mercoledì 16 novembre 2011

Gertrude di Helfta - "Le Rivelazioni" - Volume 2 (Capp. 1-15)


Nove anni dopo aver ricevuto questi favori divini (1), intorno alla festa del Corpus Domini, mentre aspettava insieme alla Comunità il momento di portare il Corpo del Signore ad un’inferma, presa da un forte impulso dello Spirito Santo, afferrò la tavoletta che pendeva al suo fianco e incominciò a scrivervi di sua propria mano, quasi in azione di grazie e di lode al Signore, quanto ora riferiremo sui suoi colloqui col Diletto.

Casella di testo: (1) E cioè nel 1289. Allude alle grazie di cui si parla nei cc. 1, 3 e 23 del presente libro.

S. Gertrude la GrandeLe Rivelazioni, II, Capitoli 1-6

Casella di testo: 1 – La prima visita del Signore


L’abisso della sapienza increata invochi l’abisso dell’ammirabile onnipotenza (cf Sal 61,8) per esaltare la bontà incomprensibile che ti ha indotto a riversare il torrente della tua misericordia nella valle della mia miseria.

Mi trovavo nel mio venticinquesimo anno. Era il 27 gennaio, un lunedì, (oh giorno per me salutare sopra ogni altro!), pochi giorni prima della festa della Purificazione della tua castissima Madre. Ed ecco, verso l’ora dolcissima di Compieta, al principiare del crepuscolo, Tu o mio dio, verità più chiara di ogni luce e più intima a me di ogni mio più segreto pensiero, ti compiacesti di dissipare le spesse mie tenebre. Cominciasti col sedare con soavità e dolcezza il turbamento che da un mese avevi suscitato nel mio cuore. Tu lo avevi provocato, io penso, per abbattere quella torre di vanità e di curiosità che, pur portando, ahimè, e il nome e l’abito di religiosa, io ero andata innalzando con la mia superbia, onde almeno così trovar la via per mostrarmi la tua salvezza.

Nell’ora che ho detto, dunque, mi trovavo nel dormitorio. Ed ecco che, alzando il capo che avevo inchinato secondo l’uso dell’ordine per salutare una consorella più anziana che passava, mi accorsi della presenza di un giovanetto amabile e delicato che dimostrava circa sedici anni, tale nell’aspetto quale allora la mia giovinezza sarebbe stata lieta di vedere anche con gli occhi del corpo. Con volto sorridente mi disse con dolcezza: «Presto verrà la tua salvezza, perché ti consumi di dolore? non hai nessuno che ti consigli per lasciarti abbattere così dalla tristezza?» [Responsorio I della II Domenica di Avvento]. Mentre così diceva, benché avessi coscienza di essere fisicamente nel luogo che ho detto, mi parve di essere in coro, in quell’angolo in cui ero solita fare abitualmente la mia tiepida orazione, e là udii il seguito delle sue parole: «Ti salverò e ti libererò, non temere».

Mentre l’ascoltavo la sua destra fine e delicata prese la mia, quasi a confermare con una promessa queste sue parole. Poi aggiunse: «Hai lambito la terra coi miei nemici e hai succhiato il miele fra le spine. Ma ritorna a me e ti inebrierò al torrente della mia voluttà divina» (cf Sal 35). Mentre così diceva lo guardai e vidi tra lui e me, vale a dire tra la sua destra e la mi sinistra, una siepe che si estendeva all’infinito, così da non poterne vedere il termine né davanti né dietro a me. La siepe alla sua sommità era talmente difesa da un fitto groviglio di spine da non lasciare alcun varco verso il predetto giovane. Mentre perciò incerta esitavo, tutta presa dal desiderio e quasi venendo meno nell’attesa, Egli, afferratomi all’improvviso, mi sollevò senza alcuna difficoltà e mi collocò accanto a Sé. Riconobbi allora in quella mano, che poco prima mi aveva dato in pegno di promessa, la preziosa traccia di quelle piaghe che hanno abrogato tutti gli atti di accusa dei nostri nemici.

Ti adoro, ti benedico e rendo grazie come posso alla tua sapiente misericordia e alla tua misericordiosa sapienza, o mio Creatore e mio redentore! Ecco in qual modo cercavi di piegare l’indomita mia cervice al soave tuo giogo, adattando con dolcezza il rimedio alla mia infermità.

Da quel momento, rasserenata da una nuova luce spirituale, ho preso ad avanzare attratta dalla fragranza dei tuoi profumi, sì da trovar soave e leggero quel giogo che prima avevo giudicato impossibile portare.

Casella di testo: 2 – La luce del cuore

Ave, o mia salvezza, o luce dell’anima mia! Ti rendano grazie i cieli, la terra e gli abissi e tutto ciò che in essi contiene, per la grazia inusitata con cui mi conducesti a considerare l’interno del mio cuore. non me n’ero curata fino allora più di quanto mi curassi per così dire di scrutare l’interno dei miei piedi. Da quel momento vi scoprii molte cose che offendevano la tua somma purità e molti moti disordinati ed incomposti che ti impedivano di stabilire in me la tua dimora. E tuttavia né questi desideri, né questi moti, né tutta la mia miseria ti hanno respinto, o mio Gesù diletto, ché anzi spesso in quei giorni, quando accedevo alla vivifica mensa del tuo Corpo e del tuo Sangue, Tu mi degnavi della tua presenza visibile, benché ti vedessi soltanto come si vedono le cose nella prima incerta luce dell’alba. Tu sollecitavi con questa tua misericordiosa degnazione l’anima mia ad unirsi più intimamente a Te, a contemplarti con occhi più puri, a goderne con libertà più grande.

E poiché mi disponevo con ogni sforzo a conseguire questa grazia per la festa dell’Annunciazione di Maria – giorno in cui degnasti di sposare la nostra umana natura nel di lei seno purissimo – tu che prima di essere invocato rispondi: Eccomi! (cf Is 58,9), volesti fin dalla vigilia prevenirmi con le benedizioni della tua dolcezza durante il Capitolo [=la riunione della Comunità] che, a ragione della domenica, si teneva in quel giorno dopo Mattutino. Io non saprei ridire in qual modo Tu, o Sole sorgente che spandi dall’alto la tua luce, visitasti nella dolcezza della tua misericordia l’anima mia. Concedimi pertanto, o Datore di ogni bene, concedimi di immolare sull’altare del mio cuore un’ostia di esultazione, onde ottenga a me e a tutti i tuoi eletti di sperimentare sovente quella dolce unione e quell’unitiva dolcezza che mai prima d’allora mi era stato dato di conoscere. Io so qual fosse la mia vita prima di quel giorno e so che cosa sia stata dopo: confesso dunque in tutta verità che ciò avvenne per un dono del tutto gratuito elargito a chi lo aveva tanto demeritato.

