mercoledì 30 novembre 2011

ETTY HILLESUM 2



Fratel MichaelDavide
Etty Hillesum: Dio matura.
Un viaggio in quaranta tappe
Edizioni La Meridiana, Molfetta (Bari) 2005

O Àltera Notte

Il volto di Gesù divenne altro (Lc 9, 29)! Testo inesauribile, fonte di contemplazione e programma di vita mai compiuto su questa terra ma che, come dice Paolo, si compirà pienamente solo nella Gerusalemme celeste ove appunto il Signore Gesù «trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso» (Fil 3, 21). Si tratta di passare dalla miseria della nostra condizione alla gloria, si tratta di imitare il Signore Gesù nel suo «esodo» (Lc 9, 31) di cui parla con Mosè ed Elia e che si compirà in Gerusalemme.

Ma cosa ci vuol dire la contemplazione di questo mistero nel cammino quaresimale? La prima lettura ci può aiutare a dare una nota particolare al testo. Anche Abram viene condotto da Dio fuori e il suo sguardo si leva verso l’alto, verso le stelle del cielo: è notte! L’indomani il Signore chiede ad Abram di stringere alleanza con Lui attraverso il simbolo della partizione di alcuni capi di bestiame, ed ecco «mentre il sole stava per tramontare» (Gn 15, 12), il buio avanza - quasi come una seconda più temibile notte – e un «oscuro terrore lo assalì» (Gn 15, 12) mentre Dio si prepara a passare come «un forno fumante e una fiaccola ardente» (Gn 15, 17).

Nel testo di Luca vediamo come Gesù conduce fuori, sul monte tre dei suoi discepoli per pregare e proprio mentre pregava il suo volto «divenne altro» (Lc 9, 29), e la sua veste divenne altra - «candida e sfolgorante» (Lc 9, 29) come pure cambiano i suoi interlocutori – sono «Mosè ed Elia» (Lc 9, 30) - . Come già per le bestie preparate da Abram ci si ritrova tre contro tre: sul monte e nella preghiera si crea una sorta di spaccatura terribile tra i discepoli e il Signore Gesù.

Per Luca non si tratta di "trasfigurazione", egli non usa questo termine ma semplicemente si tratta di alterizzazione in quanto si tratta di un diventare altro della sua faccia: il Signore Gesù diventa irriconoscibile a partire da ciò da cui i suoi discepoli partivano per riferirsi a Lui. Tutto ciò avviene evidentemente di notte poiché i discepoli «erano oppressi dal sonno» (Lc 9, 32) e tuttavia vegliarono e restarono svegli e – a fatica – videro la sua gloria. E dopo che Mosè ed Elia partono dopo aver parlato con Gesù del suo prossimo esodo, ecco che Pietro parla ma la sua parola è come mozzata da una seconda notte, una nube e – come già per Abram - «ebbero paura» (Lc 9, 34). Pietro come Abram – come ciascuno di noi – non capisce – anzi fraintende – tentato com’è dal lato estetico di ciò che avviene fino a dire senza sapere cosa dice: «E’ bello» (Lc 9, 33). Pietro si fa ammaliare da una sorta di bel/ben-essere che è proprio il contrario di ciò di cui il Signore Gesù va discorrendo: dall’estetica bisogna passare all’e-statica che fa compiere l’esodo sempre doloroso attraverso il bello verso il giusto!

La notte, le notti per Abram e per Pietro! Sembra che la luce rischia di ubriacarci mentre la notte ci aiuta a continuare il cammino senza fermarci. Si percepisce così tutta la differenza tra Gesù e noi! La fatica di vegliare, di non addormentarsi e la grande paura che viene dal fatto di non capire più nulla, dal fatto di trovarsi davanti ad un altro volto di Gesù, confrontati a qualcosa di talmente misterioso, glorioso – assai pesante – da fare paura, da scioccare profondamente. La lotta contro il sonno è come la lotta per non perdere il controllo della vita, e la paura in certo modo di perdere, di perdersi, di morire…

Il vangelo di domenica scorsa sulle tentazioni di Gesù nel deserto e la grande prova che avverrà nel Getsemani – proprio mentre gli stessi discepoli dormiranno per la tristezza (Lc 22, 45)- ci indica la via per rendere "altra" la nostra vita: attraversare la notte, attraversare le notti. Vivere fino in fondo la paura che viene dalla terribile percezione della lontananza, della distanza, dell’assoluta alterità di Dio e imparare in questa notte a chiamarlo Padre perché egli, per primo, ci riconosce come figli, legati a lui da un’alleanza perenne. In questa alleanza siamo liberati da tutte le nostre aspettative su Dio e aperti alla sua gloriosa rivelazione che non è sinonimo di semplicistica familiarità ma di crescente intimità trascendente… sempre altra e noi sempre altri!

Gesù tra il monte della sua alterizzazione verso il cielo – trasfigurazione – e la sua alterizzazione verso la terra – «sudore come gocce di sangue che cadevano a terra» (Lc 22, 44) – ci addita e ci guida per mano attraverso lo strettissimo passaggio in cui ogni nostra Pasqua si attua: non disperare mai, proprio mai - della misericordia di Dio e arrivare a dire con un verso la professione della nostra fede in Cristo morto e risorto per noi: «Credo alle Notti» (Rilke).

Consapevolezza

Siamo invitati a farci profondamente coinvolgere non solo dalla preghiera del profeta Daniele ma ancora di più dalla sua consapevolezza nitida e netta: «abbiamo peccato e abbiamo agito da malvagi e da empi» (Dn 9, 10). E il Signore Gesù ci promette certo «una buona misura, pigiata scossa e traboccante» (Lc 6, 38) ma direttamente proporzionale alla nostra capacità di usare verso gli altri - solo e sempre - l’amplissima misura di uno sguardo «misericordioso». Attitudine impossibile e sicuramente illusoria ed ingannevole al di fuori di una presa di coscienza sempre più audace della nostra propria "malvagità" ed "empietà".

Troppe volte, troppo spesso, troppo facilmente la nostra consapevolezza – o meglio pseudo-consapevolezza! – riguarda gli altri… siamo persino in grado di parlare dell’umanità ponendo noi stessi fuori di essa. Etty ci ha lasciato la nota di una conversazione tra amici del 19 febbraio 1942 assai interessante: Jan chiedeva con amarezza: cosa spinge l’uomo a distruggere gli altri? E io: gli uomini dici – ma ricordati che sei un uomo anche tu (99). Più volte Etty definisce il suo come un processo interiore (73), un cammino verso l’interiorità che assume sempre di più i contorni di un processo di spiritualizzazione (65) che, comunque, si identifica con una crescente consapevolezza in cui la vita interiore diventa il luogo più adeguato per leggere e intervenire nella storia.

Etty non esita a comprendersi come un piccolo campo di battaglia su cui si combattono i problemi, o almeno alcuni problemi del nostro tempo (49). Quando un amico di famiglia chiese al padre di Etty di intervenire presso di lei per convincerla a riparare in Inghilterra, il padre ebbe a dire: «non vale la pena, sarebbe inutile poiché Etty si è spiritualizzata». E un simile processo di spiritualizzazione non è altro che la consapevolezza sempre più chiara di fare della propria vita un luogo di battaglia per trasformarlo in un piccolo luogo di infinitesimali vittorie: Però stamattina mi sono proprio guadagnata questa gioia interiore, ho dovuto lottare contro l’irrequietezza del mio cuore che batteva all’impazzata. Mi sono lavata con acqua gelida dalla testa ai piedi, e sono rimasta sdraiata sul pavimento del bagno fintanto che non mi sono sentita completamente calma – si fa fatica a non pensare ai monaci del Nord Europa e le loro pratiche ascetiche nei laghi gelati! – Sono diventata una persona «pronta a combattere» (37). Pronta a combattere dopo aver vinto nello sterminato campo della propria paura e irritabilità interiori.

Sembra che ciò che rende capace di affrontare il combattimento è la capacità e la volontà di entrare in contatto con Umanità, Storia Universale e Dolore (49) dopo averle accuratamente incontrate e affrontate nelle pieghe più recondite della propria piccola umanità, della propria minuscola storia, del proprio sempre limitato dolore. Solo allora si può dire: L’unica cosa che si può fare è offrirsi umilmente come campo di battaglia. Quei problemi devono pur trovare ospitalità da qualche parte, trovare un luogo in cui possano combattere e placarsi, e noi, poveri piccoli uomini, noi dobbiamo aprir loro il nostro spazio interiore, senza sfuggire. E di se stessa non trova niente altro da dire se non: io sono davvero molto ospitale, a volte sono come un campo di battaglia insanguinato (49)… campo insanguinato di uno di quei poveri piccoli uomini.

Questo modo di pensare, di sentire e di vivere può veramente offrire un modo assai profondo per interpretare la stessa esperienza del martirio e della misericordia ad oltranza: accettare di accogliere e trasformare interiormente il male che dall’esterno tenta di attanagliarci fino a piegarci alle sue logiche. Ma la vittoria sarebbe impossibile se non ci fosse già stata una fondamentale vittoria sull’illusoria presunzione di essere esenti dal male invece sempre minacciante, serpeggiante. Daniele si offre al martirio ma senza sentirsi migliore bensì colpevole come i suoi persecutori: solo questo atteggiamento audace e veritiero renderebbe impossibile la tristissima e ricorrente realtà della vittima che – appena possibile – si trasforma in carnefice dimostrando così di non avere imparato nulla su se stesso da tutto quello che la vita lo ha obbligato – solo obbligato – a subire.

