente nella formula: «l'essere è il tempo» (Sein ist Zeit)[5] e il destino dell'uomo è ricacciato nel fato cosmico ove la storia «passa» in necessità a partire dal caso. In questo concordano conHeidegger sia Hegel come J. Monod, sia Hitler come Stalin.

Le tappe dell'analisi heideggeriana della morte sono semplici esplicitazioni del passo iniziale e stanno agli antipodi di quelle del cristiano Kierkegaard. Nell'Analitica esistenziale di Heidegger, l'esistente ch'è l'uomo è un «essere-nel-mondo» (In-der-Welt-sein) il quale, grazie alla struttura del tempo, è un «essere-per-la-fine» (Sein-zu-Ende) e pertanto un «essere-per-la-morte» (Sein-zum-Tode). Il nuovo concetto (!) di morte si rivela appena come l'ombra del concetto cristiano proiettato sul fondo dal nulla, anzi è la sua negazione nella sconfitta di ogni senso di pena e misericordia. Mentre nel cristianesimo il pensiero della morte avvolge la vita nella pienezza di una speranza di vita eterna, l'essere-per-la-morte la disintegra senza speranza nel dileguarsi irrevocabile della vita nel tempo.

La struttura dello «essere-per-la-fine» ch'è lo «essere-per-la-morte» è riassunta da Heidegger in tre proposizioni: «1. All'Esistenza (Dasein = è l'uomo nel tempo) appartiene fin quando è, un Non-ancora (Noch-nicht) che sarà, cioè una mancanza»[6]. 2. Il giungere-alla-propria-fine di ciò-che-non-è-ancora-alla-fine (la soppressione della mancanza costante ch'è propria dell'essere), ha il carattere del non-esserci-più. - 3. Il-venire-alla-fine include in sé per ogni esistente (Dasein) un modo di essere assolutamente insostituibile»[7] ch'è appunto la morte, la situazione incomunicabile e irrevocabile della morte. Per Heidegger allora l'esistere è un continuo cadere o scivolare dell'esistente nel nulla originario di cui la morte costituisce il fenomeno d'ingresso. Così si potrebbe dire che l'esistente che è s'illumina entrando nell'oscurità, cioè «compiendo» l'ultima sua possibilità ch'è quella di uscire dal tempo, di «togliersi» (in senso hegeliano) dal tempo, ovvero, secondo l'espressione di Heidegger, è la «morte possibile» (möglicher Tod) ciò che raccoglie nel suo scorrere l'essere dell'esistente e Heidegger, unico guizzo in questa tetra analisi della morte, dà l'esempio delle fasi della luna e richiama un detto del primo Umanesimo tedesco: «Appena l'uomo viene alla vita, è già abbastanza vecchio per morire»[8]. Cioè il nulla gli sonnecchia accanto, sempre pronto per ghermirlo. Tutto qui.

Heidegger, non senza sorpresa per il lettore ch'è al corrente della formazione cristiana e cattolica (fu anche, sembra, novizio gesuita) del caposcuola dell'esistenzialismo tedesco, lascia fuori dell'analisi esistenziale della morte ciò che si potrebbe discutere sotto il titolo: «Metafisica della morte». E spiega: «Le questioni, come e quando la morte è entrata nel mondo, quale senso essa può e deve avere come male e sofferenza (als Uebel und Lieden) nel Tutto dell'essente, presuppongono necessariamente non solo una comprensione del carattere metafisico (Seinscharakter)della morte, ma l'ontologia del Tutto dell'essente nel complesso e la spiegazione ontologica in particolare del male e della negatività in generale (überhaupt[9]. Una strada in cui Heidegger non ha voluto incamminarsi.

Così le possibilità dell'esistente sorgono e tramontano nel tempo. Lo conferma un'ampia nota in cui Heidegger, contrappone alla «...antropologia elaborata dalla teologia-cristiana che va vista insieme nella interpretazione della 'vita'» la morte (e così) - da Paolo fino a Calvino[10] - come una «meditatio futurae vitae», le analisi esistenziali mortaliste di W. Dilthey, Simmel, Jaspers, Unger... Come possibile essenziale costitutivo dell'esistente, ch'è l'uomo, «la morte si presenta come la possibilità della semplice impossibilità di esistere. Così la morte si disvela come la possibilità più propria, irriferibile, insuperabile»[11], sempre imminente e incombente, il cui fenomeno primario e rivelativo è l'angoscia - non come sentimento di depressione, ma come riconoscimento di situazione.

