venerdì 11 novembre 2011

Sören Kierkegaard - Articoli e riflessioni 2


1. I caratteri dell'amore cristiano
2. La sofferenza di Cristo
3. Egli imparò l'obbedienza dalle cose che soffrì
4. Kierkegaard, poeta teologo dell'Annunciazione


1. I caratteri dell'amore cristiano secondo Sören Kierkegaard

La dottrina sul matrimonio del padre dell'esistenzialismo ha subito una profonda evoluzione: sotto la spinta della sua polemica religiosa contro la cristianità stabilita, mondanizzata e disposta a convalidare ogni cedimento dei cristiani verso i piaceri terreni, nell'ultimo scorcio della vita Kierkegaard celebrerà la verginità e il celibato e auspicherà con S. Agostino - come diremo - la fine del genere umano e della sua storia.

Ma all'inizio della sua attività letteraria, e precisamente nella seconda parte diAut-aut (1843) nel saggio: «La legittimità estetica del matrimonio», egli celebra con lirismo intenso e profondità di riflessione il valore morale e religioso del matrimonio.

Il saggio inizia, diciamolo subito, per il valore che la dichiarazione ha sotto la penna di un protestante, con la dichiarazione dell'indissolubilità dell'amore vero. È lo pseudonimo (Victor Eremita) che parla di se stesso: «C'è una cosa per la quale ringrazio Dio con tutta la mia anima ed è ch'essa (sua moglie) è la sola donna che io ho amata - la prima; e c'è un'altra cosa, io prego Dio con tutto il mio cuore ed è ch'egli mi dia la forza di non voler mai amare un'altra donna» (Samlede Vaerker, II ed., Copenaghen 1920, t. II, p. 12). La radice profonda di questo capovolgimento della mentalità mondana del matrimonio è nell'ispirazione ultima del suo pensiero, nella fondazione dell'esistenza ossia che lo studio estetico, la bellezza e il piacere presi per se stessi, non sono che dispersione e disperazione. Il momento estetico si redime nelle sue categorie temporali solo se passa anzitutto alle dipendenze della sfera etica; nell'adempimento della finalità della famiglia, e se è elevato in un preciso rapporto con Dio che ha la sua consacrazione nella benedizione matrimoniale.

Il lato estetico deve certamente avere la sua parte: è Iddio stesso che ha creato l'uomo e la donna, ed è la natura stessa che li spinge l'uno verso l'altro. Come ogni teologo cristiano Kierkegaard mette sullo sfondo delle sue considerazioni esistenziali sul matrimonio l'evento biblico fondamentale della creazione di Adamo ed Eva: il nostro scritto vi ritorna ripetutamente. Ma questo è solo il primo stadio: l'errore del paganesimo anche qui, come in tutti i capisaldi della vita, è stato di fermarsi a questo stadio immediato. Perciò - come Kierkegaard precisa nel saggio: «Riflessioni diverse sul matrimonio contro le obbiezioni», incluso nell'opera: «Gli stadi sul cammino della vita» del 1845 - il paganesimo che vive nella spontaneità della passione ha attribuito un dio all'amore. E perché? Per la ragione che il paganesimo non si rappresenta Dio come spirito, ma come l'una o l'altra forza della natura: così l'uomo nel rapporto alla donna non viene ad elevarsi a spirito, la sua vita e vitalità resta nei limiti della sintesi psicosensibile. Il paganesimo, secondo Kierkegaard, ignora il dio del matrimonio. Per il cristianesimo invece - afferma - c'è un Dio del matrimonio, ma non un dio dell'amore, poiché il matrimonio è l'espressione superiore dell'amore. Si tratta che eros è tutto nella realtà sensibile e si dispiega in tutti i suoi particolari nella vita del tempo e allora Dio è assente, poiché non è per questo che ha creato l'uomo e la donna. Perciò nel cristianesimo la presenza di Dio nel matrimonio consacra i due alla vita dello spirito, alla sublimazione spirituale dell'elemento sensibile che invece è dominante nel paganesimo e nello stadio estetico puro: la realtà è, secondo Kierkegaard, che nel matrimonio cristiano... «l'idea di Dio è da una parte così solenne che il piacere dell'amore sensibile sembra scomparire quando Dio, che è il Padre degli spiriti (Aandernes Fader), dev'essere lui stesso che opera l'unione e d'altra parte così generale, che si scompare da se stessi come un nulla, esso però vuole avere una determinazione teologica con la quale si è determinati rispetto all'Essere supremo» (S. V. VI p. 110). Il pericolo perciò, osserva allora Kierkegaard, nella situazione esistenziale del matrimonio è da una parte la persistenza nell'uomo, nella sua fantasia, dell'eros pagano e dall'altra che l'individuo non si metta in rapporto a Dio come spirito con l'atto di fede come «credente» (troende).Una diagnosi teologica sorprendente quando si pensa che questi testi appartengono a pseudonimi e quindi a quella che Kierkegaard considera la sua comunicazione indiretta.