Da quel giorno la dolce intimità del tuo amore ti rivelò a me con luce più chiara di quanto non avrebbe potuto farlo la severità dei tuoi castighi.

Non ricordo tuttavia di aver goduto di tale grazia fuori dei giorni in cui mi invitavi alle delizie della tua mensa regale. Se poi questo avvenisse per provvida disposizione della tua Sapienza o per negligenza mia, non posso discernere con chiarezza.

Casella di testo: 3 – La bellezza della dimora del Signore nell’anima

Così ti comportavi con me, così sollecitavi l’anima mia.

Un giorno, fra pasqua e l’Ascensione, ero andata poco avanti l’ora di Prima nell’orto, e seduta presso il vivaio dei pesci, contemplavo la bellezza di quell’angolo nascosto che mi piaceva per la limpidezza dell’acqua che vi scorreva, per il verde degli alberi che vi crescevano attorno, per gli uccelli e specialmente per le colombe che svolazzavano in libertà, e soprattutto per la gran pace che vi si godeva. Cominciai a domandarmi che cosa avrebbe potuto completare l’incanto di quel luogo che pur mi pareva perfetto e trovai che vi mancava soltanto l’intimità di un amico affettuoso, cordiale, socievole che rallegrasse la mia solitudine.

Allora Tu, o mio Dio, fonte di indicibili delizie, Tu che, come penso, avevi diretto l’inizio di questa mia meditazione, ne attirasti verso di Te anche la fine. Mi facesti comprendere infatti che, se io avessi per mezzo di una continua riconoscenza fatto risalire verso di Te il fiume delle tue grazie, e se, crescendo nell’amore della virtù io mi fossi rivestita come un albero vigoroso dei fiori delle buone opere, se ancora, disprezzando le cose terrene, avessi preso il volo come colomba verso quelle celesti per aderire a Te con tutta la mente, fatta estranea nei sensi al tumulto delle cose esteriori, oh, davvero il mo cuore sarebbe diventato allora per Te una splendida e gradita dimora!

Vi ripensai tutta la giornata, e la sera, al momento di andare a letto, messami in ginocchio per pregare, mi venne in mente all’improvviso quel versetto del Vangelo: «Se qualcuno mi ama osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e verremo a lui» (Gv 14,23). In quello stesso momento sentii che Tu eri realmente venuto nel mio cuore, nel mio cuore di fango! Oh potessi io, non una, ma mille volte, far passare sul mio capo tutta l’acqua del mare cambiata in sangue per purificare la sentina vilissima dell’anima mia che Tu, Maestà incomparabile, ha degnato eleggere a tua dimora! Oh potessi, e fosse pur subito, strapparmi il cuore dal petto per gettarlo a brani su dei carboni ardenti, sì che, purificato da ogni scoria, diventasse per te, non dico una degna, ma una non troppo indegna dimora!

Da quel momento Tu ti sei mostrato a me, o mio Dio, con un volto ora più dolce, ora più severo, secondo la maggiore o minor diligenza che mettevo nell’emendar la mia vita. Confesso però in tutta verità che quand’anche questa diligenza fosse stata perfetta – ciò che non fu mai, neppure per un momento – e quand’anche avesse perdurato tutto il tempo della mia vita, mai avrei potuto meritare di vederti anche una sol volta, sia pure con quell’aspetto severissimo che i miei trascorsi e i miei, ahimè, gravi peccati avrebbero meritato. Tu invece, nell’estrema tua dolcezza, spesso dopo le mie mancanze ti mostravi a me più triste che adirato, volendomi così far comprendere che la tua longanimità nel sopportare con tanta pazienza i miei numerosi difetti era superiore ancora a quella che nel tempo della tua vita mortale mostrarsi verso Giuda, il tuo traditore.

Da allora, per quanto mi sia distratta o anche compiaciuta nelle cose più vane, ogni volta che dopo ore, ahimè anche dopo giorni e, lo dico con dolore, anche dopo settimane sono rientrata in me stessa, sempre ti trovavo presente. Ma neppure per un istante da quell’ora fino a questo momento ,e sono già passati nove anni, ti sei sottratto a me, eccetto una volta sola, per undici giorni prima della festa di S. Giovanni Battista, durante la Messa Ne timeas Zacharia. Nella tua dolce umiltà e nella tua mirabile carità, vedendo che ero così stolta da non avvertire nemmeno che avevo perduto tanto tesoro – non ricordo infatti (a qual follia ero mai preda!) di averne provato alcun rincrescimento o di aver minimamente desiderato di ritrovarlo – volesti farmi sperimentare in me stessa questa parola di S. Bernardo: «Quando noi fuggiamo tu ci insegui, se ti voltiamo le spalle tu ti ripresenti davanti a noi; supplichi e sei disprezzato, ma nessuna confusione, nessun disprezzo può allontanarti, ché anzi, senza stancarti, continuamente ti adoperi per attirarci a quei gaudi che occhio mai non vide, orecchio non udì e il cuor dell’uomo nono sospetta». E come la prima volta mi avevi concessa questa grazia senza che io l’avessi meritata, così allora mi rendesti la letizia della tua presenza salutare, che ancora oggi perdura dopo che l’avevo positivamente demeritata: poiché il ricadere è peggio assai del cadere. Te ne sia resa quella lode e quell’azione di grazie che procede soavemente dall’Amore increato e che, incomprensibile ad ogni creatura, in Te rifluisce.

Per ottenere di poter conservare tanto tuo dono, ti offro quella sublime preghiera che la stretta della tua imminente passione, attestata dal sudore di sangue, ha reso così intensa, l’innocenza e la semplicità della tua vita così fervente, e l’amore infuocato della tua divinità così efficace.

Per virtù di questa perfetta orazione attirami e uniscimi tutta intimamente a Te. Se per necessita dovrò darmi alle cose esteriori, fa’ che mi ci presti soltanto, e che, dopo averle compiute a tua lode con la maggior perfezione possibile, subito ritorni tutta a cercarti nell’intimo del mio cuore con l’impeto di un torrente che, rimossa la diga, precipita a valle. Possa Tu sempre trovarmi intenta a Te come tu sei a me presente, e possa la tua misericordia condurmi, per questa via, a tutta quella perfezione a cui la tua giustizia può permettere che giunga un’anima gravata dal peso della carne e che tanto ha resistito alla tua grazia.

Fa’ che io spiri l’anima stretta fra le tue braccia e nel tuo bacio onnipotente, e fa’ che senza indugio essa si trovi colà dove, non circoscritto da spazio e non diviso, vivi nella tua gloria in una sempre rinnovata eternità, col Padre e con lo Spirito Santo, Dio vero per tutti i secoli immortali.