Dinanzi al dramma crescente e allo sconcerto inevitabile dinanzi al grande dolore umano che si accumula e si accumula, la persecuzione e l’oppressione, l’odio impotente e il sadismo continuo a guardare bene in faccia ogni pezzetto di realtà nemica (114), Etty non esita a dichiarare con forza: ma siamo noi stessi a privarci delle nostre forze migliori col nostro atteggiamento sbagliato: col nostro sentirci perseguitati, umiliati, oppressi, col nostro odio e con la millanteria che maschera la paura (127).

La paura è ciò che spaventa maggiormente Etty! La paura è ciò che spaventava maggiormente il Signore Gesù! L’assenza di paura è ciò che sempre ha spaventato il carnefice di ogni tempo e in ogni luogo. Ma per superare la paura con la sua morsa di terrore e di ansia di sopravvivenza bisogna poter guardare l’esterno – gli altri – dall’interno di se stessi nella piena consapevolezza di non avere motivi reali per temere: In fondo io non ho paura. Non per una forma di temerarietà, ma perché sono cosciente del fatto che ho sempre a che fare con degli essere umani, e che cercherò di capire ogni espressione, di chiunque sia e fin dove mi sarà possibile (101).

Non è questa una delle forme più profonde e perseguibili di misericordia in «una buona misura, pigiata scossa e traboccante» (Lc 6, 38) di cui gli uomini avrebbero bisogno? La risposta si fa tagliente: gli uomini dici – ma ricordati che sei un uomo anche tu (99)!

Com-pagni

La parola che il Signore Gesù rivolge a ciascuno di noi esige che la si avverta e la si accolga tutti insieme e, comunque, tenendo conto della nostra vita sempre in relazione a quella degli altri: «voi siete tutti fratelli» (Mt 23, 8). Questa parola si trova al cuore di un discorso di tono profetico in cui Gesù si scaglia energicamente contro tutte le inclinazioni a creare differenze tra di noi nella terribile, temibile e mai definitivamente superata tentazione di farci «capi» (Is 1, 10).

Essere fratelli sembra una cosa evidente eppure, in realtà, è la cosa più difficile e rappresenta il campo di battaglia sin dagli albori della nostra esistenza fino – quasi sempre – agli ultimi spasimi della nostra vita. Nel suo cammino verso la libertà di amare Etty ha dovuto pian piano passare da un atteggiamento "cannibale" in cui avrebbe voluto mangiare tutto quello che suscitava il suo desiderio e la sua brama – a tutti i livelli – verso una disponibilità a condividere per arrivare – infine – alla capacità di donarsi come pane.

Proprio all’ultima pagina del suo Diario possiamo leggere quale degna conclusone del suo viaggio interiore di "transustanziazione": Ho spezzato il mio corpo come se fosse pane e l’ho distribuito agli uomini. Perché no? Erano così affamati e da tanto tempo (238). Ma per quanto possiamo dedurre e intuire, ci sarà sempre nascosto il segreto lavoro che ha condotto Etty a questa meta. Anzi, tutto ciò fu e rimase un segreto per lei stessa se sentì il bisogno di mettere nero su bianco: d’un tratto non è più così anche se non so dire per quale processo interiore (33).

Il suo punto di partenza nel suo modo di rapportarsi al mondo lo troviamo definito e stigmatizzato come onanismo che le costava una quantità enorme di energie (33) fino a dover riconoscere con un certo imbarazzo nella stessa pagina: mi ricordo benissimo di come sentivo "una volta": trovavo tutto talmente bello che mi faceva male al cuore. Allora la bellezza mi faceva soffrire e non sapevo che farmene di quel dolore.

Non possiamo non rilevare come per Etty una percezione autentica e purificata della bellezza, che per tutto il Diario come nelle Lettere saprà descrivere con accento sempre poetico - Era il crepuscolo: tenere sfumature nel cielo, misteriose sagome delle case, gli alberi vivi con trasparente intreccio dei loro rami, in una parola era un incanto (33) –, andrà di pari passo con la sua sempre più matura accoglienza del dolore. E il primo passo in questo necessario itinerario è la nominazione del proprio limite: Una volta, se mi piaceva un fiore, avrei voluto premerlo sul cuore, o addirittura mangiarmelo. La cosa era più difficile quando si trattava di un paesaggio intero, ma il sentimento era identico. Ero troppo sensuale, vorrei quasi dire troppo "possessiva" (33).

Con un simile atteggiamento e a partire da questo tipo di sentimento sarebbe impossibile essere com-pagni, essere fratelli poiché il mondo intero viene letto e recepito per sé e non di certo io per gli altri. Etty ha dovuto, non certo in modo indolore, imparare – e lo imparerà fino ad esserne maestra – la via della fraternità che esige la con-divisione del pane della propria vita. Lentamente ma decisamente salirà a sua volta la china di Gerusalemme come il Signore Gesù e dalla sua personale Pasqua interiore verrà resa capace di accostarsi come "uno" dei tanti nella strada verso Emmaus (Lc 24, 15). Se il Maestro alla fine – anzi dopo la fine – si fece compagno di strada, Etty dovrà imparare e imparerà a farsi sempre di più una dei viandanti di questo mondo e di questa storia per conferirle un’anima.

Cammino fondamentale e decisivo anche assolutamente non improvvisabile ma delicatamente perseguito giorno dopo giorno. Uno dei primi passi per accedere alla fraternità è quello di ricomprendere la propria persona: Mi sembra una curiosa sopravvalutazione di se stessi, quella di ritenersi troppo preziosi per condividere con gli altri un «destino di massa» (168). Etty impara a considerarsi sempre di più una come gli altri rinunciando, su stimolo di Spier, ad un’immagine geniale (51) di se stessa per acconsentire ad una invece più disciplinata, per questo scrive e crede: il valore della mia persona risulterà appunto da come saprò comportarmi nella nuova situazione. E se non potrò sopravvivere, allora si vedrà chi sono da come morirò (168). Sempre più chiaramente Etty impara e ama pensare a se stessa come ad un piccola persona.

Magnificamente questo sentimento di "piccolezza" non ha per nulla i contorni di un ripiegamento o di un ritiro dalla realtà bensì assume la forma dell’investimento nella forma tipica dell’Evangelo: E parole come Dio e Morte e Dolore e Eternità si devono dimenticare di nuovo. Si deve diventare un’altra volta così semplici e senza parole come il grano che cresce, o la pioggia che cade. Si deve semplicemente essere (160). Ma non si tratta affatto di essere in un modo qualunque – neanche filosofico o artistico –, l’essere a cui Etty cerca di convertire interamente la propria vita è chiaramente un "per-essere-per".

Per questo subito aggiunge che la conseguenza pratica di tutto ciò è quella di farsi compagna fedele, appoggio sicuro, sostegno generoso per tutto il cammino necessario fino in fondo e fino alla fine: E io, sono io già abbastanza avanti da poter dire sinceramente: spero di andare al campo di lavoro, per poter essere di appoggio alle ragazzine di sedici anni che ci vanno anche loro? Per rassicurare i genitori rimasti indietro: non siate inquieti, io vigilerò sui vostri figli (160).

Essere fratelli significa non cercare mai nessuna via e nessuna modalità che ci allontani dal destino comune degli altri, dalla fatica comune, dalla tragedia comune. Non è forse questo desiderio di esenzione che anima, troppo spesso, la scalata così affannosa e talora ridicola per divenire talora a costo della propria anima oltreché della propria testa? In una parola Etty accoglie lo stesso segreto dell’Evangelo conformandosi misteriosamente al Cristo: cercare di essere per loro quel che ancora siamo in grado di essere (161).

Chi non si rallegrerebbe di avere accanto nel proprio cammino un fratello, una sorella animato da un simile cuore? Perché non cominciare col dare questa gioia in attesa di riceverla?

Oltre il "maternismo"

L’immagine materna che il Vangelo ci presenta è assai forte e ci pone di fronte a tutto il problema che il "materno" può rappresentare nella vita di ogni mammifero. La madre dei figli di Zebedeo senza nessuna vergogna e con un fare assai disinibito si presenta a Gesù per raccomandare i suoi pupilli (Mt 20, 20). Il Signore Gesù non biasima la madre ma aiuta i suoi due figli a prendere coscienza della pericolosità della richiesta materna e li invita ad una adultità da cui ogni madre – istintualmente – tende a proteggere i suoi piccoli per proteggere la sua identità. Il bisogno di rassicurare di ogni madre rischia di bloccare la crescita e il processo di liberazione verso l’amore pieno e oblativo. Ma lungi dal prendere l’atteggiamento degli altri discepoli a noi compete capire l’istinto materno e non lasciarcene – ciascuno a suo modo e in tutte le età della vita – fagocitare.

Nella storia di Etty Hillesum il rapporto con la madre e con il padre fu un problema assai scottante, le note del suo Diario scritte nella sua casa natale a Deventer suonano assai dure: E’ una persona che ti può cavare il sangue da sotto le unghie. Cerco di essere obiettiva con lei e di volerle un po’ di bene, ma poi, nel mio cuore, le dico di nuovo: come sei pazza e ridicola (54).

Va sicuramente notato come, senza di certo volerlo, fu proprio la madre di Etty a rovinare, se così si può dire, tutto quel delicatissimo e tenace lavoro di Etty per risparmiare alla sua famiglia la deportazione riuscendo più di una volta a far cancellare dalla lista dei deportati il loro nome. Alla fine di una di queste imprese titaniche scriveva: Mi sento come dopo un parto – per quanto riguarda i miei genitori, anche questa volta siamo riusciti a tenerli fuori – (91). Qualcosa che ripugnava profondamente all’anima di Etty e che le costò un forte combattimento interiore come ci testimonia in una sua lettera: C’è una frase nelle Bibbia che mi dà sempre forza. Credo che sia all’incirca così: «Se tu mi ami, devi abbandonare i tuoi genitori». Ieri sera, mentre dovevo di nuovo lottare duramente per non essere paralizzata dalla compassione per i miei genitori, ho visto anche questo: non bisogna lasciarsi consumare dal dolore e dalle preoccupazioni per la famiglia (123-124).