Si può quindi dire allora che l'indissolubilità del matrimonio è il punto di arrivo dell'etica e diventa il punto di partenza della considerazione religiosa dell'unione coniugale. Perciò tanto il «Primo amore» celebrato dal romanticismo, come il cosiddetto «amore di ragione» dell'epoca moderna cadono fuori della sintesi, che comporta l'amore cristiano, di tempo e di eternità, di sensibilità e di spiritualità: ambedue sono atteggiamenti della sfera immediata, quello del senso e quello della ragione (come calcolo di vantaggi terreni).

È l'amore che Kierkegaard chiama «illusione» com'è tutto illusione nella vita moderna al punto che l'amore romantico... «accetta volentieri anche il matrimonio e considera la benedizione della Chiesa come una bella solennità supplementare che in fondo non ha nessuna importanza come tale» (S. V. t. II, p. 26). Perciò anche l'amore di ragione o amore-calcolo elimina il momento dell'eternità, che è proprio del matrimonio, poichè... «un calcolo intellettuale è sempre temporale». Questa piccola analisi, concludeKierkegaard, ha raggiunto il punto dal quale è possibile far luce sul matrimonio. «Si deve infatti convenire, precisa, che il matrimonio è essenzialmente un'istituzione cristiana; che le nazioni pagane, malgrado la sensualità dell'Oriente e tutta la bellezza della Grecia, non hanno saputo attuare, neppure il giudaismo è stato capace di farlo malgrado il momento idilliaco che in esso si può trovare» (S. V. t. II, p. 33).

Fallimento quindi dell'amore classico come dell'amore romantico, poiché hanno preteso mantenere il rapporto dei coniugi, cioè il rapporto interpersonale che sta a fondamento della vita, al livello della natura e dell'immediatezza, cioè come rapporto finito. Per questo, invece di essere indissolubile, diventa un rapporto volubile sbattuto da tutti i marosi della contingenza. Perché mai? Per la ragione, osserva Kierkegaard con un'immagine geniale, che l'amore privo del rapporto all'Assoluto, diventa «eccentrico» ossia in fuga rispetto alla sintesi ed al principio della sintesi. Nel matrimonio cristiano invece l'amore diventa «concentrico» ossia il rapporto dei coniugi si intensifica e si eleva in ciascuno dei due nel proprio rapporto all'Assoluto e nel rapportare, che ciascuno fa, del rapporto stesso del matrimonio all'Assoluto: per questa forte ragione metafisicaKierkegaard, da cristiano integrale, non ammette la possibilità di una dissoluzione del matrimonio per l'infedeltà dei coniugi stessi. Si tratta che il matrimonio cristiano presuppone l'amore naturale; Kierkegaard ironizza nel Diario su certe sette pietiste nelle quali i membri sceglievano la moglie mediante sorteggio... per mortificare la sensualità! - Si tratta ora di riferirlo a Dio «con azioni di grazia e col cuore pieno di gioia... o incorporarlo in una concentricità superiore». E spiega: «Ma una simile azione di grazia è, come ogni preghiera, unita con un momento di azione, non nel senso esteriore ma interiore, si tratta cioè che vuole mantenersi saldo con quest'amore. E perciò l'essenza del primo Amore non è stata modificata: ...esso solamente è stato incorporato in una concentricità superiore» che lo mette al sicuro dai pericoli della sfera inferiore (S. V. t. II, p. 53). L'individuo religioso a questo riguardo si mantiene tranquillo, perché egli sa con la fede che «a Dio tutto è possibile»: l'individuo religioso infatti è abituato «a impregnare, a penetrare ogni cosa dell'idea di Dio, e con questo a nobilitarla e a santificarla» (S. V. t. II, p. 49).