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Come in tutto, anche (e soprattutto) sul problema della morte gli esistenzialisti del nostro secolo hanno capovolto la posizione kierkegaardiana, avendo espressamente abbandonato la prospettiva cristiana della vita. Invece per Kierkegaard, come per ogni coscienza cristiana il pensiero della morte diventa, con la fede, corroborante ed illuminante. In essa si rifugia il suo spirito sia per rinfrancarsi nelle crisi del suo intimo come per ritemprarsi nella lotta che l'impegnava su tutti i fronti - dai «liberi pensatori» e miscredenti fino al vescovo Mynster ed ai rappresentanti della Chiesa ufficiale - senza dargli tregua. Anche qui il suo è stato un impegno di estrema fedeltà, portato fino in fondo: il pensiero della morte gli richiama l'impegno della libertà, quella della propria scelta davanti a Dio. L'orrore che porta con sé la morte per l'uomo gli richiama il conforto della Morte redentrice di Cristo, che ha vinto la morte e ci ha portato la salvezza; gli ricorda, l'esempio della morte dei martiri e dei santi («quei gloriosi») che hanno dato con l'accettazione della morte l'ultima testimonianza dell'Amore. Il breve florilegio dei testi, presi in prevalenza dalle riflessioni del Diario[12], intende cogliere alcuni momenti di questa «presenza della morte» nella sua urgenza quotidiana ch'è quella del ladro sempre in agguato e dello sposo che può coglierci nel colmo della mezzanotte, come avverte il Vangelo che perciò ci ammonisce con: Estote parati!

I. - Da Dio dobbiamo imparare cos'è l'amore, perché Egli è Colui che «per primo ci ha amati» (1 Gv. 4,14) - e così Egli è il nostro primo Maestro, il quale coll'amarci c'insegnò l'amore perché noi potessimo amarlo. E quando alla fine ti vedrai preparato il letto di morte; quando ti sarai messo a letto per non alzarti più; quando attorno a te crescerà il silenzio e a poco a poco se ne andranno amici e parenti, e il silenzio crescerà perché non resteranno che i più intimi; quando i più intimi se ne andranno anch'essi e il silenzio crescerà, perché non vi saranno che gli intimissimi;... quando poi anche l'ultimo si sarà allontanato, uno solo resterà ancora al letto di morte: Colui, che era il primo, Dio (nr. 1384).

2. - In pericolo di morte uno può prendere delle risoluzioni sante. Ma appena il pericolo è passato, si trova che si potrebbe avere la stessa cosa più a buon mercato - senza accorgersi che così non si potrà avere più la «stessa» cosa [...]. Ma si dirà: «Nessuno può sopportare di essere continuamente in pericolo di morte...». E perché no, se questa fosse in fin dei conti la condizione per tenere salda la risoluzione santa!? (nr. 1469).

3. - «Videro il volto di Stefano come il volto di un angelo» (At. 6,15). Umanamente si dice del bambino che ha l'aspetto di un angelo; ma dal punto di vista cristiano solo il morente è così. Morire è nascere (nr. 1608).

4. - Morire è l'unica cosa che dà respiro; nello stesso secondo io mi trovo nella mia idealità, perché il mio male dipende dall'essermi sviluppato troppo idealmente per vivere in una cittaduzza. Com'è orrendo vivere in queste condizioni, quando soltanto il morire mi può aiutare. E ogni giorno che vivo, l'invidia del paesino mi si fa più penosa (nr. 1953).

5. - Diventa infelice a tal punto che ogni sera, per poterti riposare, debba trovare il tuo rifugio nel pensiero della morte, e poi comincia ad angosciarti per il giudizio. Solo così potrai dare cristianamente importanza all'eternità (nr. 1913).

6. - La mia salute deperisce di giorno in giorno: forse fra poco avrò finito di vivere[13]. Ma non temo la morte. Ho imparato, come i soldati romani, che esistono cose peggiori (nr. 2042).

7. - Per tema di una predica del venerdì si potrebbero prendere le parole di S. Paolo ai Filippesi: «Il vivere per me è Cristo», - fermandosi al punto che dice: «...e il morire un guadagno (Fil. 1,21) (nr. 2140).