Ma appunto la madre di Etty ebbe l’ardire di scrivere alla più alta personalità de L’Aja per risparmiare Misha – suo figlio e promettente pianista – dalla deportazione. La condizione posta da Misha era che il suo privilegio fosse esteso ai suoi vecchi genitori. La reazione fu immediata, chiara, definitiva. Ma negli ultimi mesi passati a Westerbork le lettere di Etty ci testimoniano una cura per i suoi genitori che, in certo modo, coronò il suo prendersi cura di tutti e di ciascuno senza escludere, per istinto di sopra-vvivenza ai genitori, proprio coloro che rappresenteranno il luogo di "prova" della sua capacità di amare oltre il sentimento, di perdonare oltre la ragione.

Sembra quasi una "dichiarazione di conversione": Mi toccherà finalmente affrontare i rapporti tra me e mio padre, con coraggio e amore (78) e aggiunge: E’ una questione fondamentale, importante e difficile: nel proprio cuore voler bene ai propri genitori. Cioè perdonarli per tutte le difficoltà che ti hanno creato semplicemente con la loro esistenza (78). Tutta la forza e la cruda consapevolezza sta in quel semplicemente con la loro esistenza che, in verità, è solo il riverbero di quello che un figlio – forse ancora di più – rappresenta inconfessabilmente per i suoi genitori. Etty stessa non ha avuto la forza di farsi stravolgere l’esistenza da un un figlio incombente: Rimarrai nella condizione protetta…Ti attaccherò, ti combatterò, ti sbarrerò l’ingresso a questa vita e non dovrai lamentartene (85). Parole così forti, esperienza così tremenda da non permettere alcun commento se non un grande silenzio in cui ciascuno di noi può trovare i mezzi per scavare e verificare – onestamente e con una certa crudeltà – il proprio sentimento di figlio e – in svariati modi – di geni-tore: che problema!

Un grande combattimento quello di Etty per riscattarsi da un modo di amare che lei stigmatizza nel suo Diario come un amore complicato (79) che si tradurrà – solo dopo - in cura amorevole quando i suoi genitori saranno parte di un modo più grande e forse più vero come, appunto, il campo di Westerbork. In questo contesto in cui Etty è di tutti e per tutti riesce a trovare la modalità adeguata per essere anche pienamente figlia e sorella secondo la carne ma nello spirito: per me stessa non avrei bisogno di niente, mentre capovolgerei il mondo per trovare qualcosa che alleggerisca un pochino la vita dei miei genitori (84).

Eppure quale trasformazione è avvenuta non solo in Etty ma anche in sua madre! Da noiosa e pettegola (54) – forse semplicemente come tutte le madri di questo mondo – che contamina sua figlia con un cattivo rapporto con il cibo quale fatto simbolico in cui si manifesta la relazione tra la mia avidità e la mia cara mamma (71) verso qualcos’altro. Proprio nell’ultimo biglietto seminato e affidato al vento dal finestrino del treno questa stessa madre viene, finalmente e stupendamente, come associata al grande processo interiore di liberazione dalla paura di morire ben significata dall’antica ossessione per il cibo: Abbiamo lasciato il campo cantando papa e mamma molto forti e calmi, e così Misha (149).

Una partenza insieme eppure non insieme, a qualche vagone di distanza. Un caso? Una scelta? Un desiderio esaudito? Sappiamo dall’amico e compagno d’armi - Jopie - a cui il cuore di Etty non era segreto che l’ordine di partenza: per Etty era un colpo, dal momento che non voleva viaggiare con i suoi genitori e che preferiva abbandonarsi a questa nuova esperienza libera dal peso dei legami familiari. Per lei è stata come un colpo in tesa, che per un momento l’ha stesa a terra (257).

L’amore per i genitori, l’amore verso i figli deve diventare un amore sempre più libero e liberante. L’atteggiamento profetico del «parlare in loro favore» (Gr 18, 20) non fa che rimandare ciascuno all’unico Padre, Amico, Fratello, Sorella… senza proteggerlo dalla vita, senza rassicurarlo se non nelle cose minime lasciando che ogni cosa si compia nella libertà… vi può essere esercizio di libertà fuori dalla solitudine? Vi potrebbe mai essere solitudine feconda senza un’esperienza di accoglienza in questo mondo? Siamo tutti figli e in tanti modi siamo tutti madri oltre il "maternismo", sempre a qualche vagone di distanza nel treno della vita che corre verso il compimento.

La punta del dito

Il dramma del ricco epulone è quello di essere rimasto chiuso nel suo piccolo mondo senza rendersi conto di quello che avveniva «alla sua porta» (Lc 16, 20). Colui che in vita si ri-chiuse nella sua autosufficienza si ritroverà infine ad avere bisogno non tanto di acqua ma di qualcuno che lo tocchi con «la punta del dito». Tutto il dramma ciascuno si può riassumere nel medesimo che torturò come fiamma questo povero ricco: siamo assetati di un pur esilissimo contatto. Eppure di questo poveretto così ricco che cosa si potrebbe dire se non ciò che dice il profeta: «quando vede il bene non lo vede» (Gr 16, 7)? Del resto come si fa a vedere il bene che viene incontro se viviamo come barricati dietro le nostre porte blindate, fossero anche quelle del dolore?

Si potrebbe dire di Etty che, all’inizio della sua vita per quello che conosciamo dal suo Diario, non era molto diversa da questo ricco fino a quando non sentì di doversi fare aiutare da qualcuno per guarire dalla sua costipazione spirituale. Fu per questo motivo che un bel giorno bussò alla porta del chirologo Spier per intraprendere un lavoro preciso: l’analisi dei miei conflitti interiori attraverso la lettura del mio secondo volto: le mani (24). L’itinerario di Etty, il suo processo interiore di liberazione avverrà proprio attraverso il suo lasciarsi condurre accettando che qualcun altro leggesse a le insegnasse a leggere la sua vita – inevitabilmente fatta di conflitti – in un modo diverso: attraverso le mani come cifra di tutto il corpo.

Etty non nasconde affatto tutta l’ambiguità insita al suo rapporto con Spier – un uomo che rimane avvolto in una sorta di mistero e persino di "magico" – eppure è indubbio che fu il "sacerdos" della sua interiore crescita e maturazione. La stessa Etty accosta, nella prossimità delle righe da lei scritte, il lavoro di Spier e quello di un prete. Sul primo annota: Lui invece riceve sei pazienti, e passa ore intense con ciascuno di loro; li apre e ne tira via il pus, apre le sorgenti in cui Dio si nasconde a molti uomini, continua a lavorare con loro finché le acque scorrono nelle loro anime prosciugate (122). Rileggere la storia del ricco epulone, la nostra storia, la storia delle stessa Etty come quelle di creature che si sono, stanno o che hanno comunque rischiato di prosciugarsi. L’unica soluzione a questa mancanza di "acqua" sembra essere sempre quella di un contatto forte come quello adoperato da Mosè che percuotendo la roccia la obbligò a liberare e condividere l’acqua che tratteneva gelosamente (Es 17, 6).

Subito dopo Etty dice di aver letto in bagno di un prete: "era un intermediario tra Dio e gli uomini. Le cose ordinarie non l’avevano potuto toccare. E proprio per questo capiva così bene la pena di tutti gli esseri in divenire (123). Etty si ritiene assai prigioniera di un io limitato per cui gli spazi cosmici che ho dentro si chiudono fino a farle assumere l’atteggiamento chiuso e caparbio di un mulo. Non esita ad essere disgustata da se stessa: così egocentrica, così meschina… la classica donna piccina continuamente alle prese con un volermi gonfiare in una specie di sentimento tragico (123). In una simile consapevolezza Etty ritiene l’intervento di Spier nella sua vita come la spinta decisiva ad inoltrarsi verso un’autentica liberazione e non attraverso ulteriori elucubrazioni intellettuali bensì attraverso la cura e l’ascolto del proprio corpo per condurre la mente nel cuore. Così tutti i pezzetti erano sparsi alla rinfusa e lui li ha ricomposti in un insieme ricco di significato (35).

Di certo Etty non fu una donna né insensibile né tantomeno pudìca eppure il contatto con Spier e, attraverso di lui, con le sue mani, con le sue dita, con tutto il suo corpo le aprì la porta di una percezione più umile e più coscientemente sensuale del suo essere persona. Etty scrive di se stessa in riferimento alla sua sensualità: e vorrei essere solo bella e stupida (52) mentre riconosce di essere ben lontana dall’ideale tracciato da Rilke per il Giovane Poeta e la Giovane Signora e scrive: La donna cerca l’uomo e non l’umanità - aggiungendo – dobbiamo ancora nascere come persone, la donna ha questo grande compito davanti a sé (52).

Eppure mentre ancora scriveva tutto questo prima della morte di Spier il cammino che stava percorrendo era già esteso. Quest’uomo dalla personalità magica (35) leggeva la sua vita sul suo secondo volto – le mani – e obbligandola a un contatto fisico che arrivava fino alla lotta (27) la presuadeva ad acconsentire al suo più grande bisogno: Per tutta la vita ho desiderato che qualcuno mi prendesse per mano e si occupasse di me – magari sembro una persona coraggiosa che fa tutto da sé, invece mi abbandonerei così volentieri alle cure di un altro (27).