Amen.

Casella di testo: 4 – L’impressione delle sacre Stimmate di Cristo

Nei primi tempi, forse nel primo o secondo anno, durante l’inverno, trovai un girono in un libro una breve preghiera così concepita:

«Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente,

fa’ che con tutto il cuore, con ogni mio desiderio,

con animo assetato io aspiri a Te; fa che in Te respiri,

o Somma Dolcezza e Somma Soavità;

fa’ che con tutto il mio essere io aneli a Te,

o Suprema Beatitudine!

Scrivi, o Signore misericordiosissimo,

le tue piaghe nel mio cuore col tuo prezioso sangue,

perché in esse io legga insieme il dolore e l’amore tuo

e la loro memoria rimanga sempre nell’intimo del mio cuore

per eccitarvi una dolorosa compassione e

un ardente amore per Te.

Fa’ che ogni creatura mi lasci vuota e

che in Te solo possa trovare la mia dolcezza».

Questa breve preghiera mi piaceva assai e la ripetevo sovente; e Tu, che non disprezzi i desideri degli umili, mi stavi vicino preparandoti ad esaudirla. Poco tempo dopo infatti, in quello stesso inverno, trovandomi dopo il vespro in refettorio per la «collatione» serale [lettura da farsi dopo la refezione serale secondo la Regola di S. Benedetto], avvenne che fossi seduta accanto ad una persona a cui avevo in parte rivelato il mio segreto. Dirò fra parentesi, per il vantaggio spirituale di chi legge, che spesso, in seguito a tali confidenze, ho sentito crescere in me il fervore della devozione. Non saprei dire se fossi indotta a tali confidenze per effetto del tuo Spirito, o mio Signore e mio Dio, o se lo facessi spinta da un affetto puramente umano. Ho inteso dire però da una persona di molta esperienza, che è sempre più utile rivelare tali segreti a qualcuno che non soltanto ci dimostri un fedele affetto, ma sia insieme superiore a noi per anzianità e ci ispiri perciò anche un senso di riverenza. Ignoro dunque, come ho detto, per qual motivo lo facessi, e me ne rimetto a Te, o mio fedelissimo Dispensatore, il cui spirito più soave del miele è la forza che regge le schiere celesti. Se ciò provenisse da un affetto puramente umano, è ben giusto che mi immerga in un abisso di gratitudine tanto più profondo quanto maggiore è la degnazione con cui, o mio Dio, ha voluto unire l’oro della tua Maestà al fango della mia bassezza per potervi incastonare le gemme delle tue grazie.

In quel momento dunque stavo devotamente pensando a questa orazione, quando sentii che, indegna com’ero, mi veniva conferita dal cielo la grazia che da tempo chiedevo con questa preghiera. Sentii cioè in spirito che venivano fisicamente impresse nel mio cuore le venerande e adorabili stimmate delle Tue santissime piaghe, la cui virtù salutare Tu applicasti nell’anima mia offrendomele insieme come un calice inebriante d’amore.

Ma non in questo si esaurì per me, indegnissima, l’abisso della tua dolce misericordia, poiché dalla sovrabbondanza della tua munifica generosità io ricevetti ancora il dono memorabile di non andar priva di una speciale benedizione ogni volta che in spirito intendessi venerare questi segni del tuo amore recitando i cinque primi versetti del Salmo «Benedic anima mea».

Ricevetti infatti per il primo versetto: «Benedici anima mia», la grazia di poter deporre sulle piaghe dei tuoi piedi tutta la ruggine dei miei peccati e il nulla dei piaceri del mondo.

Per il secondo versetto: «Benedici e non dimenticare», ottenni di poter lavare in quel lavacro d’amore scaturito col sangue e con l’acqua [dal cuore del Signore trafitto sulla Croce dalla lancia] ogni macchia carnale ed di effimera dilettazione.

Per il terzo versetto: «Che perdona i tuoi peccati», mi fu dato, simile a colomba che si industria a fare il nido nel cavo della pietra, di poter riposare il mio spirito nella piaga della tua mano sinistra.

Per il quarto: «Che redime dalla perdizione l’anima mia», mi fu concesso di attingere con fiducia, nel tesoro che la tua mano destra mi offre, tutto ciò che manca alla perfezione della mia vita.

E così, magnificamente ornata, purificata da ogni peccato, arricchita di meriti, possa io per il quinto versetto: «Che riempie di beni l’anima mia», godere del tuo casto abbraccio . pur indegna che sono ma fatta degna di te – la tua desiderabilissima e dolcissima presenza.

Insieme a questa grazia, Tu mi concedesti inoltre ciò che detta orazione ti chiede, e cioè di poter leggere nelle tue piaghe il tuo dolore insieme e il tuo amore. ma, ahimè, per ben poco tempo: e non già perché tu mi abbia sottratto questo favore, ma perché la mia ingratitudine e la mia deplorevole negligenza han fatto sì che lo perdessi. Tu però nella immensa tua misericordia e nella tua copiosa bontà, dissimulando questi miei falli, mi hai conservato fino ad oggi senza alcun mio merito, e benché indegnissima, il primo e più grande di questi tuoi favori: l’impressione cioè delle tue sacre stimmate. Per questo dono sia a te gloria ed imperio, lode ed esaltazione per tutti i secoli eterni.

Casella di testo: 5 – La ferita d’amore

Sette anni dopo questa grazia, prima dell’Avvento, e certamente per tua disposizione o Autore di ogni bene, io avevo indotto una certa persona ad aggiungere nella preghiera che essa faceva ogni giorno per me davanti al Crocifisso queste parole:

«Per il tuo Cuore trapassato dalla lancia, o dilettissimo Signore,

trafiggi il suo cuore col dardo dell’amore tuo,

così che non possa più avere attacco per alcuna cosa terrena,

ma sia tutto posseduto dalla potenza della tua divinità».

Mosso, come credo, da questa preghiera, nella Domenica «Gaudete» [III d’Avvento] durante la Messa, mentre per tua misericordia, così disponendo la tua infinita liberalità, mi accostavo alla santa Comunione del tuo sacratissimo Corpo e Sangue, mi infondesti un tale desiderio di Te che fui costretta a prorompere in queste parole: «Signore confesso che per parte mia non son degna di ricevere il minimo dei tuoi doni; tuttavia per i meriti e i desideri di tutte le persone qui presenti, ti supplico di trapassare il mio cuore col dardo dell’amore tuo».

Subito sentii, sia per l’infusione di una grazia interiore, sia per un certo segno esterno apparso su di un’immagine che ti raffigurava crocefisso, che queste parole erano giunte al tuo Cuore.