8. - Si salta dalla sfera etica nell'estetica quando, parlando della morte, si dice che la cosa più dura non è la morte nostra o che siamo noi che dobbiamo morire, ma la morte dei nostri amici. Errore, perché l'unica cosa seria è che son io che devo morire, e poi... al giudizio!

9. - Trascurando l'aspetto etico del problema, si sbaglia la «pointe» della morte, e si finisce in quelle chiacchiere se la cosa più dura sia perder qualcuno o dover morire noi (nr. 2203).

10. - La maggior parte degli uomini vive dalla culla alla tomba, trascinati dal vortice della vita, senza tregua, nel medium dell'inarrestabile (la temporalità, il puro quantificare, ecc.). Poi quando viene la morte e li ferma, fanno attenzione al Cristianesimo e rimpiangono di non esserselo appropriato prima; ottengono per via di questo rimpianto un rapporto al Cristianesimo, e poi muoiono [...].

Cos'è quel che rende la morte la «situazione» per divenir cristiani? È questa cosa conclusiva e conclusa che ora tutto è finito: ciò aiuta a fare l'offerta assolutamente all'Assoluto. Se non si ha il coraggio di dire a un morente che la morte è imminente, ma lo si mantiene nell'illusione ch'egli guarirà, costui non può avere la «situazione» della morte.

Anche se si tratta del cristiano più autentico e serio che sia mai stato, anche per lui sarà soltanto nella morte che diverrà assolutamente vero ch'egli è cristiano (nr. 2961).

11. - Come Cristo nel convito, quando la Maddalena Lo unse coi profumi, disse: «Essa l'ha fatto per la mia sepoltura» (Gv. 12,7); così, immediatamente dopo il Suo ingresso in Gerusalemme, Egli sospira: «L'anima mia è triste fino alla morte» (Mt. 26,38). Sempre il pensiero della morte! (nr. 2975).

12. - La coscienza del peccato lega a Dio.

Allora tutti abbandonarono Cristo, lo stesso Apostolo lo rinnegò: solo il ladrone sulla croce gli rimase fedele fino alla fine e nell'ultimo istante: ma lo legava anche la coscienza del peccato e la situazione della morte (Mt. 26,46 e 49 ss.) (nr. 3024).

13. - Punto di vista della cristianità.

In generale si desidera ora una morte rapida - mentre nelle Litanie dei Santi si prega Dio perché, fra gli altri mali, ci liberi da una morte improvvisa!

Si condanna come una colpa, come una cosa indegna di un cristiano, che un uomo si consoli col pensiero della morte, che abbia nostalgia di uscire da questa vita. Sì, grazie, è un bel Cristianesimo! Il Cristianesimo consiste proprio nel pensiero che la morte è l'unica nostra consolazione essenziale: il giorno della morte è il vero dies natalise la nostalgia dell'eternità deve sempre ingigantirsi. Ma la verità è che si idolatra l'attaccamento sensuale alla vita; e quando si parla di desiderare la morte, s'intende la condizione di colui che probabilmente neppure crede a un'immortalità. E questo nella cristianità, nella quale siamo tutti cristiani! (nr. 3061).

14. - Mortificarsi è considerare tutto come lo si vedrà nel momento della morte; dunque avere la morte il più vicino possibile. Anche il piacere più raffinato e seducente non sarà - nel momento della morte - completamente indifferente se tu l'hai goduto o no? Ed invece ogni buona azione - (per l'amor di Dio, non trascurare mai di farla!) nell'ora della morte sarà per te della massima importanza il non averla omessa. Ahimé, se qualcuno potesse comportarsi così! (nr. 3108).

15. - Ciò che lega a Cristo.

C'è un potere che si chiama peccato. Se tu vuoi salvarti da esso, corri allora a Cristo. Egli è salvezza, benché umanamente parlando sia una salvezza amara; ma se il peccato è in verità per te più amaro, allora non c'è da esitare.

Verrà un'ultima ora, quella della morte. Allora Cristo ti promette un bene infinito, la beatitudine del cielo. Vorresti tu farne a meno per qualcos'altro? Ebbene, a te ora di scegliere Lui. Ma allora se anche Egli si riserva di disporre della tua vita quaggiù, Egli te la rende un po' più pesante: ma anche ti aiuta a portarla (nr. 3109).

16. - La situazione della confessione assomiglia a quella della morte: trovarsi soli davanti a Dio.