Non v'è dubbio pertanto che nella sua concezione dell'amore matrimonialeKierkegaard si ispira qui al realismo schietto della concezione cristiana nei suoi due momenti, naturale e soprannaturale ossia l'amore nella sua immediatezza naturale e la sua consacrazione religiosa nel matrimonio senza scisma o frattura. Ed il centro del rapporto matrimoniale è la donna, essa ordina all'uomo di esserle fedele e regola i rapporti reciproci fra uomo e donna: il dovere della fedeltà, per Kierkegaard, è per la donna ovvio e fuori discussione. Sul piano dei valori morali e religiosi la donna ha la palma: «La donna è debole: no, essa è umile, essa è molto più vicina a Dio dell'uomo. Si aggiunga a questo che l'amore (qui Kierkegaard usa il termine Kjaerlighed ch'è amore come rapporto personale, a differenza di Elskov ch'è l'amore sensibile) è tutto per essa ed essa non disdegnerà quindi la benedizione e la confermazione che Dio le vorrà accordare. Del resto non è mai venuto in mente a nessuna donna di fare delle obbiezioni contro il matrimonio, a meno che non siano stati gli uomini a corromperla, questo non accadrà per tutta l'eternità. Una donna emancipata potrebbe certamente farlo. Lo scandalo però viene sempre per opera dell'uomo perché l'uomo è orgoglioso, vuole essere tutto, non sopporta nulla al di sopra di sé» (S. V. t. II, p. 59).

L'intervento di Dio nel rapporto d'amore dell'unione matrimoniale è, per dirla con espressione hegeliana, di natura elevante-conservante: poiché la terza Potenza che qui interviene, Dio, lascia intatta - afferma sempre Kierkegaard - anzi essa stessa fonda la libertà dell'uomo (cfr. Diario 1846, VII A 181). Inoltre se lo stesso amore naturale cerca l'appoggio per conservarsi e trasformarsi, in una potenza superiore - invocando la luna, le stelle, le ceneri degli avi, l'onore... - per mantenere la propria fedeltà: non darà una garanzia assoluta il ricorso alla Potenza che è la fonte stessa di ogni autorità? A questo modo soltanto, conclude Kierkegaard, il matrimonio ottiene il suo statuto ontologico e la libertà, la sua espansione esistenziale come sintesi della sfera sia sensibile come spirituale: l'uomo viene liberato dal suo orgoglio menzognero verso la donna e la donna dalla sua umiltà menzognera verso l'uomo per operare, davanti a Dio, l'unione intima e integrale della loro persona. E stupendamente: «C'è qui un'infinità interiore, più intima ancora del primo amore: poiché l'infinità interiore del matrimonio è la vita eterna» (S. V.t. II, p. 68).

Qualche altra precisazione. Il matrimonio è «scuola di carattere» per i coniugi, l'uno per l'altro, nella comunione dell'amore e dei rispettivi doveri e Kierkegaard cita S. Paolo (ICor. 13,4ss.): «L'amore è paziente, benigno, non è invidioso, non si vanta, né si gonfia di orgoglio, non reca danno, non cerca il suo interesse, non s'irrita, non sospetta il male, non gode dell'ingiustizia ma gode della verità, scusa tutto, crede tutto, spera tutto, sopporta tutto» - è il programma del matrimonio cristiano che non è arena di passione ma compito di dedizione e sublimazione (S. V. t. II, p. 75s.). E la donna nel matrimonio, ha il compito educativo principale - anche se, come dice S. Paolo, essa deve stare soggetta all'uomo - perché con la sua grazia e col suo pudore nobilita e corregge l'uomo, poiché... «la donna è la coscienza dell'uomo» - le qualità dell'uomo si contemperano e si trasfigurano nell'incontro con quelle della donna e viceversa.