Ritornata infatti al mio posto dopo aver ricevuto il Sacramento della vita, mi parve che dal lato destro di un Crocifisso dipinto sul mio libro, dal lato cioè della piaga del costato, uscisse come un raggio di sole foggiato a guisa di dardi che, a più riprese, dapprima si mostrava, poi si ritraeva, poi appariva di nuovo, sì da attirare dolcemente la mia attenzione. Il mio desiderio però non fu esaudito in quel giorno.

Il mercoledì seguente [il mercoledì delle Tempora d’Avvento, nel quale alla Messa, ricorre il Vangelo dell’Annunciazione], mentre dopo la Messa mi univo ai fedeli nell’onorare, se pur con minor devozione di loro, il mistero dell’adorabile tua Incarnazione e Annunciazione, ecco che Tu all’improvviso ti presentasti a me e mi trafiggesti il cuore dicendo: «Che tutti gli affetti dell’anima tua si concentrino qui: il tuo sommo diletto, la tua speranza, la tua gioia, il tuo dolore, il tuo timore e ogni altro affetto trovino qui, nel mio amore, il loro fondamento».

Subito mi venne in mente ciò che spesso avevo udito, e cioè che le piaghe bisogna lavarle, ungerle e fasciarle. Ma tu non mi insegnasti allora come potessi compiere questi uffici: me lo insegnasti più tardi per mezzo di un’altra persona che, ne son certa, aveva con bene maggiore delicatezza e maggior costanza di me avvezzato l’orecchio del suo cuore a cogliere il tenue bisbiglio delle tue amorose parole.

Essa mi consigliò di attingere nella continua e pia meditazione dell’amore del tuo Cuore trafitto sulla Croce, l’acqua della devozione che l’impeto della tua ineffabile carità ha ivi fatto scaturire a lavacro di ogni offesa – di cercare in questo Cuore il balsamo della riconoscenza che la dolcezza del tuo amore inestimabile vi ha istillato a rimedio di ogni avversità – e di servirmi della fascia della giustificazione, tessuta dalla fortezza della tua incomprensibile carità, come vincolo di indissolubile unione con Te nei miei pensieri, nelle mie parole e nelle mie opere.

O mio Dio, che la forza di quell’amore la cui pienezza abita in Colui che siede alla tua destra e che si è fatto ossa delle mie ossa e carne della mia carne, supplisca a tutto ciò che la mia maliziosa nequizia può aver tolto alla forza di questa devozione. Per Lui, nella virtù dello Spirito Santo, ci dai di poterci rivestire della sua stessa nobile compassione, umiltà e reverenza; per Lui dunque ti offro il mio dolore per la disgrazia di aver tante volte offeso la tua divina bontà in pensieri, parole e opere e specialmente per essermi servita dei predetti tuoi doni con tanta infedeltà e irriverente negligenza. Ahimè! se Tu non mi avessi dato per tuo ricordo, indegna come sono, anche un filo solo di stoppa, avrei pur dovuto riguardarlo con maggior rispetto e reverenza di quanto ne abbia avuta per questi tuoi doni!

Tu lo sai, o Dio che mi conosci nell’intimo: se ho potuto indurmi, non per mia iniziativa, ma anzi contro ogni mia inclinazione personale, a stendere questa relazione, è solo perché ho così poco approfittato delle tue grazie che non posso risolvermi a credere che mi siano state elargite per me sola, non potendo la tua eterna sapienza venir frustrata da alcuno. Fa’ dunque, o Datore di ogni bene che mi hai gratuitamente elargito doni così indebiti, che, leggendo questo scritto, il cuore di uno almeno dei tuoi amici sia commosso al pensiero che lo zelo delle anime ti ha indotto a lasciare per tanto tempo una gemma di valore così inestimabile in mezzo al fango abominevole del mio cuore. Che egli lodi ed esalti la tua misericordia e ti dica col cuore e colla bocca: «Te, o Dio, Padre ingenito da cui tutto procede. Te a buon diritto lodano tutte le creature! A te onore e imperio, benedizione e gloria ecc.» [antifone dell’Ufficio della SSma Trinità]. E supplisca così in qualche modo alla mia insufficienza.

Qui essa cessò di scrivere fino al mese di ottobre (1)

(1) Nota del cod. Moguntino, riportata nell’edizione di Lanspergio

Casella di testo: 6 – Una più sublime visita del Signore nel giorno di Natale

O inaccessibile e ammirabile altezza di onnipotenza! O profondità inscrutabile di abissale Sapienza! O immensa ed agognata ampiezza di carità! Con quale impeto di torrenti vivificanti della tua divinità più dolce del miele si sono gonfiati per riversarsi in tanta copia su di me, misero verme di terra strisciante sulla sabbia dei miei difetti e delle mie negligenze! Per essi mi è stato dato di poter gustare anche nell’esilio della mia peregrinazione terrena, se pur nella limitata misura delle mie capacità, il preludio di questa beatificante delizia e di quella soavissima dolcezza per le quali chi aderisce a Dio diventa uno stesso spirito con Lui (1Cor 6,17). Sì, è stato concesso a me, piccolo atomo di polvere, di assaporare qualche goccia di quell’infinita beatitudine che si effonde senza misura. Ed ecco in qual modo.

Era la notte sacratissima della Natività del Signore, la notte in cui per tutto l’universo, i cieli, fatti melliflui, stillano sulla terra la dolce rugiada della divinità. La mia anima, simile ad un vello esposto sull’aia della carità e tutto impregnato da tal celeste rugiada [cf Gd 6,37], era assorta nella contemplazione, quasi desiderasse, con la sua devozione, prestare il suo ministero a quel parto divino in cui, a guisa di stella che emette il suo raggio, la Vergine diede al mondo un Figlio, vero Dio e vero Uomo.

Mi parve ad un tratto che mi venisse presentato e che io accogliessi nel cuore un bambinetto appena nato, nel quale doveva certo esser nascosto un dono di somma perfezione, il dono per eccellenza.

La mia anima dunque l’accolse in sé, ed ecco che all’improvviso le parve di trovarsi tutta mutata in Lui quasi sotto l’apparenza di uno stesso colore, se posso chiamare colore ciò che non può essere paragonato ad alcuna specie sensibile. Essa ricevette allora l’intelligenza di quella ineffabile dolcissima parola: «Dio sarà tutto in tutti» (1Cor 15,28): sentiva infatti di contenere in sé, nel suo intimo, il suo Diletto, e godeva e si rallegrava della dolce presenza di uno Sposo che le era fonte di così gaudiosa dolcezza. Bevve perciò con avida sete le seguenti parole che Dio le fece udire: «Come io sono, in quanto Dio, la figura della sostanza di mio Padre (cf Eb 1,3), così tu sarai la figura della mia sostanza in quanto uomo. Tu riceverai nella tua anima deificata l’influenza della mia Divinità, come l’aria riceve i raggi del sole, e, penetrata fino al midollo da questa luce unificante, diventerai capace di una più intima unione con Me».