Noi teniamo il più possibile lontano il pensiero della morte, non vogliamo che essa ci disturbi - mentre il Cristianesimo ce la vuol portare il più vicino possibile.

Confessalo: è così che noi viviamo; rispetto al Cristianesimo noi stiamo nelle condizioni di colui che s'inserisce in una Compagnia della buona Morte, come un affare possibile, e facciamo conto di diventare cristiani in punto di morire. Però come si vive, così si muore (nr. 3298).

17. - S. Paolo morente.

La leggenda racconta che quando S. Paolo fu decapitato, il suo capo gridò ancora per tre volte il nome di Cristo.

Ciò significa che la sua predica cominciò proprio con la sua morte. Di solito si dice che in morte si trova l'immagine dell'amato nel cuore dell'amante, ma l'attività di S. Paolo era di predicare la parola (nr. 3371).

18. - Il timore della morte.

È stato tolto dal Cristianesimo e sostituito col timore del giudizio: è un'acutizzazione, ma anche un progresso. E non si può inculcare abbastanza che, nell'ambito dello spirito, sempre tutto ciò ch'è realmente un progresso si riconosce dal fatto ch'è un'acutizzazione. Spiritualmente non si fanno progressi dove la cosa diventa più facile; no, ciò che facilita, eo ipso non è un progresso, per quanto sia strombazzato per tale (nr. 3602).

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La Postilla di Johannes Climacus mette il problema della morte al primo posto nell'analisi della soggettività ossia del «diventare soggettivo» ch'è tensione etica mediante la quale ogni singolo realizza la propria interiorità davanti a Dio, quindi in polemica con l'identità di esterno e interno su cui poggia la dialettica hegeliana e l'autogiustificazione della storia universale. Di qui l'ammonizione: «Che giudizio farà l'etica, se il diventare soggetto non fosse il compito supremo ch'è stabilito per ogni uomo?»[14]. E diventare soggetto è, per Kierkegaard, il compito cristiano di essere il Singolo, ossia di distaccarsi dall'anonimato della Folla e di prendere coscienza della propria responsabilità come persona nell'indipendenza della propria libertà. Per questo Kierkegaard rigetta come immorale la legge del numero ossia la dialettica quantitativa e difende «la casta purità dell'etica» la quale si attua a proprio rischio e pericolo mediante l'interiorità del Singolo: «ch'è una quieta consacrazione a Dio che non anticipa nulla ma impegna tutto» e perciò «...rischia di diventare un puro nulla, di diventare un Individuo Singolo, da cui Dio eticamente tutto esige [...]. Ma così tu guadagnerai anche che Dio per tutta l'eternità non ti potrà sfuggire, perché soltanto nell'etica consiste la sua coscienza eterna» (l.c., Zanichelli I, p. 342 s., Sansoni 337).

L'esempio che viene per primo in quest'analisi della soggettività etico-religiosa, fondata sulla priorità metafisica dell'Assoluto e perciò agli antipodi della soggettività antropologica dell'immanentismo, è appunto «cosa significa il morire», non semplicemente dal punto di vista estetico e retorico, come nei drammi e nelle prediche, ma per il Singolo esistente (Zanichelli 339 ss., Sansoni 347 a ss.). Il primo e fondamentale carattere è la sua incertezza ch'è il nodo della considerazione esistenziale della morte, come già per gli antichi scrittori religiosi. Qui Kierkegaard svolge un tipo di riflessioni che saranno riprese da Tolstoi sulla nota novella di La morte di Ivan Ilijc[15],ma in una forma più lassa. Il nodo per Kierkegaard è subito che «...questo, che io muoio non è per me affatto un qualcosa in generale; lo sarà per gli altri. L'io non è affetto per me qualcosa in generale, forse lo sarà per gli altri». Perciò la morte, come la situazione esistenziale kat'exokén non può essere «compresa» dal e nel pensiero formale astratto e come un concetto a sé stante, ma come l'idea ch'è sempre presente, sempre incombente al Singolo. È così che l'idea della morte può trasformare l'intera vita di un uomo e che la vita diventa, ad ogni momento una preparazione alla morte.

Ma che significa, si chiede Kierkegaard, questo «prepararsi alla morte»? E precisa: «C'è un'espressione etica per il significato della morte e un'espressione religiosa per la vittoria sulla morte?». E dichiara: «Si esige una parola liberatrice che spieghi il suo mistero, e una parola vincolatrice, con la quale il vivente si possa difendere contro la rappresentazione incessante della morte»[16]. Così il «mistero della morte» resta ed è appunto - la sua incertezza - ciò che acuisce l'impegno della libertà.