Potremmo mettere queste parole sulle labbra dello stesso ricco epulone, ma – ancor più adeguatamente – potremmo fare nostre queste parole di Etty. Quante volte, nonostante tutte le apparenze, si avrebbe bisogno di essere semplicemente sfiorati anche solo dalla punta delle dita di un altro essere umano che - come quel prete – ci capisca e ci accolga per quello che siamo: esseri in divenire.

Etty fino all’ultimo – siamo solo ad un mese dalla deportazione – non smetterà di sentire la presenza di Spier come la persona che ha trasformato interamente – miracolosamente - la sua vita: Da qualche tempo Jul – Spier – si libra in cielo di questa brughiera, è una cosa inesplicabile, è un nutrimento quotidiano. Accadono proprio dei miracoli in una vita umana, la mia è una catena di miracoli interiori, fa bene poterlo di nuovo dire a qualcuno (123). Non si può non notare che questa nota su Spier segue la citazione nella lettera di una preghiera – tra le più lunghe – che Etty trascrive per Tideke dal suo Diario. Realmente Spier fu per Etty l’intermediario perché lei accedesse alla sua anima fino a farla fiorire con un profumo che ancora è capace di inebriare e orientare.

Per capire questo processo di integrazione e di individuazione bisognerebbe sostare devotamente sulle immagini del Rosarium Philosophorum di alchemica tradizione così profondamente comprese e commentate dal maestro di Julius Spier, Carl Gustav Jung. Ma lo si può benissimo riassumere nell’immagine di questa "punta del dito" che rimanda alla "punta dell’anima" di cui già parlava Origine. Gli unici contatti che sono in grado di trasformare la vita e di lanciarla in un processo di vera spiritualizzazione sono quelli che avvengono in modo puntuale e pungente fino a farci dire: Mille catene sono state spezzate, respiro di nuovo liberamente, mi sento in forze e mi guardo intorno con occhi raggianti … Ora vivo e respiro con la mia anima, sempre che mi sia concesso usare questo termine screditato (35).

Ma quanto dobbiamo imparare su noi stessi per essere in grado di sfiorarci con la punta delle dita fino a raggiungere e farci raggiungere dalla parte più raffinata dell’anima. Molto si potrebbe dire di Spier ma nessuno potrebbe negare di aver contribuito all’affinamento dell’anima di Etty Hillesum fino a renderla come gabbiani che si muovono nel cielo uniformemente grigio. Sono come liberi pensieri che vagano per un vasto spirito (113) con quale leggerezza, velocità ed efficacia i gabbiano sfiorano il mare attingendovi delicatamente la vita.

Sognare è morire

La Parola di Dio mette sotto i nostri occhi due padri – Giacobbe e il Padrone della vigna –, i due corrispettivi figli e soprattutto il sogno che attraversa il cuore di tutti: «Avranno rispetto di mio figlio» (Mt 21,37) e ancora «il padre amava Giuseppe più di tutti i suoi figli» (Gn 37,4). Questo amore di predilezione non può che attivare un grande sogno sia in Giuseppe che in Gesù. Ma sempre i confini tra il sogno e l’illusione sono tremendamente invisibili e terribilmente pericolosi: «Ecco il sognatore arriva» (Gn 37,19) e «venite uccidiamolo» (Mt 21,38).

Da Giuseppe e da Gesù dobbiamo non solo imparare a sognare, persino ad occhi aperti, ma anche a difenderci accanitamente da ogni forma di illusione. Come fare? Siamo capaci di pagare il prezzo? Si tratta di addormentarsi nella pace lasciando al sogno di apparire e di compiersi senza di noi, oltre noi e nonostante noi stessi. Un percorso analogo – di certo in tutto il suo peso di sofferenza e non certo a prezzo ridotto – lo ha compiuto Etty: donna dai grandi sogni, abitata da momenti di grande esaltazione persino euforica e consumata da un’ansia incontenibile di dare una mano all’evoluzione dell’umanità: Più tardi viaggerò per i paesi del mondo, mio Dio, io lo sento in me, questo istinto che passa i confini, che fa scoprire un fondo comune nelle varie creature in lotta fra loro su tutta la terra. E vorrei parlare di questo fondo comune, con voce sommessa e dolcissima e insieme persuasiva e ininterrotta (215).

In Etty non si spegnerà mai e, soprattutto nulla di quanto le accadrà terribilmente intorno, sarà in grado di spegnere il suo sogno e il suo desiderio di vivere e di collaborare all’evoluzione dell’umanità attraverso quello che sente come il suo dono continuamente impetrato: Mio Dio, prendimi nella tua grande mano e fammi tuo strumento, fa’ che io possa scrivere! (50). Per capire quanto intenso fosse la consapevolezza del suo dono e il desiderio di realizzarlo basta leggere le righe precedenti che hanno il sapore di una confessione e di una resa: Sono agitata, di una bizzarra, diabolica irrequietezza che potrebbe essere anche produttiva se sapessi che farmene: è un’irrequietezza "creativa" non fisica – neppure una dozzina di appassionati notte d’amore potrebbe placarla -. E’ quasi un’irrequietezza sacra… solo l’artista è in grado di rendere ciò che resta d’irrazionale nell’uomo. E subito aggiunge quasi a dispetto dell’esaltazione appena confessata: Non so come andrà a finire con questo mio "scrivere"… aspetterò ancora (50).

Possiamo veramente ammirare in Etty la capacità di dare ali al proprio desiderio e di dare colore ai suoi sogni perseguendoli con tutta se stessa e al contempo sapendo che la cosa più importante non è che il sogno si realizzi ma che, per la sua forza trovare io stessa una forma, la mia forma (50). Per Etty il sogno è chiaro come per il giovane Giuseppe: Fiorire e dar frutti in qualunque terreno si sia piantati – non potrebbe essere questa l’idea? E non dobbiamo forse collaborare alla sua realizzazione? (226). Ma chiara è pure la via perché tutto venga realizzato: rinuncerò ai miei progetti presuntuosi e continuamente e sempre – come il Signore Gesù – Aspetterò un tuo cenno mio Dio, nel frattempo mi dispongo a partire. Tratterò con te, vuoi?.

Come si canta in un inno della liturgia Etty fu «sempre pronta partire» e lo fu meravigliosamente in veglia e in sonno: Stanotte ho sognato che dovevo preparare la valigia (159). -Visitando Westerbork si è colpita dal numero impressionate di valige aperte e chiuse…! - Etty manterrà per tutta la vita un rapporto assai speciale quasi intimo con il viaggio: mi procurerò uno zaino e porterò con me lo stretto necessario, ma tutto di buona qualità. Mi porterò una Bibbia, e quei libretti sottili (165) naturalmente di Rilke.

Continuamente in effervescenza, sempre volta verso il futuro verso cui sente di avere dei doveri precisi e irrinunciabili, perennemente all’opera per dare un volto più umano al mondo e alla storia, quasi interiormente divorata dal suo sogno di poter essere testimone e in grado di passare il testimone: devi rimanere il centro, e in qualche modo devi venire a capo dei fatti di questo mondo… devi "confrontarti" con questi tempi orribili, e cercare una risposta alle numerosi questioni di vita e di morte che essi ti pongono. E allora forse troverai una risposta ad alcune di esse, non solo per te ma anche per gli altri. E aggiunger passando dal sogno al segno: Sta di fatto che devo vivere, e che devo affrontare ogni cosa. A volte mi sento come un palo ritto in un mare infuriato, fra le onde che lo battono da ogni parte. Ma io rimango ben ferma e gli anni mi passano sopra. Voglio continuare a vivere pienamente. Voglio diventare il cronista di tanti fatti di questo tempo (57).

Ma in un modo ben diverso da quello che le veniva proposto dai suoi amici! La fuga o la clandestinità furono sempre escluse da Etty… ciò l’avrebbe resa "cronachista" ma non quel cronista che sognava di diventare: sì un cronista dicevo. Io noto che alla mia sofferenza personale si accompagna sempre un interesse appassionata per tutto ciò che riguarda questo mondo, i suoi uomini, i moti della mia anima. A volte credo che sia questo il mio compito: chiarire nella mia testa e col tempo descrivere, tutto ciò che accade intorno a me. Povera testa e povero cuore…(57).

Etty inavvertitamente è riuscita pienamente nel suo sogno e questo perché ha saputo accettare di farsi segnare fino in fondo dal suo desiderio più profondo e l’atto che stiamo compiendo – rileggerla dopo sessant’anni – ne è la prova! Grande forza di desiderio appassionata unita ad un grande distacco e abbandono che si fa docilità al cenno di Dio, che si fa ammirabile preghiera: Mio Dio, concedimi la pace grande e potente della tua natura. Se vuoi farmi soffrire, dammi il dolore grande e pieno, non le mille preoccupazioni che consumano completamente… Sono disposta a rimanere tranquillamente coricata per qualche giorno ma allora voglio essere un'unica grande preghiera. Un’unica grande pace. Pensa tu alla mia pace mio Dio, dovunque mi troverò (229). Perfetto abbandono – mano nella mano, cuore nel cuore, anima nell’anima – ma ad un condizione imprescindibile: Voglio stare fra gli uomini, fra le loro paure. Come per Giuseppe (Gn 45,4), come per Gesù Risorto e Vivente (Gv 20,17), il sogno di Etty si realizzerà nella perfetta condivisione di un’assoluta fraternità.