O balsamo inestimabile della Divinità che da ogni parte ti spandi in torrenti di amore, che eternamente germini e fiorisci in una effusione che tocca la sua pienezza in questa fine dei tempi!

O virtù invincibile della destra dell’Altissimo per cui un fragile vaso ignominiosamente rigettato a motivo dei suoi vizi ha potuto accogliere in sé questo preziosissimo balsamo!

O testimonianza irrefragabile della sovrabbondante bontà di Dio che non mi ha mai abbandonato quando erravo nei tortuosi sentieri del vizio, e mi ha fatto conoscere, per quanto la mia miseria poté esserne capace, la dolcezza di questa beatissima unione!

7 - Una più intima unione della sua anima con Dio

Qualche tempo dopo, nella santissima festa della Purificazione, mentre giacevo a letto dopo una grave infermità e, verso l’alba mi rammaricavo fra di me, tutta mesta, di dover rimanere priva per la mia debolezza fisica della visita divina di cui spesso ero stata favorita in tal giorno, ebbi la consolazione di udire da Colei che è la nostra Mediatrice presso il Mediatore unico fra Dio e gli uomini (cf 1Tm 2,5), le seguenti parole: «Tu non ricordi di aver fisicamente sofferto dolori più acuti di quelli che hai provato in questa malattia: ebbene, sappi che non hai mai neppure ricevuto dal mio Figliolo dono più grande di quello che con la presente infermità corporale ti ha preparato a ricevere».

Fui molto sollevata da queste parole; ed ecco che poco prima dell’ora della Processione, mentre, dopo aver ricevuto il Sacramento della vita, me ne stavo tutta intenta alla presenza del Signore in me, vidi che la mia anima, simile ad una cera sciolta dolcemente al fuoco, era posta davanti al petto del Signore pronta a ricevervi un sigillo, e che ad un tratto veniva ed esso applicata entrando in parte dentro a quel sacrario in cui la pienezza della Divinità abita corporalmente (cf Col 2,9) per ricevervi l’impronta della fulgida e sempre tranquilla Trinità.

O Dio, brace che consumi, Tu mi hai mostrato e poi comunicato il vivo ardore che è in Te quando, divampando sull’umido e lubrico terreno dell’anima mia, Tu facesti inaridire ogni acqua di piaceri mondani, e sciogliesti con la tua vampa la rigidezza di quell’attaccamento al mio proprio giudizio a cui il tempo aveva conferito tanta forza!

O Fuoco consumante che non divampi contro i vizi se non per infondere nell’anima la soave unzione della tua grazia, in Te, e in Te soltanto, possiamo trovare la forza di riformarci a tua immagine e somiglianza!

O Fornace ardente, attraverso la quale ci è dato giungere alla beatifica visione della pace vera, Tu cambi con la potenza della tua azione le nostre scorie in oro puro ed eletto quando l’anima, stanca di fallaci visioni, si induce a cercar con tutte le sue forze Te, suo sommo Bene e vera Verità!

Casella di testo: 8 – Unione ancora più intima

La domenica seguente Esto mihi [Domenica di Quinquagesima], durante la Messa, Tu eccitasti i desideri della mia anima per farla aspirare ai favori più sublimi di cui volevi gratificarla. E lo facesti per mezzo di due parole del Responsorio Benedicens benedicam tibi: Ti colmerò di benedizione, e del versetto di un altro Responsorio, il nono: Tibi enim et semini tuo dabo ha regionesi: Darò questa terra a te e ai tuoi discendenti. Mentre infatti lo si recitava Tu, ponendoti la mano sul petto, mi indicasti dove si trovava questa terra promessa dalla tua infinita liberalità.

O beata terra che colmi di felicità i tuoi abitanti, o terra ricca di benedizioni, campo di delizie il cui più piccolo seme può soddisfare a sazietà la fame di tutti gli eletti procurando loro tutto ciò che v ipuò essere di desiderabile, di amabile, di delizioso, di giocondo, di soave per il cuore dell’uomo!

Mentre ero intenta, se non come dovevo almeno come potevo, allo svolgimento dell’Ufficiatura, ecco apparirmi la benignità ed umanità del Salvatore nostro Dio, non per merito di opere di giustizia con cui io, indegna, potessi meritare tanta grazia, ma per l0ineffabile sua misericordia, che con una gratuita rigenerazione mi rese capace, nonostante la mia estrema vilezza e indegnità, di una più profonda unione con Lui: unione davvero stupenda e tremenda, degna di amore e di adorazione, celeste ed inestimabile.

Per quali miei meriti, mio Dio, o per quale tuo occulto giudizio è ciò avvenuto? Come mai, Signore mio dolcissimo, che, dimentico della tua dignità, sei incline solo a condiscendere, come mai il tuo amore a guisa di un amore umano che non sopporta indugio di riflessione né freno di ragione, ti ha portato, se posso osare di esprimermi così, a tale folle ebbrezza da congiungere cose tanto dissimili? Ma ben piuttosto convien dire che la soave bontà, che ti è connaturale ed ingenita, come tocca da quella dolce carità, che non solo ti induce ad amare, ma fa di Te l’Amore per essenza e ti ha spinto un giorno a salvare tutto il genere umano, ti ha ora indotto a chiamare dall’estrema sua bassezza una miserabile creatura, bisognosa di tutto, spregevole per vita e costumi, onde farla partecipe della tua regale e divina grandezza.

Tu volesti con questo accrescere la fiducia di tutti coloro che appartengono alla tua Chiesa; e questo io auguro ad ogni cristiano per amore del mio Signore, sperando che nessuno dia al prossimo lo scandalo che io ho dato per il cattivo uso che ho fatto dei Tuoi doni.

Mi parve dunque – ho già detto altra volta che le cose invisibili di Dio possono essere afferrate dall’intelligenza per mezzo delle cose sensibili – mi parve dico, che da quel lato del petto del Signore nel quale, il giorno della Purificazione, Egli aveva accolto l’anima mia sotto forma di cera ammollita al fuoco, emanassero con forza come delle gocce di sudore, quasi che per la violenza del calore interno la suddetta cera si fosse del tutto liquefatta. Queste gocce però per una virtù mirabile e misteriosa venivano riassorbite in questo divino sacrario, quasi a rivelare l’invincibile forza di espansione e di attrazione che l’amore aveva racchiuso nelle imperscrutabili profondità di quel Cuore.