Dovere principale del matrimonio è la procreazione ossia la benedizione dei figli: «I bambini, Kierkegaard scrive, appartengono alla vita più intima e segreta della famiglia ed a questo mistero deve rivolgersi ogni pensiero serio e pio su queste questioni. Qui si vedrà anche che ogni bambino porta ancora un'aureola sul suo capo; qui ogni padre avrà anche il sentimento che c'è nel bambino qualche cosa di più di quel che ha ricevuto da lui: sì, s'accorgerà con umiltà che si tratta di un bene che gli è stato confidato e che, nel senso più bello, egli non è che un padre putativo» (S. V. t. II, p. 81). E continua: i bambini sono una benedizione; è bello ed è bene che un essere umano pensi con serietà profonda al benessere dei suoi figli, ma egli non avrà aperto il suo cuore né ai sentimenti estetici né ai sentimenti religiosi se non si ricorda qualche volta che non è soltanto un dovere, ciò di cui è stato incaricato, una responsabilità, ma anche una benedizione (l. c.). È in questo contesto etico-teologico del fondamento e della destinazione soprannaturale che Kierkegaard proclama apertamente la superiorità della famiglia sullo Stato: «Il matrimonio è il centro della vita temporale e la personalità non può mettersi direttamente in rapporto con l'idea dello Stato» (S. V. t. VI, p. 184). Ma il matrimonio può e deve essere soggetto alla Chiesa poiché in essa l'uomo trova la sintesi di tempo ed eternità, di peccato e grazia: la benedizione della Chiesa è l'impegno e la garanzia ad un tempo di purificazione e salvezza.

La grandezza spirituale del matrimonio è in questo: «esso opera quaggiù la sintesi più felice, sotto gli occhi di Dio, del particolare e dell'universale e la benedizione nuziale (Vielse) dà ai coniugi l'immagine più bella di una coppia di essere umani che non sono più turbati dalla riflessione su altri esseri umani» (S. V. t. II, p. 100). Sintesi superiore ed esaltante di molteplici contrasti e misteri della sfera naturale, il matrimonio che ha la benedizione della Chiesa è per Kierkegaard un atto di fiducia verso Dio e di coraggio verso il mondo, un'incarnazione ascendente - il riscontro e l'analogia sono dello stesso Kierkegaard che ancora s'ispira a S. Paolo - ch'è una risposta dell'uomo nella fede all'Incarnazione discendente del Salvatore del mondo.

L'ultimo Kierkegaard, come dicevamo all'inizio, quasi capovolge la situazione e celebra (specialmente negli ultimi Diari) il celibato come l'unica possibilità per l'uomo di salvarsi per l'eternità invocando il detto di S. Agostino che col celibato... multo citius civitas Dei compleretur et acceleraretur terminus huius saeculi.

Questo non perché Kierkegaard ritratti o sconfessi questi pensieri ma perché addolorato e sconvolto dal tradimento dei cristiani moderni che hanno abbandonato il cristianesimo del Nuovo Testamento ed hanno trasformato il divino messaggio di salvezza e di purificazione dello spirito in espedienti di maggior godimento dei beni terreni, obliosi della Passione di Cristo e dell'eternità.


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2. La sofferenza di Cristo nella teologia di Sören Kierkegaard

Oggi, si sa, imperversa la cosiddetta «teologia esistenziale»: ma questo termine affascinante, che richiama la testimonianza viva dei martiri e dei santi, è invece capovolto nella proclamazione della fine del sacro, della secolarizzazione e di quella antropologia teologica che sta diluendo il messaggio cristiano della «conversione» per accogliere nei cuori il Regno di Dio, nei miraggi terrestri della civiltà dei consumi. Ci si domanda, sbigottiti, come si è potuto giungere a questo scambio o piuttosto a una siffatta mistificazione: quella cioè di travasare il vino nuovo del Vangelo negli otri vecchi dei miraggi economici e sociologici, di risolvere la liberazione dal male oscuro del peccato nella rivendicazione della giustizia sociale e d'interpretare - come fa molta teologia postconciliare del Nord - il messaggio della libertà evangelica come donazione dell'anima a Dio, ma nell'indipendenza da ogni autorità, e quindi con un esplicito ritorno a Lutero nel chiedere lo scioglimento dei voti religiosi e del celibato e nel mettere in discussione - anzi sotto accusa - la stessa autorità del Vicario di Cristo.

Il pericolo, che oggi dilaga quasi indisturbato ed a macchia d'olio, non è però di oggi ma risale molto addietro e penetra si può dire la cultura degli ultimi tre secoli con esplosioni e ribellioni a catena di cui l'ultima e più nota è stata il Modernismo, fermato dall'intrepido intervento di S. Pio X con l'Enciclica Pascendi del 1907. Non è difficile intravvedere negli attuali movimenti centrifughi del secolarismo antropologico la ripresa dei temi e principi del Modernismo ad un livello più radicale ed universale. L'intento però di queste umili righe non vuol essere polemico, ma unicamente una espressione di accoramento per quelle che consideriamo il danno irreparabile che questi teologi stanno facendo alle anime cristiane col proporre il messaggio di Cristo sfrondato del mistero della Croce, della rinunzia al mondo ed ai suoi beni umbratili, per ingolfare anche il cristiano nella cura delle preoccupazioni terrene come direbbe Heidegger.