Chi oserebbe pensare che il sogno di Etty non si sia realizzato e che non sia stato realizzato pienamente? E i nostri sogni? I nostri desideri? Da dove vengono e dove vanno. Un brano di una lettera di Rilke – il mio poeta (26) – ha sicuramente plasmato e riplasmato il cuore di Etty e può dare una mano anche a ciascuno di noi:

Mi accade sovente di domandarmi se esista un vero rapporto fra adempimento e desideri. Certo fintanto che il desiderio è debole, esso è simile a una metà che per diventare autonoma ha bisogno del proprio adempimento come di un’altra metà. Ma i desideri possono germinare in modo così meraviglioso da diventare un tutto, pieno e intero, che non si lascia più completare e ormai si accresce, si forma e si riempie solo dall’interno. A volte si potrebbe credere che alla ridice di una vita grande e intensa ci sia proprio stato un coinvolgimento in desideri eccessivi che come una molla interiore hanno riversato nella vita azione su azione, effetto su effetto; e quasi non rammentando il loro fine originario, diventati ormai elementari come un’impetuosa cascata, si sono trasformati in azione e cordialità, in presenza e immediatezza, in lieto coraggio, a seconda degli eventi e delle circostanze che li avevano provocati (27).

Non ci resta dunque che sognare, non ci resta dunque che morire ai nostri sogni per accedere al Sogno di Dio su di noi e sull’Umanità.

Padre coraggio

La conclusione più bella e degna della parabola del "Figliol prodigo" (Lc 15, 1-32) può essere proprio il testo del profeta che suona come un’acclamazione di fede e insieme di giubilo: «Qual Dio è come te che si compiace di usare misericordia?» (Michea 7, 18). Tutto il testo di Luca è una sorta di inno alla costanza e all’invincibile amore di questo padre che non si arrende né davanti all’avventurosità del figlio minore né davanti alla gelosia del maggiore. Anche se molto probabilmente di questo padre i tratti più fondamentali li ereditò proprio quel figlio minore pur sempre "coraggioso" nel suo partire e ancora di più nel suo ritornare.

Di certo se dovessimo catalogare Etty a partire dalla parabola non ci riuscirebbe affatto difficile. Quale «donnetta di 27 anni» si ritrova volutamente a vivere non solo fuori casa ma chiaramente un po’ allergica al suo ambiente familiare soprattutto riguardo alla madre ma pure ad un padre con il quale – come si è già avuto modo di vedere (cfr. 13) – Etty si sentirà obbligata ad affrontare i rapporti con coraggio e amore (78). Eppure Etty svela fino in fondo la lotta interiore a cui la figura paterna la obbliga interiormente in un misto di compassione – che piacere che quel brav’uomo possa starsene lontano per qualche giorno da quella moglie sempre agitata (78) – che non abbassa per nulla il sentimento allarmantissimo di essere minacciata nella mia libertà (78).

Come ogni ragazza che guardi alla sua vita con ardore ed entusiasmo così, anche per Etty, il padre rappresenta da una parte la vittima della madre e dall’altra il limite alla propria libertà. Un padre da cui Etty fugge e che, in certo modo, si ripropone nei suoi amanti ben più vecchi di lei come papà Han e lo stesso Spier che aveva quasi il doppio dei suoi anni. Il rapporto con gli uomini non è un capitolo facile nella vita di Etty e, in certo modo, è segnato da una grande perdita, di un grande fecondissimo vuoto di cui abbastanza presto Etty prenderà coscienza dicendo a se stessa: Dio non mi ha mandato un uomo (p. 66).

E il 15 settembre 1942 avrà bisogno di scrivere a Kormann, mio buon amico. "Sai, tutto è così misterioso e strano e insieme così significativo. Il mio amico è morto, l’ho saputo poche ore fa: da quando l’avevo rivisto la settimana scorsa ho pregato in continuazione perché fosse liberato dalla sua sofferenza mentre ero ancora qui. E ora è successo e sono così riconoscente. E la gratitudine per sua presenza nella mia vita passata sarà sempre più forte della tristezza per la sua mancanza, per la sua mancanza fisica" (23). Sentimento che rimarrà identicamente grande fino alla fine.

La morte di Spier non interromperà ma approfondirà fino a rendere, forse, più possibile - almeno a livelli così alti - la trasformazione interiore di Etty ben convinta che non devo considerare S. come un fine, ma come un mezzo per continuare a crescere e a maturare (56). Uno dei segni indicativi sarà – di certo – il progressivo trasfigurarsi del suo rapporto con i genitori e in specie del padre che ammirerà a Westerbork per la sua assoluta "indifferenza" quasi sepolto dalle varie edizioni della Bibbia e in compagnia dei classici greci. Ma si può dire che la morte di Spier, il ritrovamento del suo padre unico e concreto, la chiara rinuncia ad un uomo solo in quanto inadeguato – per vivere in armonia con le mie sorgenti profonde (64) – corrisponde ad un’interiorizzazione dell’elemento maschile che potremmo definire con interiorizzazione del "coraggio".

Etty diviene sempre più sensibile a questa virtù dei forti-viri. Nei suoi familiari, mentre arrivano sfiniti a Westerbork, annota: sono indescrivibilmente coraggiosi in questo assoluto inferno (68). E se non può fare a meno di notare e annotare la sofferenza di suo padre pure sottolinea: Ma stamattina ha impugnato la sua piccola Bibbia mentre aspettavano per ore e ore nella pioggia, e ha trovato splendide parole nel libro di Giosué (69). E di se stessa Etty non riesce a dire altro se non: personalmente mi sento molto forte e piena di coraggio anche se a volte tutto diventa buio e incomprensibile (69). E quasi in un istinto mimetico afferma: Io la mia Bibbia l’ho messa in salvo in un luogo sicuro> (113). Quante volte l’aveva letta sulle stesse ginocchia della sua S.?!

I due uomini che nella sua vita hanno avuto il grande ruolo di metterla al mondo e di farle trovare il senso di questo essere nel mondo, hanno reso Etty una donna cosciente di tutti i suoi limiti e capace non di sottovalutare la paura – più volte lo sottolinea – ma di sviluppare un crescente coraggio che radica nella sua interiorità e nel "Grande Vir" della sua vita che sarà sempre di più l’Interlocutore Interiore da cui attinge senso, forza, coraggio tenacia. Senza tema scrive: non provo alcun interesse a fare la figura di una persona coraggiosa di fronte a questo o a quel persecutore – e dunque non mi sforzerò mai in questo senso. Possono benissimo accorgersi che sono triste e indifesa nei loro confronti. Non ho nessun bisogno di fare una figura coraggiosa, ho la mia forza interiore e questo mi basta, il resto è irrilevante (147).

Per Etty il coraggio di cui ha bisogno non è quello che servirebbe a fronteggiare la situazione esterna bensì prima di tutto e fondamentalmente quella di superare l’nfantilismo: sempre quella paura infantile di perdere un po’ d’amore degli altri, se non ci si adegua! Ma comincio a liberarmi da questi condizionamenti. Un passo cha comporta anche una fase di allentamento dalla "casa paterna" in un modo apparentemente deciso ma che, come sempre e in tutti, nasconde l’angoscia di fronte alla disapprovazione. Con l’aiuto del suo rapporto liberante, per quanto intensamente legato di Spier, Etty potrà sempre di più crescere nel coraggio dell’accettazione: Adesso io dico con semplicità e naturalezza: ecco, le mie forze arrivano fin qui e non oltre, non ci posso far niente, devi prendermi come sono. Per me, questo è un passo ulteriore verso una maturità e indigenza a cui sembra mi stia avvicinando di giorno in giorno (145-146).

Forse sotto il discorsino preparato dal "figliol prodigo" si può leggere proprio questo messaggio di base: "devi prendermi come sono". Il Padre dimostra alla fine di essere sempre stato disposto a prendere i due figli come erano ma forse solo i «porci» (Lc 15, 15) hanno aperto le narici del figlio alla percezione del profumo così antico della misericordia del padre… papà legge molto; lui ha tanto dentro di sé (154). Ma questo dentro sarebbe rimasto invisibile agli occhi di Etty senza il suo personale viaggio ai confini sempre più vasti della sua interiorità. E prima di questo processo - lento e non sempre riuscito - anche al nostro Padre Celeste non resta che dire su figli sbalestrati quali noi stessi siamo: ormai quel ragazzo è in circolazione, che cosa ci puoi fare? (58). E non resta che aspettare… Dio non può che aspettaci all’uscio del suo e del nostro cuore. E noi dove siamo? Forse a meditare sul famoso «capretto» (Lc 15, 29) che non abbiamo avuto il coraggio di chiedere. Facciamoci coraggio a cominciamo ad esprimere i nostri desideri… forse ci verrà dato un «vitello grasso» (15, 23) per una festa più grande.

La lebbra della complicanza

Naaman il Siro (2Re 5, 1-15) che non vuole obbedire alla semplice – troppo semplice – ingiunzione di Eliseo: «Va’ bagnati sette volte nel Giordano» (5, 10). I Nazaretani che sono scandalizzati e soprattutto spiazzati dal genere di profeta che si trovano davanti (Lc 4, 24-30), un profeta troppo poco straordinario per fare onore alla «sua patria» (4, 24). Due icone in cui ciascuno di noi può ben trovare il suo giusto posto e può dare un nome alle malattie della propria anima: la lebbra che sfigura il corpo, la mancanza di semplicità che sfigura l’anima esponendola all’assalto della preoccupazione della propria immagine – del proprio look – all’esterno e non alla pace di sé all’interno. Sempre intenti a «cose grandi» (Sl 130, 1) ci risulta difficile rimetterci a giocare come dei bambini che si ritufferebbero volentieri nel Giordano «non per sette volte ma per settanta volte sette» (Mt 18, 22).