O solstizio eterno, mansione sicura, luogo che racchiudi in Te ogni delizia, paradiso di perenne gaudio! O torrente di diletti inestimabili che attiri con la grazia della primavera in fiore, alletti col suono e la melodia di una musica spirituale, ricrei col profumo di vivificanti aromi, inebrii con la penetrante dolcezza di mistici sapori, trasformi con l’ammirabile soavità dei tuoi santi amplessi! O tre volte felice, quattro volte beato, e, se posso esprimermi, mille volte santo chi sotto l’impulso della grazia, merita di giungere a Te con mani innocenti e labbra e cuore puri. O quali cose mai gli è dato vedere, udire, odorare, gustare, sentire! Ma perché cercare di balbettarne qualcosa con la mia lingua impedita? Se col favore della divina bontà sono stata ammessa in qualche modo a goderne, tuttavia, avvolta come sono da ogni parte, quasi da spesso cuoio, dalla scorza dei miei vizi e delle mie negligenze, non ho potuto afferrare che l’ombra di queste divine realtà, della cui sovraeminente eccellenza tutta la scienza angelica ed umana riunita insieme non riuscirebbe a dire neppure una sola parola

Casella di testo: 9 – L'inseparabile unione della sua anima con Dio

Non molto tempo dopo, e cioè a metà Quaresima, mi trovavo di nuovo a letto per una grave infermità. Una mattina, tutte essendo occupate chi in una cosa chi in un’altra, mene stavo sola sola, quando il Signore, che non abbandona chi è abbandonato da ogni umano conforto, degnò di apparirmi avverando le parole del profeta: «Sono con lui nella tribolazione» (Sal 90,15). Egli mi indicò nella parte sinistra del suo costato una fonte di acqua che aveva insieme la solidità e la trasparenza del cristallo e che pareva sgorgare dalle profondità del suo Cuore. Continuando a scaturire dal suo sacro petto, essa lo ricopriva a guisa di una collana scintillante di riflessi di porpora e d’oro. E il Signore mi disse: «La presente infermità ha santificato l’anima tua così che d’ora innanzi, ogni qualvolta per amor mio consacrerai al servizio del prossimo i tuoi pensieri, le tue parole e le tue azioni, non per questo ti allontanerai da me più di quanto se ne allontani quest’acqua che ti ho mostrato. E come nella sua cristallina purezza essa si adorna di questi riflessi color di porpora e d’oro, così la cooperazione della mia divinità raffigurata nell’oro e la perfetta pazienza della mia umanità designata nella porpora mi renderanno gradita ogni tua intenzione».

O dignità di quell’atomo di polvere che la Gemma divina, la più preziosa delle gemme del cielo, si degna di sottrarre al fango della strada per incastonarsi in esso!

O eccellenza di quel fiorellino che questo Raggio di Sole degna di far spuntare in luoghi paludosi per riflettere in esso il suo splendore!

O felicità di quell’anima beata e benedetta che il Signore della Maestà tanto apprezza da non disdegnare di abbassarsi, benché piccola, a crearla, Lui Creatore onnipotente! Di quell’anima dico che, se pur nobilitata dall’immagine e somiglianza divina, resta pur sempre, in quanto creatura, a una distanza infinita dal suo Creatore!

E mille volte beata perciò quell’anima a cui è dato persistere in quello stato a cui io temo di non esser pervenuta, haimè, neppur per un momento! E però prego la divina clemenza di concedere anche a me un qualsivoglia piccolo dono di grazia per i meriti di coloro che essa, come spero, ha mantenuto in tale stato per un lungo periodo di tempo.

O dono che supera ogni dono, poter in questo sacrario saziarsi a piacimento con gli aromi divini! Potersi appieno inebriare, anzi saturare, in questo delizioso tinello, col liquore della carità, fino a non voler più muovere i passi verso i luoghi in cui si sospetti che possa svanire l’efficacia di così preziosa aroma! Oh, poter portare con sé, quando la carità costringa ad allontanarsene, almeno qualcosa della sua virtù, onde poter comunicare anche agli altri la straordinaria dolcezza di questa divina fragranza!

Io credo, o Signore Iddio, che la tua onnipotenza possa elargire questo dono a tutti i tuoi eletti e non dubito che, nella benignità del tuo amore, tu voglia darlo anche a me. Come però Tu possa darmelo, indegna come sono, è un mistero della tua inscrutabile sapienza che io non valgo ad investigare. Ma glorifico ed esalto la sapienza e la bontà della tua onnipotenza, lodo e adoro l’onnipotenza e la bontà della tua sapienza, benedico e ringrazio, o mio Dio, la sapienza e l’onnipotenza della tua bontà, perché dalla tua munificenza sempre ho ricevuto tutte le grazie che potevano essermi accordate, in una misura che supera infinitamente ogni mio possibile merito.

Casella di testo: 10 – L’ispirazione divina

Giudicavo così inopportuno di continuare a scrivere queste cose che non potevo indurmi in alcun modo a consentire in questo alla voce interiore(1). Differii dunque di farlo fino all’Esaltazione della Santa Croce, e in questo giorno, durante la Messa, già avevo preso la decisione di applicarmi ad altro lavoro, quando il Signore mi fece capire la ragione con queste parole: «Sappi che non uscirai dal carcere del corpo finché non ti sarai decisa a pagare anche quest’obolo che ancora ritieni».

Andavo tuttavia pensando fra me che, in qualche modo, se non per iscritto almeno con la parola, già avevo fatto servire i doni di Dio a vantaggio del prossimo; ma il Signore mi oppose le parole che in quella stessa notte avevo udito a Mattutino: «Se il Signore avesse destinato la sua dottrina soltanto ai suoi contemporanei, si sarebbe accontentato di parlare e non avrebbe fatto scrivere nulla: invece i suoi insegnamenti sono stati scritti a utilità di molti».

E il Signore aggiunse: «Non contraddire: voglio che in questi ultimi tempi nei quali ho stabilito di effondere le mie grazie su molte anime, i tuoi scritti siano una testimonianza irrefragabile della mia divina bontà».

Sotto il peso di questo comando, cominciai a pensare tra me quanto fosse difficile per non dire impossibile rendere con parole adatte, senza pericolo di scandalo per la mente umana, il senso delle cose che già ho raccontato(2).

Ebbi allora l’impressione che il Signore, venendo incontro alla mia pusillanimità, facesse discendere sulla mia anima come una pioggia abbondante. Ma, miserabile creatura come sono, simile ad una piantagione novella che, ormai appassita, si piega verso terra, non riuscii a trar profitto da quella abbondante irrigazione. Afferrai solo alcune parole pronunciate con gran forza, delle quali però non riuscii a penetrare il senso, onde sempre più oppressa, mi chiedevo che cosa mai stesse per accadere.