La risposta kierkergaardiana si approfondisce nelle riflessioni che immediatamente seguono: «(Che significa) per esempio essere immortale»? (Zanichelli 364, Sansoni 350 a) e l'abbiamo letta in forma diretta nelle riflessioni del Diario. Esse vanno integrate con quelle che incontriamo in Anti-Climacus soprattutto nell'Esercizio del Cristianesimo[17]. Già nella Prefazione alla Malattia mortale (1848) si legge che «...Nella terminologia cristiana la morte è la espressione della più grande miseria spirituale, eppure la guarigione consiste proprio nel morire, nel mortificarsi». Perciò nella prospettiva cristiana della grazia e della risurrezione l'unica «malattia mortale» è il peccato e l'unica vera morte è la morte eterna nella dannazione e l'unica cura per la guarigione in questa vita è perciò la contemporaneità del credente con Cristo. All'esposizione di questa cura per la «guarigione radicale» (Helbredelsen fra Grunden) attende appunto l'Esercizio del Cristianesimo. Basti osservare, per l'assunto di questi appunti, che mentre nella Malattia mortale Kierkegaard approfondisce la dialettica del peccato (come morte dello spirito) alla luce della fede, già iniziata nel Concetto dell'angoscia, nell'Esercizio del Cristianesimo espone la dialettica della guarigione e della salvezza. È Cristo che ha vinto la morte: «...beato colui che non si scandalizza in Me ma crede» e quando Gesù dice: «La ragazza non è morta, ma dorme» (Matt. 9,24). E Gesù vince attraverso la morte, trasfigurando la morte nella vita: «E come ora un nome solo è pronunciato fra i viventi, il Nome di Nostro Signore Gesù Cristo, così c'è anche un solo morto il quale tuttavia vive, Nostro Signore Gesù Cristo, colui che dall'alto vuole attirare tutti a sé» (ed. Studium, p. 210; ed. Sansoni, p. 766 a).

Ecco l'essenza del Cristianesimo: bisogna prima morire a se stessi per poter vivere in Dio nell'eternità, come quando Dio pretese da Abramo che sacrificasse l'unico figlio Isacco con le proprie mani: «E quando tu sei morto ovvero morto a te stesso e al mondo, tu sei nello stesso tempo morto a tutta l'immediatezza in te stesso, anche alla tua ragione. Cioè quando ogni fiducia in te stesso o nel soccorso umano, e anche in Dio in senso immediato, quando ogni probabilità è esclusa, e quando sei entrato nella notte oscura - è questo anche la morte che descriviamo - allora viene lo spirito che vivifica e porta la fede»[18].

Così la morte in Kierkegaard, come nei mistici cattolici, prima nel corpo e poi nello spirito, diventa il cammino ed il passaggio della «via stretta» per la purificazione finale dell'anima.

E Kierkegaard rimase fedele a questi principî cristiani, anche sul letto di morte. L'amico Emil Boesen, l'unico ammesso alle visite, annota il giovedì 18 ottobre 1855: «Quando gli domandai se poteva pregare in pace: "Si, lo posso e domando anzitutto il perdono dei peccati, che tutto mi sia perdonato. Poi chiedo a Dio che mi scampi dalla disperazione nell'ora della morte". Spesso mi viene in mente il versetto che dice: "Sia bene accetta a Dio la mia morte!... Chiedo ancora ciò ch'io tanto desidero, di poter sapere un po' a tempo, quando la morte sarà imminente"». Era un giorno bellissimo. Gli dissi: «Quando ti metti a parlare così, hai un aspetto tanto fresco come se dovessi alzarti per uscire a passeggio». - «Sì, c'è soltanto l'impedimento che ormai non posso più camminare. Tuttavia c'è un altro modo d'essere trasportato, cioè essere sollevato in aria: ho la sensazione di diventare un angelo, di mettere ali ed anche (come certamente succederà) di posarmi su d'una nuvola cantando: Alleluia, alleluia, alleluia!»[19].

(1977)

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[1] Epigrafe del Card. Auxia di Poggio, spagnolo, nella Chiesa di S. Sabina sull'Aventino in Roma (all'inizio della navata destra).