Vogliamo soltanto portare una testimonianza di rivendicazione dell'autentico messaggio della Croce, della sofferenza cristiana, da parte di Sören Kierkegaard ch'è stato certamente uno dei più profondi indagatori del mistero di Cristo in tutti i tempi e che ha proclamato, richiamandosi alla tradizione genuina della spiritualità e mistica cristiana, la necessità per il cristiano d'imitare l'Uomo-Dio nella rinunzia al mondo e nel seguirlo per la via regia sanctae crucis secondo l'aureo libretto medievale.

Kierkegaard accusa, com'è noto, la cristianità protestante e lo stesso Lutero di aver falsificato le carte in tavola, cioè di aver tradito il Vangelo eliminando l'ascesi, la vita religiosa, il celibato. ossia di essere venuti a patti col mondo e di aver rifiutato loscandalum crucis. Molti suoi «Discorsi edificanti» girano attorno a questo tema, specialmente quel gioiello ch'è il «Vangelo delle sofferenze», accessibile ora anche ai lettori italiani[1]. Ma è soprattutto nel grande Diario che la sua aspirazione al Cristianesimo autentico della conformità con Cristo si manifesta nei bagliori crescenti di una continua ascesa fino al sospiro del cupio dissolvi et esse cum Christo di S. Paolo. Ma questa volta vogliamo limitarci a riferire, in modo scarno e sparso, il tema e la trama del suo capolavoro cristologico ch'è l'Esercizio del Cristianesimo del 1850.

Il tema è il rifiuto di Cristo, che il mondo ha fatto e continuerà a fare nei secoli, della sua vita e del suo messaggio. L'origine remota e più profonda può essere indicata in una precisa «esperienza di Cristo crocifisso», avuta (sembra!) dal piccolo Sören davanti ad una vetrina di rigattiere, in una delle frequenti passeggiate col padre e che Kierkegaard si compiace di evocare ripetutamente proprio mentre stende l'Esercizio: «Prendi un bambino che non sia stato guastato dalle chiacchiere e da quell'insegnamento a filastrocca che Cristo è stato crocifisso. Prendi cotesto bambino, presentagli dei ritratti di uomini celebri: un uomo a cavallo col cappello a tre punte, Alessandro, Napoleone e simili, e mescola queste immagini con quella del Crocifisso. Il bambino domanderà come per le altre: "Questo chi è?". Di' allora: "Era l'uomo più amoroso che sia mai esistito". Il bambino domanderà: "Ma allora chi l'uccise e perché?". Oh, se anche quando sarà diventato vecchio, avesse l'uomo conservato qualcosa della sua infanzia! Che commozione non proverebbele quando, passando davanti a un rigattiere che tiene in vetrina del figurine di Norimberga, vedesse questa frammischiata alle altre!»[2].

Quest'impressione sta all'origine dell'Esercizio del Cristianesimo e lo domina come un'accusa sospesa sulla cristianità con l'impeto dello stile degli antichi Profeti: essa infatti ritorna nel libro, ma lo stile è più sciolto e la perorazione più ampia. Ma nella conclusione l'impeto della protesta riprende il tono antico e ritorna in tutta la sua veemenza. Ecco:

«Una volta che il bambino sarà diventato un giovanotto, non dimenticherà l'impressione dell'infanzia, ma la intenderà in modo diverso: capirà che non è possibile realizzare il proposito dei suoi primi anni quando dimenticava i 1800 anni; ma penserà con la medesima passione la necessità di lottare contro il mondo che sputa sul Santo, contro il mondo che crocifigge l'Amore e chiede che il brigante sia graziato.