Si vorrebbe guarire da questa malattia della complicanza evitando però accuratamente di piegarsi alla banalità, sulle banalità del quotidiano, re-imparando a giocare con gli elementi più semplici. Ma piegarsi a tutto ciò rischierebbe di farsi guarire da una malattia che ci è cara, tanto cara: apparire!

Di questa "lebbra" molto ebbe a soffrire la cara Etty come si auto-chiama ogni volta che voleva esortarsi alla semplificazione interiore. Una sorta di principio crescente nella vita e nel processo interiore di Etty sarà quello di evitare ogni complicanza e di agire solo quando questa sorta di demone si fosse finalmente addormentato: Si dovrebbe parlare delle questioni più gravi e importanti di questa vita solo quando le parole ci vengono semplici e naturali come l’acqua che sgorga da una sorgente (163). E il Signore Gesù chiarisce nel Vangelo che «la bocca parla dalla pienezza del cuore» (Lc 6, 45) per cui è il cuore che bisogna condurre ad una capacità di straordinaria ordinarietà per cui - piegandosi sulle persone, sulle cose, sugli elementi e sugli avvenimenti - si possa dire: La mia anima è in pace… a volte non mi accorgo neanche di essere in un campo – è ben strano -. Jopie è un caro compagno. Di sera assistiamo al tramonto, che si tuffa nei lupini violetti dietro al filo spinato (66).

Ma per giungere a questo atteggiamento di libertà quanto cammino è necessario e quanta discepolanza e docilità ai segni e ai cenni dello Spirito? Catalogando i libri della biblioteca di S., ci trovo "Das Stundenbuch" di Rilke. Può sembrare paradossale, ma S. guarisce le persone insegnando loro ad accettare il dolore (89). E la porta per entrare in questa nuovo dominio dell’anima che, concretamente, prenderà i contorni della brughiera di Westerbork, sarà proprio il dolore insito alla rinuncia – prima nel cuore e poi nella realtà della morte – a quella medesima persona. Nella stessa pagina in cui registra il trasformarsi del suo attaccamento a Spier – rinuncerò persino al desiderio di rimanergli accanto fino all’ultimo momento (152) – enuncia una sorta di principio ascetico fondamentale: E ora so che se si comincia a rinunciare alle proprie pretese e ai propri desideri, si può rinunciare a tutto. L’ho imparato in questi giorni (152).

Ma a cosa servirebbe questo esercizio di rinuncia se non ad acquisire una crescente libertà invece di far sommergere la propria voce interiore da quel fuoco a mitraglia della burocrazia (44) – ce n’è persino in una semplice famiglia di due sole persone e in una comunità che conti almeno tre membri – che solitamente nutre le nostre paure con false speranze al fine di aggiogare le coscienze. Etty rimase ammirata, nel suo incontro fugace con i monaci e le monache in transito verso Auschwitz, dalla loro estraneità – se così si può dire – all’eccesso di mutamento. Lesse nella loro reazione alla stessa situazione vissuta da tutti una sorta di educazione a non sopravvalutare i mutamenti esteriori e transeunti: Io fisso il monaco che dopo quindici anni si ritrova nel mondo e gli chiedo: «E allora, che cosa ne dice del mondo?». Ma il suo sguardo rimane tranquillo e amichevole sopra la tonaca, come se ciò che lo circonda gli fosse noto e familiare già da molto tempo. E con una sorpresa mista ad una sorta di venerazione aggiunge: Più tardi qualcuno mi raccontò che quello stesso giorno aveva visto alcuni monaci camminare in fila tra due baracche scure nel crepuscolo, mentre dicevano il rosario con la stessa calma con cui avrebbero recitato le preghiere nei corridoi del loro convento (44).

L’atteggiamento di questi monaci contrasta con quello di chi invece avendo tutta la vita ormai dietro di sé sia così attaccato a quel povero pezzetto di carcassa che gli è rimasto (72). Per Etty diventa sempre più chiaro che ormai non si tratti più della vita, ma dell’atteggiamento da tenere nei confronti della nostra fine (108-109). Questa conclusione così forte è preceduta da una sorta di memoria e di ringraziamento: Ho fatto ancora a tempo ad imparare la grande lezione di Mt 6, 24 (sic! Leggi 6, 34) da un indimenticabile amico per la cui morte conti a dire grazie ogni giorno: «Non preoccupatevi…». In questa esperienza personale e intima di amore e di dolore radica la conversione alla semplicità di Etty. La sua semplificazione non è frutto della costrizione esterna ma di un’esperienza interiore che attraverso la lettura e il tocco della mano da parte del suo iniziatore: Avevo imparato a leggere in me stessa e così ero in grado di leggere anche negli altri – non prima di aver accettato qualcuno le leggesse dentro! – Era proprio come se le mia dita sfiorassero i contorni di questo tempo e di questa vita (208).

Fidarsi delle proprie dita! Ecco il grande salto di qualità nella vita di Etty alla scuola del suo chirologo. Fidarsi delle dita significa non cogliere il reale attraverso un colpo d’occhio e un fulmineo pensiero captativi ma mediante il delicatissimo, lento, pacifico sfiorare le cose e i contesti cercando di coglierne lentamente i segreti fino a farsi un’immagine interiore del mondo esterno… un’immagine utile solo per amare… capace solo di piegarsi sul reale umilissimamente grati che non si sottragga al tocco, stupiti che non ci lasci soli come quando si sfiora una cosa o un volto amato… mai paghi di immaginarlo per nutrire un amore più grande. Il colpo d’occhio, simile a quello dei Nazaretani su Gesù e di Naaman sul Giordano, può essere come quelle letture di Etty - ad un certo punto della sua vita - interminabili ma inefficaci e di cui Spier ebbe a dire una parola precisa: "degeneranti" (66).

Da qui una regola di orientamento nella vita quotidiana (66) risulta assai "semplice": fa’ ciò che la tua mano per caso si trova a fare e non pensare al poi … fa ciò che la tua mano e il tuo spirito si trovano a fare, tuffati in ogni ora e non metterti subito a ruminare coi tuoi pensieri, le tue parole e le tue preoccupazioni sulle ore successive. Devi riprendere in mano la tua educazione (67-68).

Per evitare l’inganno una preghiera: Signore, dammi meno pensieri e più acqua fredda e ginnastica al mattino presto (68).

Per costruire in una direzione nuova: la vita è infinitamente ricca di sfumature, non può essere imprigionata né semplificata. Ma semplice potresti essere tu… (69).

Non basta la generosità

Forse il Signore ridicolizza il nostro sforzo di perdonare al fratello con generosità fino «a sette volte» (Mt 18, 21)? O forse – al contrario - ci sostiene nella nostra fatica chiedendoci paradossalmente di non preoccuparci se non riempiamo interamente i nostri moduli chiedendoci, invece, di spostare l’attenzione dalla quantità alla qualità? Il perdono non è questione di generosità ma di identità profonda perché è una questione «di cuore» (Mt 18, 35). L’impossibile del perdono diventa non solo possibile ma, in certo modo, persino naturale se il nostro occhio non è più rivolto fuori – verso l’altro – ma all’interno - «in mezzo al fuoco» (Dn 3, 25) che immola e che al contempo sublima tutto ciò che siamo: «Potessimo essere accolti con il cuore contrito e lo spirito umiliato come olocausti» (Dn 3, 39). Il perdono è infatti il più grande investimento possibile su questa terra poiché la sottomette alla logica propria del cielo: se Dio, infatti, non perdonasse istante «chi potrebbe salvarsi?».

Ma non è possibile accedere al perdono se non cambiando in una radicale conversione lo sguardo su se stessi per accogliere, fino all’estreme conseguenze, il fatto di essere ciascuno niente altro che un servo tra servi. La preghiera dei fanciulli è chiara e tremendamente precisa proprio mentre il fuoco si leva inesorabilmente liberante: «Non c’è delusione per coloro che confidano in te» (Dn 3, 40).

Quante volte la nostra impossibilità a perdonare è semplicemente il volto del rammarico di non riuscire a perdonare a noi stessi e a Dio di avere fallito… specialmente con le persone che abbiamo amato e che ci hanno amato? Etty ha dovuto confrontarsi duramente con quello che si potrebbe definire lo "scandalo dal perdono" come umanissima protesta della dignità di essere uomo fino all’ultimo brandello di se stessi. Un episodio narrato da Etty è emblematico, lo si potrebbe catalogare tra i "fioretti di Westerbork" in cui si cerca di sopravvivere evitando la partenza: non tutti sono come quell’uomo che aveva riempito il suo zaino ed era spontaneamente partito con un convoglio, e alla domanda "Perché?" aveva risposto di voler essere libero di partire quando piaceva a lui. E per mettere questo piccolo fiore nel grande multiforme bouquet di cui Dio continuamente si compiace, Etty commenta: Mi aveva fatto pensare a quel giudice romano che aveva detto ad un martire: «Sai che ho il potere di ucciderti?» e lui «Ma sai che ho il potere di essere ucciso?» (40). Una luce di speranza in una situazione che veniva descritta immediatamente dopo come l’ultimo relitto di una nave a cui si aggrappano troppi naufraghi sul punto di annegare.

Perdonare contando le volte in cui si perdona per potersi, a un certo punto, sentire in diritto di non perdonare più non sarebbe forse il terribile aggrapparsi della nostra umanità derelitta ad un relitto di umanità? Il perdono invece è capace – misteriosamente – di creare nuovi punti di appoggio, nuove basi, rinnovate energie per nuotare e volare a seconda delle necessità.