[2] Papirer 1848, IX A 395; tr. it. nr. 1975. L'esperienza del Crocifisso è messa al centro dell'Esercizio (Nr. III) e compare, anche nella prima Dissertazione di H. H.: «È permesso ad un uomo lasciarsi uccidere per la verità?» (S.V. XI, 71 ss.).

[3] G. D'annunzio, Trionfo della Morte, Milano 1918, p. 420.

[4] G. tomasi di lampedusa, Il Gattopardo, Milano 1963, P. 170.

[5] Su questo sviluppo del Todesproblem in funzione del Seinproblem, di Heidegger, si rimanda a: H. Feick, Index zu Heideggers 'Sein und Zeit', Tübingen 1961. Nella vasta letteratura heideggeriana ci permettiamo di segnalare: James M. Demske, Sein, Mensch, Tod, Das Todersproblem bei Martin Heidegger, Freiburg-München 1963. È in questo studio sintomatica la «quasi» totale assenza di Kierkegaard che figura nella bibliografia unicamente con la Postilla.

[6] Ausstand (corsivo di Heidegger). Ausstehen è letteralmente «star fuori», contrario diInnestehen ch'è «star dentro». Nel progetto esistenziale heideggeriano della fine come il «Tutto» (Ganze), ciò che sta fuori, è ciò che ancora manca.

[7] M. Heidegger, Sein und Zeit, § 48: Ausstand, Ende und Ganzheit; V Aufl. Halle a.S. 1941, p. 242.

[8] «Sobald ein Mensch zum Leben kommt, sogleich ist er alt genug zu sterben» (Op. cit., p. 245).

[9] Op. cit., § 49; ed. cit. p. 248. Per l'altro Dioscuro dell'esistenzialismo tedesco K. Jaspers, la morte nel senso della «mia» morte è la situazione-limite (Grenzsituation) come specchio della mia esistenza e il termine verso cui ognuno si muove (Philosophie, Berlin 1956, Bd. II, p. 220 ss.).

[10] Perché soltanto fino a Calvino?

[11] «Der Tod ist die Möglichkeit der schlechtinnigen Daseins Unmöglichkeit. So enthüllt sich der Tod als die, unbezuegliche, unüberholbare Möglichkeit» (Op. cit., § 50, p. 250).

[12] I numeri fra parentesi rimandano alla nostra trad. it., III ed., Brescia 1980-83 (in 12 voll.). Nelle Opere pseudonime il problema della morte sembra meno incisivo che nel Diario, perché trattato quasi sempre in funzione dell'angoscia e della disperazione, ma questo non giustifica la sua assenza nel Terminologisk Register di J. Himmelstrup (S.V.: Bd. XV, p. 511 ss.). Fondamentale, per lo studio del problema della morte nel Diario, è ora l'Indice di N. J. Cappelörn: Bd. XIV: A-F, Copenaghen 1975 (s.v.: «Död», p. 347 ss.).

[13] Kierkegaard credeva di dover morire a 33 anni, come Cristo (cfr. Diario, 1847-48, VIII A 100; nr. 1394, t. IV, p. 34 s.).

[14] Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica, tr. it. nella Coll.: «Filosofi Moderni», Bologna, Zanichelli, 1962, t. I, p. 327. Anche in «Opere», Sansoni, Firenze 1972, p. 328 b. Qui K. polemizza direttamente contro il principio di Schiller-Hegel che guida lo storicismo moderno: «La storia del mondo è il giudizio del mondo» (Die Weltgeschichte ist als das Weltgericht - Cfr.: Grundlinien der Philosophie des Rechts, § 340).

[15] È ricordato da M. Heidegger, Sein und Zeit, ed. cit., p. 254.

[16] Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica, ed. Zanichelli, cit., p. 359 ss. ed. Sansoni cit., p. 349 ss.

[17] Le pagine rimandano ancora alla nostra tr. it. nella doppia edizione: Studium, Roma 1971 e Sansoni, Firenze 1972.

[18] Per l'esame di se stessi, III: «È lo Spirito che vivifica» (1º giorno di Pentecoste); trad. it. in: «Opere», Sansoni, Firenze 1972, p. 937 a.

[19] Si trova nella trad. del Diario, ed. cit., t. XII, p. 96 ss.