Qualora poi giungesse il bambino all'età matura, non avrà dimenticato di certo l'impressione ricevuta nell'infanzia, ma la interpreterà in modo diverso. Non desidererà più di colpire: perché [direbbe] io allora non avrei più nessuna somiglianza con lui, con l'Umiliato, il quale non colpì, neppure quando fu percosso. No, egli non desidererà ora che una cosa soltanto: di soffrire possibilmente quasi com'Egli soffrì in quel mondo che i filosofi hanno sempre chiamato il migliore, il quale però - sì, può darsi che ciò ch'è vero in filosofia non lo sia in teologia - crocifigge l'Amore e grida: "Viva Barabba!". Spesso in situazioni di minor conto il mondo ha dimostrato che non soltanto colui che vuole umanamente il bene è votato alla sofferenza, ma anche - per amore del contrasto così caro al mondo e per accentuare quanto il mondo stia agli antipodi del bene - che c'è facilmente fra i contemporanei quel miserabile, quell'essere abietto che, per spirito di contraddizione, viene acclamato con evviva.

Se lo spettacolo di quell'abbassamento può commuovere a questo modo, non potrebbe commuovere così anche te? Se ciò ha scosso gli Apostoli che non seppero e non vollero sapere nulla, se non Cristo e Cristo Crocifisso (i Cor. 2, 2), perché non potrebbe commuovere anche te? Da questo non segue che tu diventerai un apostolo, quale temerità! No, ma solo che tu puoi diventare un cristiano. Se quello spettacolo commosse quei santi gloriosi che la Chiesa ricorda come suoi padri e maestri i quali, con l'Apostolo, non seppero e non vollero saper nulla se non Cristo e Cristo Crocifisso, non può commuovere allo stesso modo anche te? Tu non diventerai per questo uno di loro, o presunzione!, ma potrai diventare semplicemente un cristiano. Infatti perché quello spettacolo li commosse a quel modo? Perché essi lo amavano. Perciò essi scoprirono le sue sofferenze; poiché solo colui che l'ama comprende ch'egli era l'Amore, e solo costui può rendersi conto com'egli soffrì, di qual duro e di qual tremendo martirio, e come soffrì: com'era dura, straziante quella Passione, e quanto soffrì! Quanto soffrì! quanto giusta era la sua causa, e quanto egli soffrì! Che ingiustizia! Se questo spettacolo non ti commuove, è segno che tu non lo ami. Perciò, chissà che questo spettacolo di Cristo umiliato nella sua sofferenza, non possa ancora spingerti ad amarlo. Quand'è così, cerca di poter contemplare questa scena un'altra volta e allora questo commuoverà anche te al punto di voler soffrire a somiglianza con lui il quale dall'alto vuole attirare tutti a sé»[3].

Certo, Kierkegaard non gode di buona stampa fra i nostri teologi del progresso che corrono a frotte a «demitizzare» il Vangelo cioè a nascondere la Croce ed a togliere al messaggio di Cristo il pungolo della compunzione, a tacere sul pentimento dei peccati e sull'orrore del giudizio dell'eternità. Ma non è questo un sintomo chiaro che questa teologia, finora sconosciuta nella storia del Cristianesimo, sta tradendo il messaggio evangelico?

(1972)

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[1] Tr. it. di C. Fabro, Ed. Esperienze, Fossano 1971.

[2] Diario, 1848, IX A 395; tr. it., III ed. Brescia 1980-83, nr. 1975, t. V, p. 78.

[3] Esercizio del Cristianesimo, tr. it. di C. Fabro, Ed. Studium, Roma 1971. p. 237 s.


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3. Egli imparò l'obbedienza da ciò che soffrì

di Sören Kierkegaard[1]

Gli «scritti edificanti» rappresentano, nella gigantesca produzione kierkegaardiana, l'effusione diretta delle sue aspirazioni profonde che trovarono nella verità del Cristianesimo e specialmente nella considerazione della Persona e della dottrina di Cristo i temi preferiti.

Il presente testo è preso dalla elevazione terza del «Vangelo delle sofferenze» (1847) che considera le tappe principali della «contemporaneità» con Cristo.