Anche noi forse ci siamo trovati – o ci troviamo – in situazioni in cui come si sentiva continuamente ripetere Etty nel campo: «non vogliamo pensare, non vogliamo sentire, vogliamo dimenticare il più possibile», e annota: E questo mi sembra molto pericoloso (45). Spesso si sente dire e si avverte nel proprio cuore: "ho perdonato ma non riesco a dimenticare". Il perdono è il contrario del dimenticare. Dimenticare – rimuovere si direbbe in linguaggio psicologico – è un’operazione che alcune volte si può persino attuare inconsciamente come difesa dal dolore, perdonare è, invece, vivere nella memoria rammemorante del dolore non disgiunto dal suo significato per la propria vita, la propria crescita per questo il perdono esige una matura gestione della sofferenza. Il Signore Gesù ci mostrerà tutto ciò nel frutto maturo della sua Croce!

Etty ha attraversato il dramma che noi stessi attraversiamo se stiamo diventando, realmente, umani e dice: Certo accadono come che un tempo la nostra ragione non avrebbe creduto possibili. Ma forse possediamo altri organi oltre alla ragione, organi che allora non conoscevamo, e che potrebbero farci capire questa realtà sconcertante. E ancora una volta come professione di fede nell’umanità Etty dichiara con una speciale intima solennità: Io credo che in ogni evento l’uomo possieda un organo che gli consenta di superarlo… Non si tratta infatti di conservare questa vita ad ogni costo, ma di come la si conserva (45).

Il perdono è una modalità di vita, è una logica del vivere che ha imparato a inglobare il mistero del morire ad ogni calcolo di probabilità fino a poter dire con un verso di Montale: «Ascoltare era il tuo modo di vedere». Ma quale ascolto, quale perdono sarebbe mai possibile se non ci si accordasse profondamente – proprio come uno strumento musicale con le armonie della sfera celeste – al ritmo che ti porti dentro e che sale dal fondo di te stessa? (86). Ogni piccolo e singolo atto di perdono non è altro che il modo più adeguato per entrare nel gran cranio dell’umanità. Il suo potente cervello e il suo gran cuore… Il cervello dell’umanità, di tutta l’umanità. Lo sento come un unico, grande insieme e forse è di lì che mi viene di tanto in tanto quel profondo sentimento di armonia, di pace, malgrado le numerose contraddizioni. Ma sembra non basti ancora: Bisogna conoscere tutti i pensieri e sentirci passar dentro tutte le emozioni, per sapere che cosa sia stato ideato in quell’immenso cranio – non escluse le cose più terribili e temibili – e che cosa sia passato per quel gran cuore (89-90).

Etty si fa interprete di quelle che sono le regole più profonde nelle relazioni tra umani e, pur non sottovalutando la problematicità che sempre le contraddistinguono, osa formulare per se stessa e non solo per se stessa indizi di atteggiamenti interiori nuovi che radicano in una coscienza nuova: Per umiliare qualcuno si dev’essere in due: colui che umilia e colui che è umiliato e soprattutto: che si lascia umiliare. Se manca il secondo, e cioè la parte passiva è immune da ogni umiliazione, questa evapora nell’aria (126). Mai e poi mai potremo confondere la nostra capacità e volontà di vivere questa qualità di perdonare - anche una sola volta nella vita - con l’umiliazione: al contrario quella sola volta ci renderebbe degni dell’umanità e parte autentica del suo cuore. Più che faticoso il perdono rischia di essere in-comprensibile e allora ancora un volta un verso di Montale potrebbe sveltire il passo: «E’ strano che a comprenderti siano riuscire solo persone inverosimili». Sì, dovremmo saper diventare inverosimili per essere all’altezza del nostro essere più profondo:

Dio mio, ti ringrazio perché mi hai creata così come sono!
Ti ringrazio perché talvolta posso essere così colma di vastità,
quella vastità che poi non è nient’altro che il mio essere ricolma di te.
Ti prometto che tutta la mia vita sarà un tendere verso quella bella armonia,
e anche verso quell’umiltà e vero amore di cui sento la capacità in me stessa,
nei momenti migliori (87)

Quale momento migliore di quello in cui sapremo perdonare di tutto cuore come la cosa più umana, più onorevole, più qualificante? Non significa dimenticare ma ricordare ogni attimo di dolore con la fierezza di chi ne ha saputo approfittare per diventare migliore.

Anelli

Il monito del Deuteronomio è chiaro e preciso: «le insegnerai ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli» (Dt 4, 9) e, da parte sua, il Signore Gesù ci invita a portare a «compimento» (Mt 5, 17) la vocazione di essere come anelli di una Tradizione vivendo fino in fondo – come lui – una doppia fedeltà: a ciò che viene prima di noi «la Legge e i Profeti» (Mt 5, 17) e a ciò che verrà dopo di noi. Una simile fedeltà esige una grande responsabilità nel vivere il "qui ed ora" manifestando nella nostra personale aderenza al reale quale sia «la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli» (Dt 4, 6).

Come per Etty anche a noi si pone –soprattutto nel momento storico che viviamo di grandi cambiamenti e di grandi ma sempre più fragili speranze – la scelta umile di non pensare a noi stessi ma a quel minimo ruolo di "collegamento" tra epoche diverse per essere realmente capaci di Tra-dizione. La sfida è essere sempre di più persone che non si lasciano «sfuggire dal cuore» (Dt 4, 9) neanche uno «iota» (Mt 5, 9) per poter trasmettere ai "nostri figli" un tesoro in umanità e sapienza impreziosito dalla nostra frequentazione e pratica e non, invece, impoverito dalla nostra noia.

Per vivere questo ruolo insostituibile di in-anellare le epoche con le loro povertà al fine di trasmettere i valori si rende necessario conservare e coltivare tanta elasticità spirituale per poter ascoltare sempre con tutte e due le orecchie e con tutta l’attenzione senza mai lasciarsi impietrire dall’urgenza del presente, irretire dalle ferite del passato o immobilizzare dalla paure del futuro. Siamo chiamati a lasciarci conquistare e abitare dalla responsabilità di dare una testimonianza chiara e genuina sulla bontà e bellezza della vita con tutto il lavoro su di sé che ciò comporta: desideri, necessità e legami si staccano da me, sono pronta a tutto, a ogni luogo di questa terra nel quale Dio mi manderà, sono pronta in ogni situazione e nella morte a testimoniare che questa vita è bella e piena di significato (160).

Nell’esperienza di Etty si assiste di certo a quella che lei stessa definisce una crescita veloce (160) della fiducia. Anche nel momento in cui Etty teme di più per la sua vita e per il suo equilibrio – davanti all’eventualità di perdere il grande sostegno ed ispiratore della sua vita profonda – non cede alla paura ma dichiara: Anche in quel caso – se venisse a mancare Spier – bisogna proseguire. E la direzione è assai singolare: si indirizza là dove Dio per avventura mi manda ad aiutare come posso e non a macerarmi nel mio dolore e nella mia rabbia (155).

Nel pieno della tragedia, in cui sempre più chiara si fa la sensazione netta della minaccia incombente, Etty guarda alla propria esistenza comunque come un anello della e nella storia più ampia: Spesso ho la sensazione di vedere questo tempo in prospettiva, come una fase della storia di cui conosco già l’inizio e la fine che posso inquadrare nel tutto (181). In un momento in cui l’unica reale prospettiva e il non avere nessuna prospettiva Etty ritiene di aver potuto – esattamente in quell’ambiente che sta a metà tra l’inferno e il manicomio – scoprire in me stessa il gesto con cui si accosta il grande al grande non per sbarazzarci del suo peso che è grande in tutto ciò che è grande e infinito in tutto ciò che è incomprensibile: ma per poterlo ritrovare sempre in un luogo elevato, dove la sua vita continua a svolgersi indipendentemente dal nostro dolore e dal nostro smarrimento, che sono così limitati al confronto (181).

L’unica cosa che per Etty è degna di essere tenuta presente è questa sorta di responsabilità di fare da tramite al significato della vita – che continua indipendentemente - perché non vada perduto: Mi sembra di custodire un prezioso pezzo di vita, con tutta la responsabilità che me ne viene… devo cercare di mantenerlo intatto in questo tempo per poterlo trasmettere a un tempo migliore. E sottolinea: E’ l’unica cosa che conta e ne sono pienamente cosciente (180). Ma come rendere possibile tutto questo? Una condizione sembra quella di coltivare strenuamente la propria immagine di Dio come un Dio del futuro che per avventura/ad-ventura mi manda (155) al pari di tutti i profeti verso un tempo futuro in principio migliore. Laddove tutto si fa più incerto dovrebbe riproporsi il coraggio di dire «Eccomi manda me!» (Is 6, 8). Si rende necessaria una fiducia nel futuro di Dio, nell’ad-ventura che è Dio stesso distogliendo – accuratamente - lo sguardo dalla proprie paure, infatti se si proiettano le proprie preoccupazioni sulle varie cose che devono accadere, si impedisce a queste cose di svilupparsi in modo organico (164).

Puro misticismo a buon mercato? Sembra piuttosto una responsabilità a caro prezzo. Così continua, Ho una fiducia così grande: non nel senso che tutto andrà bene nella mia vita esteriore, ma nel senso che anche quando le cose mi andranno male, io continuerò ad accettare questa vita come una cosa buona (164). Laddove continuamente noi cerchiamo una coerenza logica ed esistenziale Etty mostra una via del tutto unica - ma assai promettente - in cui la coerenza e la fedeltà «alla Legge e ai Profeti» non si concretizzano in atti o pensieri o parole ma prima di tutto in un atteggiamento di fondo: Se tu affermi di credere in Dio devi anche essere coerente, devi abbandonarti completamente e devi avere fiducia. E proprio mentre il suo stesso maestro vacillava dicendo «Oh quelle preoccupazioni che abbiamo tutti!» Etty ribadisce: dobbiamo essere coerenti, se abbiamo fiducia dobbiamo averla fino in fondo (180).