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3. La libertà umana e l'eternità dell'inferno in Sören Kierkegaard

Per il fondatore dell'esistenzialismo la libertà è l'essenza stessa dello spirito, la più alta partecipazione dell'uomo alla natura di Dio di fronte alla quale Dio stesso sta come in attesa ed in ascolto per la risposta di amore da parte dell'uomo come nell'Annunciazione dell'Angelo a Maria. Anche in questo la posizione di Kierkegaard si mantiene fedele, in commosso raccoglimento, al testo biblico evitando ogni sottigliezza di controversie teologiche.

Come la libertà partecipa all'infinità di Dio così che l'uomo può decidere della qualità del suo essere con Dio nella scelta del bene e contro Dio con la conversio ad creaturas, così con la libertà l'uomo «dirime» la sua eternità e la qualità della vita che l'attende dopo la morte. La vita dopo la morte si presenta come l'attuazione compiuta della sua libertà, la realizzazione della sua decisione radicale: o con Dio, gli Angeli ed i Santi o contro Dio o senza Dio con gli Angeli ribelli e con coloro che si sono curvati sul finito nella reduplicazione del proprio io.

La formula di Kierkegaard sull'eternità delle pene dell'inferno, che non ha mancato di turbare e scandalizzare la filosofia illuministica e sembra turbare anche oggi certi teologi di professione, è molto drastica ma altrettanto illuminante. Dio non sarebbe Dio se gli fosse indifferente la decisione dell'uomo e l'uomo non sarebbe uomo cioè spirito libero se la sua decisione nel tempo non avesse rilevanza e conseguenza eterna.

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Questa dottrina è costante nel grande danese da principio alla fine ed il Diarioè la fonte principale delle sue riflessioni sull'argomento. Questa sua ferma teologia dei Novissimi ha il saldo nucleo esistenziale nel dogma dell'Incarnazione secondo il quale Dio è venuto nel tempo affinché l'uomo, perduto dal peccato all'inizio del tempo, si possa salvare nel tempo dalla morte eterna. Una volta ammesso che una salvezza eterna si può decidere nel tempo, si deve anche ammettere che nel tempo si può decidere una dannazione eterna.

Ma leggiamo direttamente da Kierkegaard qualche testo fra i più espliciti e significativi:

«Nella teologia antica si sosteneva che, siccome il peccato era contro Dio, esso era così grande che le pene dell'inferno dovevano essere eterne. Più tardi si trovò che ciò era sciocco, perché il peccato rimaneva ugualmente grande, sia che fosse contro Dio o no. Ma questo è un punto di vista più sciatto e materiale» (VIII A 662, nr. 1707; tr. it., t. IV, p. 153s.).

«Una volta eliminato l'orrore dell'eternità (o eterna felicità, o perdizione eterna!), il voler imitare Gesù diventa in fondo una fantasticheria. Perché soltanto la serietà dell'eternità può obbligare, ma anche muovere un uomo, a compiere e a giustificare il suo passo. Ma poiché noi tutti viviamo press'a poco in quell'idea, cullandoci nell'indolenza che tutti saremo salvi, le canaglie come i giusti, colui che si conservò fedele a Dio nella tensione di tutte le sue forze come chi alquanto mercanteggiò; ...tutti, tutti noi saremo senz'altro quei rispettabili giusti: per questo gli uomini hanno in fondo ragione di trovare che è fantastico e ridicolo voler tutto sacrificare per seguire Gesù. Ciò infatti che dà serietà è l'aspetto etico. Eliminare l'aspetto etico, fare per es. di Cristo un ideale astratto per volergli assomigliare a questo modo, è un prenderlo invano. Sono in ballo il Paradiso e l'Inferno, e per questa ragione voler imitare Gesù, cioè essere salvati: ecco dov'è la serietà!» (X1 A 455, nr. 2351; tr. it., t. VI, p. 42).

«Oh, come in un'epoca di confusione e di rilassatezza, un governante scoraggiato direbbe: non si farà nulla, fino a quando non si sarà ristabilita la pena di morte - così dovrebbe dire un governante religioso dei nostri tempi: non si farà nulla finché non si ristabilirà sul serio la fede nelle pene dell'Inferno» (XI1 A 126, nr. 3907; tr. it., t. X, p. 136s.).