Ma la tua tenera bontà, o mio Dio, volle con la consueta dolcezza sollevarmi e consolarmi con queste parole: «Poiché questo scroscio di pioggia ti sembra inutile, ecco: ti stringerò al mio cuore per istillarti poco per volta, con soavità e dolcezza, e nella misura della tua capacità, le grazie che ti occorrono».

O Signore mio Dio, confesso che tu mi hai dato perfetto compimento alla tua verissima promessa! Ogni mattina infatti, nell’ora più adatta, per quattro giorni di seguito, Tu mi ispirasti una parte delle cose che ho scritto, con tanta chiarezza, con tanta soavità che, pur non avendoci pensato prima, mi fu possibile stenderle senza alcuna fatica, come se le avessi avute in mente da lunghissimo tempo.

Lo facesti però con misura, poiché, una volta finito il compito del giorno, non riuscivo più a trovare anche applicandomi con tutte le forze, una sola di quelle espressioni che il giorno dopo dovevano venirmi con tanta abbondanza e senza sforzo alcuno. Tu volesti così moderare e dirigere la mia impetuosità, secondo quel detto che non si deve dare all’azione in tal modo che la contemplazione abbia a scapitarne.

È così, o Signore, che Tu ti mostri geloso della mia salvezza in ogni circostanza, permettendomi cioè a volte di gustare il giocondo amplesso di Rachele senza perciò privarmi della gloriosa fecondità di Lia(3). Che il tuo sapiente amore, o mio Dio, mi permetta di compiere come a te piace e l’una e l’altra cosa.

Gertrude vuole qui rendere conto di una interruzione nella stesura del presente libro II (interruzione che il copista ha rilevato alla dine del c. 5). Essa non voleva più continuarne la redazione, ma ebbe dal Signore, nel giorno dell’Esaltazione della Croce (14 settembre) l’espresso comando di riprenderla, come qui si riferirà, e stese allora nei quattro giorni successivi i quattro capitoli che precedono (6-7-8-9). Il presente c. 10 rappresenta dunque una specie di parentesi giustificativa, e il filo della narrazione riprenderà con il c. 11.

Nei quattro capitoli di cui alla nota precedente.

Cf Gen 29-30: Rachele era la moglie amata di Giacobbe che fu sterile per molti anni, mentre l’altra moglie, Lia,era feconda.

Casella di testo: 11– Un ardito assalto del nemico

Quante volte e in quanti modi durante questo tempo mi hai fatto provare la gioia della tua salvifica presenza! Con che larga benedizione di dolcezza hai prevenuto la mia miseria, soprattutto durante i tre primi anni e in modo speciale quando ero ammessa a ricevere il tuo Corpo e il tuo Sangue prezioso! Poiché non posso renderti, o mio Dio, neppure l’uno per mille, mi affido a quell’eterna, immensa, immutabile azione di grazie per la quale, o fulgida e sempre tranquilla Trinità, da Te, per Te e in Te soddisfi pienamente ogni nostro debito.

Simile ad un granello di polvere mi nascondo in questa azione di grazie e ti offro, per mezzo di Colui che siede alla tua destra rivestito della mia natura, il ringraziamento che in Lui mi hai dato di poterti offrire. Te l’offro per mezzo suo, nello Spirito Santo, per tutti i benefici di cui mi hai colmata, e soprattutto per il luminoso ammaestramento col quale mi hai rivelato la mia insipienza, facendomi comprendere in qual modo io offuscavo la purezza dei tuoi doni.

Un giorno infatti, mentre assistevo ad una Messa durante la quale dovevo comunicarmi, Tu ha degnato farmi sentire la dolcezza della tua presenza, e, servendoti per istruirmi di un’immagine sensibile, ti presentasti a me con l’aspetto di chi è arso dalla sete, chiedendomi da bere. Io mi dolevo di non poterti soccorrere, perché nonostante tutti i miei sforzi non riuscivo a trarre dal mio cuore inaridito neppure una goccia di compassione.

Mi parve allora che Tu mi porgessi di tua propria mano una coppa d’oro. Io la presi, ed ecco che il mio cuore all’improvviso si sciolse in un flotto impetuoso di lacrime ardenti. In quell’istante vidi alla mia sinistra un essere odioso che mettendomi in mano, senza parere [cioè senza il mio consenso], qualche cosa di avvelenato e di amaro, fece in modo che io lo lasciassi cadere nel calice, per corromperne il vino. Subito si sollevò nel mio cuore un moto così impetuoso di vanagloria, da farmi comprendere con evidenza quale sia l’astuzia con cui l’antico avversario ci assale quando lo spinge l’invidia dei doni che largisci alle tue creature.

Ma siano rese grazie alla tua fedeltà, o mio Dio, siano rese grazie alla tua protezione, o Dio vero e uno, o Verità Una e Trina, o Trina e Una Divinità che non permetti che veniamo tentati di là dalle nostre forze! Tu, per esercitarci nelle virtù, concedi qualche volte al nemico la facoltà di privarci con la tentazione, ma se vedi che contiamo con fiducia nel tuo aiuto, fai tua la nostra causa e nella tua immensa generosità, riservando a Te la lotta, attribuisci a noi la vittoria. Tu ci chiedi soltanto di aderire a Te con la nostra volontà, in forza di quel libero arbitrio che Tu non permetti ci venga tolto dal nemico e che non vuoi Tu stesso forzare, conservandocelo con la tua grazia sopra ogni altro tuo dono ad aumento del nostro merito.

In un’altra circostanza e per mezzo di un’altra immagine, Tu mi insegnasti che chi presta al nemico un facile consenso accresce in lui l’audacia. Per tal ragione la tua ammirabile giustizia ti costringe talvolta a nascondere in qualche modo la tua potenza e la tua misericordia nei pericoli in cui siamo incorsi per nostra negligenza. Quanto più pronta invece è la nostra resistenza al male, tanto più utile, efficace e felice è l’effetto che conseguiamo.

Casella di testo: 12 – La pazienza con cui Dio sopporta i nostri difetti

Ti rendo anche grazie, mio Dio, per un’altra visione non meno gradita che utile con la quale mi facesti conoscere con quanta pazienza Tu sopporti i nostri difetti, pur di vederci emendati e farci un giorno partecipi della tua beatitudine.

Una sera mi ero adirata, e la mattina seguente prima che facesse giorno, avendo avuto agio di darmi all’orazione, Tu mi apparisti sotto un aspetto insolito, come una persona estenuata di forze e priva di ogni soccorso.

Poiché mi rimordeva la coscienza per la caduta del giorno prima, cominciai a riflettere con dolore che indegna cosa fosse l’offendere Colui che è la santità e la pace seguendo l’impulso di una passione viziosa. E pensai che sarebbe stato meglio, anzi giunsi persino a desiderare, che Tu non fossi venuto in quell’ora (in quell’ora soltanto però!) in cui avevo il rimorso di non aver resistito al nemico che mi spingeva a sentimenti così contrari alla tua santità.