Chi di noi non si fa cruccio di diventare e persino si vanta dicendo: "Io sono una persona coerente"?. Cosa significa veramente essere coerenti se non che bisogna essere sempre disposti a rivedere la propria vita, a ricominciare tutto daccapo (187). Il Cardinale Newman, uno dei più grandi testimoni della Tradizione e del suo sviluppo, diceva che «la saggezza è di chi ha saputo cambiare più volte». E ogni volta che si è chiamati ad un simile passo potremmo dire a nostra volta: Credo che la vita pretenda molto da me e che mi riservi anche molto, ma devo saper ascoltare la mia voce interiore devo rimanere onesta e aperta, e non sfuggire a quel sentimento (189). Accettare di vivere interamente il proprio travaglio interiore, sentendosi talvolta come sradicati da ogni contesto conosciuto e persino amato ma non ancora tra-piantati in una zolla nuova – forse ancora da vangare! – può essere assai esigente e duro ma è – talora – l’unico modo per essere fedeli a se stessi e a Dio e – in simili tempi che sono i nostri – non si può che pregare:

Mio Dio, è un tempo troppo duro per persone fragili come me.
So che seguirà un periodo diverso , un periodo di umanesimo.
Vorrei tanto trasmettere ai tempi futuri tutta l’umanità che conservo in me stessa,
malgrado le mi esperienza quotidiane.
L’unico modo che abbiamo di preparare questi tempi nuovi
È di prepararli fin d’ora in noi stessi.
Vorrei tanto vivere per aiutare a preparare questi tempi nuovi (179).

Ma dove comincia un anello? Dove si tocca la sua fine? E’ un mistero… poiché se «il mondo rotola melodiosamente dalla mano di Dio» allora anch’io vorrei rotolare melodiosamente dalla mano di Dio. E ora buona notte (28).

Oltre il mutismo

Necessità dell’ascolto secondo l’invito del profeta Geremia e libertà di parola per il gesto del Signore Gesù il quale risana un muto che «cominciò a parlare» (Lc 11, 14). Meraviglia unita a sdegno negli astanti, alcuni dei quali accusano Gesù di agire per conto del diavolo. Con il suo gesto il Signore smaschera i veri muti: tutti coloro che non ascoltando non sono mai capaci di cor-rispondere nella libertà e nell’audacia richiede ascolto ed accoglienza: «essi non ti ascolteranno, li chiamerai, ma non ti risponderanno» (Gr 7, 27). Il nostro Dio non vuole arruolarci in un esercito come soldatini muti e obbedienti ma ci invita a «raccogliere con» (Lc 11, 23) lui ogni seme di parola che crea relazione feconda quanto più profondamente radica nel silenzio.

Laddove i farisei cercano il controllo, togliendo lo spazio dell’inter-locuzione, il Signore crea invece spazi di libertà. Ma la libertà di parola non può mai essere disgiunta dalla responsabilità dell’ascolto: «Questo comandai loro: "Ascoltate la mia voce"» (Gr 7, 23). Tutto il viaggio interiore di Etty sarà come continuamente proteso e, più precisamente, come magnetizzato da questa voce interiore verso cui, continuamente e sempre di più, si volgerà obbediente, docile, amante per conferire ad ogni sua parola la forza di un gesto di salvezza per se stessa e per il mondo che la circonda. Mentre il chiasso, il terrore, il rincorrersi di supposizioni e di timori e di discussioni si intrecciano sull’orlo di un baratro pronto ad inghiottire confondendo tutto e tutti, Etty sembra attratta da qualcosa di profondamente altro: dentro di me c’è une melodia che a volte vorrebbe essere tradotta in parole sue. Ma per la mia repressione, mancanza di fiducia, pigrizia e non so che altro, rimane soffocata e nascosta. E poi mi colma di nuovo di una musica dolce e malinconica (67). Cosa mai normalmente vince nella nostra vita il chiasso della superficialità o questa invincibile così intima melodia che ci affranca dalla confusione? Cosa mai?!

Mentre i giorni si susseguono e vengono annotati gli avvenimenti più intimi e interiori, Etty scopre – ci fa scoprire – quanto tutto il lavoro proprio di ogni persona umana consista nel liberare da detriti e pietre l’amabile e dolce bocca di questo pozzo interiore da cui solo può sgorgare una parola creativa e sempre creatrice di novità e di speranza attinta direttamente a quella nuova, radiosa sorgente (188). Questa opera di scavo del proprio pozzo interiore in cui si nasconde la Pietra Scintillante che il Sublime Ruusboroeck ha mirabilmente cantato esige la "regola del Tempio" durante la cui costruzione «non si udì alcun rumore» (1Re 6, 7). Il pericolo di lasciarsi prendere dalla superficialità è sempre in agguato soprattutto quando la situazione si fa drammatica e la stanchezza pesante: Ho cominciato la giornata in modo stupido: parlando della «situazione». Come se esistessero parole adatte. Questo dono prezioso, questo giorno libero che ho, devo impiegarlo bene e non mettermi a parlare, e a turbare le persone intorno a me. Solo in questo modo Etty può essere garantita della cosa più importante per l’autenticità della sua vita: In quel manicomio io ascolto la mia voce interiore, e tiro diritto per la mia strada (185).

Solo tirando «decisamente» (Lc 9, 51) diritto per la propria strada Etty – ciascuno di noi quali discepoli del Signore Gesù – potrà ascoltare in verità, parlare con amore e, soprattutto, permettere all’altro di esistere restituendogli, come preziosissimo dono, la sua propria esistenza di persona capace – appunto – a sua volta di ascoltare e di parlare. Camminare nella storia con passo svelto e leggero al contempo, grave ed ilare, presente alle persone ma estraneo alla folla: Circa cento persone discutono in un piccolo ambiente ma io sono seduta in un angolino e leggo Rilke… (186). Sembra essere questo il segreto per fare della propria vita un luogo adatto all’insorgere di una parola imparentata – il più strettamente possibile – con la Parola.

Ma perché questo possa avvenire la condizione è chiara ed irrinunciabile: Ascoltarsi dentro. Non lasciarsi più guidare da quello che si avvicina da fuori, ma da quello che si innalza dentro. Ci si dovrebbe augurare anche per noi di poter dire: E’ solo un inizio, me ne rendo conto. Ma non è più un inizio vacillante, ha già delle basi (93). E tra le prima basi, le fondamenta di questo atteggiamento è una sensibilità crescente – necessariamente dolorosa e addolorata – alla qualità della parola: In me c’è un silenzio sempre più profondo. Lo lambiscono tante parole, che stancano perché non riescono ad esprimere nulla (187). Questo dolore deve esserci caro quanto lo è ogni buon indizio! Questa stanchezza deve rinfrancarci quale testimone della nostra estraneità ad ogni superficie e a qualsivoglia apparenza o comoda convenzione! Beati noi!

Per esortarci a una pratica chiara ed esigente Etty sottolinea: Bisogna sapere sempre più risparmiare le parole inutili per poter trovare quelle poche che sono necessarie. E questa nuova forma di espressione deve maturare nel silenzio (187). In quel medesimo silenzio in cui sembra rimanere misteriosamente avvolto il muto a cui Gesù restituisce la parola: egli non dice niente mentre i farisei si arrampicano disperati sulle loro congetture e sospetti infiniti. Per quanto possibile sarebbe bello creare anche nella nostra vita - così talora inutilmente caotica persino nei monasteri - un’atmosfera più propizia che inviti alla disciplina e alla bellezza: petali di rose sono sparsi fra i miei libri. Una rosa gialla s’è schiusa al massimo e mi fissa, grande e spalancata (187). Quale sfida più affascinante del creare uno spazio di bellezza, un’atmosfera di delicatezza e di rispetto della vita più vasta, più antica, più pura di noi stessi e che esige il silenzio non dei muti ma quello - sublime - degli ammutoliti nello spasimo del beatificante amore: vastità del frammento che fa spazio all’anima per sua natura alata e per vocazione in perenne viaggio verso altro…verso l’altro… l’ Altro… … sempre Oltre!

Etty, in una stupenda pagina del suo Diario, ci mette a contatto con questo misterioso cammino verso la qualità della parola ricevuta e donata: finalmente s-cambiata! Dopo aver con-ammirato alcune stampe giapponesi insieme ad un amico dice: Vorrei scrivere parole che siano organicamente inserite in un gran silenzio, e non parole che esistano solo per coprirlo e disperderlo: dovrebbero accentuarlo piuttosto… non un vuoto ma uno spazio che si potrebbe piuttosto definire ricco di anima. E aggiunge: Detesto gli accumuli di parole. In fondo ce ne vogliono così poche per dire quelle quattro cose che veramente contano nella vita (116).

Come Etty anche noi dovremmo sentire una certa ambizione: vorrei dire anch’io una piccola parolina (87). Ma questo diritto, questo dovere ha un prezzo: il giusto rapporto tra parole e silenzio – il silenzio in cui succedono più cose che in tutte le parole affastellate insieme mentre le parole dovranno servire soltanto a dare al silenzio la sua forma e i suoi contorni (116-117). Ciò che ci manca troppo spesso è quello sfondo muto su cui le parole possano ergersi come pietre miliari sovranamente mute eppure capaci di gridare (Lc 19, 40). Non ci resta che la preghiera, ci basti quell’invocazione che – notte e giorno – i cristiani d’Oriente elevano – con la fronte amorevolmente ricongiunta alla madre terra - durante questi santi giorni:

Mio Dio, Signore della mia vita
Liberami…
Dalle parole inutili…
Donami…
Un vero amore!

(Efrem Siro)