La serietà del Cristianesimo è quindi per Kierkegaard tutta concentrata nel pensiero dell'eternità: «...è in questa vita che si decide la tua eternità». Al dubbio o negazione illuministica di Lessing che non si può fondare una salvezza eterna su di un fatto storico, accaduto nel tempo, come la vita di Gesù Cristo... il Cristianesimo risponde ch'è precisamente questo il «paradosso» della fede. Alla filosofia che «può negare che una cosa eterna possa essere decisa nel tempo», il Cristianesimo risponde che questa decisione è il «salto» più intensivo che va posto nel «momento», perché nessuno sa se avrà ancora un'ora di vita.

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Le due opere dello pseudonimo Johannes Climacus attaccano perciò direttamente la tesi scettica di Lessing e la dissoluzione immanentistica di Hegel. lspan style="font-size:9.0pt;font-family:Verdana">Categorica al riguardo è la tesi della Postilla conclusiva non scientifica (1846) contro la filosofia dell'immanenza secondo la quale non si può pensare un'infelicità eterna:

«Ora viene il Cristianesimo e pone l'alternativa: "O una felicità eterna o una pena eterna, e la decisione si fa nel tempo!". Ma che fa allora l'intelligenza umana? Essa, come si dice nelle Briciole, non presta attenzione al fatto che si tratta qui di un discorso difficile e che l'esigenza di pensarlo è il proposito più difficile che si possa fare. No, l'intelligenza preferisce dire una piccola bugia e così la faccenda va avanti. Essa prende il primo membro dell'alternativa (la felicità eterna) e lo interpreta mediante il principio dell'immanenza il quale esclude precisamente l'alternativa, e così essa pensa il tutto rendendosi incapace di pensare l'altro membro (della pena eterna) col dichiarare ch'è impensabile, e così si contraddice da sé e mostra di non essere riuscita a pensare neppure il primo membro dell'alternativa (la felicità eterna). Il paradosso del Cristianesimo consiste in questo, ch'esso sempre usa il tempo e la realtà storica in rapporto all'eterno, mentre il pensiero proclama il metodo dell'immanenza» (tr. it., t. I, p. 291).

Nell'ultima parte dell'opera Kierkegaard si appella ai «...teologi ortodossi più antichi i quali difendevano l'eternità delle pene dell'inferno con l'argomento che la gravità del peccato esige una siffatta pena e la gravità è a sua volta determinata dell'essere il peccato contro Dio» (tr. it., t. II, p. 329).

Il pensiero dell'eternità dell'inferno ritorna nel suo capolavoro cristologico ch'è l'Esercizio del Cristianesimo del 1850 ove denunzia il trionfalismo della cristianità stabilita, neghittosa e mondanizzata, ed invoca il ritorno alla Chiesa militante dell'Imitazione di Cristo come esige il Cristianesimo del Nuovo Testamento:

«Ci fu un'epoca quando esso (il Cristianesimo) esercitava la sua sovranità sugli uomini con autorità divina: quando rivolgeva al Singolo il suo discorso breve, laconico, imperativo: "tu devi!". Quando spaventava ogni Singolo con una severità fin'allora inaudita: l'eternità dell'inferno. Era una severità salutare. In timore e tremore per l'avvenire inevitabile, il cristiano era capace di disprezzare tutti i pericoli e le sofferenze di questa vita come puerilità e buffonate di mezz'ora. Veramente, quella severità era salutare: essa mostrava la verità che essere cristiano significa essere affine a Dio. Questa era la Chiesa militante» (tr. it. di C. Fabro, Roma 1971, p. 286).

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La contestazione di Kierkegaard al principio d'immanenza ed alla teologia liberale, che allora si stava organizzando sugli spalti dell'idealismo e del positivismo, non poteva perciò essere più radicale. Anche su questo punto egli ha il tono degli antichi scrittori spirituali e sente l'eco delle parole del Vangelo di Cristo giudice:

«Immaginiamoci il più grande delinquente che sia mai esistito e che la fisiologia del suo tempo inforcasse un nuovo paio di occhiali ancor più magnifici di quelli di prima, così da poter "spiegare" il delinquente e mostrare che tutto era necessità di natura, che il suo cervello era troppo piccolo, ecc... Che errore in questa assoluzione da ogni ulteriore accusa, in confronto del giudizio che di lui fa il Cristianesimo: "Egli andrà all'inferno, se non si convertirà!"» (VII A 182, nr. 1267; tr. it., t. III, pp. 241ss.).

Anche per questo egli aveva proposto come titolo delle carte inedite che formano il grande Diario: Il libro del Giudice.