Ma ecco la risposta che Tu mi desti: «Come un malato che è riuscito a farsi portare ai raggi del sole si consola al sopraggiungere improvviso di un temporale, con la speranza del pronto ritorno del bel tempo, così Io, vinto dal tuo amore, voglio rimanere con te anche durante le tempeste delle tue passioni, in attesa che il pentimento riporti il sereno e ti diriga verso il porto dell’umiltà».

La mia lingua non vale ad esprimere quale abbondanza di grazia la prolungata tua presenza mi abbia elargito in quest’occasione! Possa supplirla, te ne prego, l’affetto del cuore, e da quell’abisso di umiltà in cui mi ha attirato la degnazione dell’amor tuo, m’insegni a far risalire verso la tua immensa misericordia la mia azione di grazie.

Casella di testo: 13 – La custodia del cuore

Confesso ancora al tuo amore, o Signore benignissimo, che anche in altro modo ti adoperasti per scuotere il mio torpore. Ti servisti bensì dapprima dell’intermediario di un’ altra persona, ma poi compisti da solo l’opera tua con non minor degnazione che misericordia.

Questa persona mi fece osservare che i primi a trovarti appena nato, secondo la narrazione del Vangelo, furono i pastori; e poi, da parte tua, mi disse che se desideravo veramente trovarti anch’io dovevo vegliare sui miei sensi come i pastori vegliavano sui loro greggi.

Non fui molto soddisfatta del consiglio. Lo trovavo inopportuno per me, perché sapevo che Tu mi inclinavi a servirti per amore e non già come un pastore mercenario serve il suo padrone.

Continuai a ripensarci tutto il giorno fino a Vespro con un senso di abbattimento spirituale, ed ecco che dopo Compieta, essendomi raccolta in preghiera al mio solito posto, Tu addolcisti con questo pensiero la mia tristezza: Una sposa può ben occuparsi di dar da mangiare ai falconi del suo sposo senza per questo venir privata delle tue carezze. Allo stesso modo anch’io se mi applicassi a custodir i miei sensi e i miei affetti, certo non per questo verrei privata della dolcezza della tua grazia.

Tu mi desti allora, sotto forma di una verga di fresco recisa, lo spirito del timore, affinché non allontanandomi mai neppure per un momento dalle tue braccia potessi, senza danno, attraversare le impervie contrade in cui sogliono smarrirsi gli affetti umani. Ed aggiungesti che se qualche cosa cercasse di far deviare i miei affetti, sia destra per mezzo della gioia e della speranza, sia a sinistra col dolore, il timore e la collera, subito mi servissi della verga del tuo timore e, richiamato al mio cuore per mezzo del raccoglimento dei sensi quell’affetto, lo penetrassi col calore della carità e te l’offrissi in saporoso sacrificio così come ti si offrirebbe il sacrificio di un agnellino appena nato.

Ahimè,ogni qualvolta da allora, spinta dalla mia malizia, dalla mia leggerezza e dalla mia vivacità nel parlare e nella’gire, ridavo la libertà a ciò che prima ti avevo offerto, sempre ho avuto l’impressione di strappartelo per così dire di bocca per darlo al tuo nemico. Eppure Tu, nel frattempo, continuavi a guardarmi con tanta serena bontà come se, non sospettando neppure il mio tradimento, Tu pensassi che io lo facessi per gioco.

Per tal via richiamasti sovente il mio cuore a tanta dolcezza di commozione e di pietà, da farmi persuasa che con nessuna minaccia avresti mai potuto indurmi a un desiderio di correzione e a un proposito di emendazione altrettanto grande e fermo.

Casella di testo: 14 – L’utilità della compassione

Una volta, nella Domenica precedente la Quaresima (1) mentre si intonava la Messa «Esto mihi…Sii per me un luogo di rifugio», credetti di intendere che, perseguitato e tormentato da molti tuoi nemici Tu mi chiedessi con le parole di questo Introito di accoglierTi e di lasciarTi riposare nel mio cuore. E per i tre giorni successivi, ogni qualvolta mi raccoglievo internamente, mi pareva di vederti riposare sul mio petto come un povero infermo. Non trovai in questi tre giorni nulla che potesse offriti un più alto sollievo che il darmi per amor tuo alla preghiera, al silenzio e alla mortificazione per la conversione di coloro che vivono secondo lo spirito del mondo.

(1) E cioè la Domenica di Quinquagesima.

Casella di testo: 15 – Riconoscenza per la grazia

Nella tua bontà ti degnasti rivelarmi con la luce della tua grazia che l’anima, finché rimane nel fragile involucro del corpo, si trova avvolta come in una nube, così come una persona racchiusa in un’angusta stanza sarebbe da ogni parte circondata dal vapore che in essa si producesse. Quando però il corpo viene colpito da qualche male, attraverso al membro paziente si infiltra nell’anima come un raggio di sole che mirabilmente la rischiara. Quanto più il male è esteso e grave, tanto più chiaro è il raggio di luce che inonda l’anima. Le ferite che il cuore incontra nell’esercizio dell’umiltà, della pazienza e simili, sono quelle che, toccando l’anima più profondamente e più da vicino, le apportano maggior copia di luce. Sovra ogni altra cosa però la rasserena e la rischiara la pratica delle opere di carità.

Grazie ti siano rese, o Amico degli uomini, di avermi in tal modo spesso attirata alla pratica della pazienza. Ma, ahimè, mille volte ahimè, ben raramente e ben poco ho corrisposto alla tua grazia e certo mai nel modo in cui avrei dovuto corrispondervi! Tu conosci, o Signore, il mio dolore, la mia confusione e il mio abbattimento al riguardo, e sai quanto il mio cuore desideri che altri supplisca alle mie deficienze.

Un’altra volta durante la Messa, mentre stavo per comunicarmi, avendomi Tu concesso di godere del solito della tua presenza, io mi sforzavo di capire che cosa potessi fare per ricambiare almeno in parte tanta tua degnazione. O Maestro sapientissimo: «Desideravo essere io stessa anatema per i miei fratelli» (Rm 9,3).

Io avevo ritenuto fino allora che, secondo quanto mi avevi lasciato credere, l’anima risiedesse soltanto nel cuore. Tu mi insegnasti in quel momento che essa risiede anche nel cervello cosa che poi ho trovata anche scritta, ma che prima non sapevo. Mi dicesti dunque esser cosa di grande merito se l’anima, abbandonata per amor tuo la dolcezza della fruizione affettiva, vigilasse alla custodia dei sensi esterni e si affaticasse nelle opere di carità a salvezza del prossimo.