Cristo imparò l'obbedienza; poiché certamente la sua volontà era fino dall'eternità in accordo con quella del Padre, la sua libera decisione era la volontà del Padre, ma quando Egli venne nella pienezza dei tempi, fu allora che imparò l'obbedienza da ciò che soffrì; ciò ch'Egli soffrì, quando venne fra i suoi ed essi non lo conobbero (Gv. 1, 11), quando s'aggirava nell'umile figura di servo (Fil. 2, 7) e portava in mente il piano eterno di Dio, mentre il suo discorso non approdava a nulla; quando Egli, l'unico nel quale c'era la salvezza, era come superfluo nel mondo; quando Egli non riuscì a cambiare nulla assolutamente, quando nessuno badava a lui oppure, ciò che è certamente più penoso, quand'Egli era un oggetto della miserabile civetteria della curiosità (Lc. 23, 8 ss.). Oh, quando anche il male si sollevò contro di lui con impeto selvaggio e trascinò lui, il sommo, alla morte: non viene da inorridire al vederlo ridotto a un oggetto di curiosità, quando il Salvatore del mondo non riusciva in questo mondo di perdizione che ad attirare i curiosi e gli sfaccendati! L'operaio lasciava il suo lavoro per vederlo passare, il mercante si precipitava dalla sua bottega e lo stesso indaffarato gli gettava di passaggio uno sguardo curioso. L'aceto non fu per il Santo una bevanda più amara (Mr. 15, 38) dell'attenzione sciocca dei fannulloni e della stomachevole simpatia dei curiosi - quando si è la verità. Meno amara per il Santo è stata l'audacia del peccato che non l'essere stato preso invano dalla curiosità!

Sì, Egli imparò l'obbedienza da ciò che soffrì: da ciò che soffrì quando Egli, che aveva in sé la benedizione, era come maledizione per ognuno che gli si accostava e per chiunque ricorreva a lui e un tormento per i contemporanei; un tormento per i pochi che l'amavano quando dovette portarli alle decisioni più spaventose, quando dovette essere per la madre una spada che le trapassò il cuore (Lc. 2, 35), per i discepoli un Amore Crocifisso; un tormento per i vacillanti i quali forse in fondo, nel nascondimento segreto del desiderio, capivano la verità della sua parola ma non osavano unirsi a lui e per questo anche portavano nella loro anima una spina, una frattura nel loro intimo, un distintivo penoso di essere stati suoi contemporanei; un tormento per i cattivi per il fatto che con la sua purezza e santità Egli dovette rendere manifesti i pensieri dei loro cuori (Lc. 2, 35), renderli più colpevoli che mai. Oh, pesante sofferenza: per essere il Salvatore del mondo dever essere la pietra di scandalo! (I Pt. 2, 7 ss.).

Egli imparò l'obbedienza da ciò che soffrì; da ciò che soffrì, quando Egli certamente cercava, ma fu anche quasi obbligato a cercare la compagnia disprezzata dei peccatori e dei pubblicani, quando nessuno osava riconoscerlo in pubblico, quando la curiosità scuoteva sospettosa la testa, e la saggezza presuntuosa diceva: «Che stolto!» e la compassione alzava le spalle per pietà; quando l'orgoglio lo giudicava quand'Egli veniva e la viltà tristemente si scansava; quando ogni valentuomo lo sfuggiva per non compromettersi, quando anche l'uomo migliore rendeva il suo rapporto con lui un po' ambiguo per non perdere troppo; quando colui che si era ritirato in tempo si reputava felice; quando nessuno credeva di avere dei doveri verso di lui ma reputava che tutto era permesso per difesa contro di lui, quando anche l'amato discepolo lo rinnegò (Mt. 27, 69 ss.).

Egli imparò l'obbedienza da ciò che soffrì; da ciò che soffrì quando Pilato disse: «Ecco l'uomo» (Gv. 19, 5). Non è la rivolta selvaggia, non la folla infuriata e accecata a insultare così; no, è un porporato, una personalità, che parla così per compassione. Giuda lo vendette per trenta denari (Mt. 26, 15), ma Pilato voleva venderlo ancora per meno: voleva farne un povero diavolo, un oggetto di compassione per una folla infuriata.

E così tutta la vita terrena è stata la più pesante sofferenza, come mai può essere quella di nessun uomo, come mai nessuno può immaginare e nessuna lingua esprimere. Ma proprio per questo fu sofferenza al massimo grado perché si potesse imparare da essa l'obbedienza. Poiché quando a soffrire è il colpevole, allora non c'è nessuna ragione - se mai ce ne fosse - ma neppure un'apparenza di pretesto per perdere la fede in Dio; tanto meno c'è merito s'egli sopporta con pazienza il suo castigo. Quando invece chi soffre è l'innocente, allora c'è l'occasione d'imparare: l'occasione c'è, ma da ciò non segue che s'impari l'obbedienza. Ma Cristo imparò l'obbedienza da ciò che soffrì. Egli disse: «Padre, se è possibile, passi da me questo calice, ma si faccia non la mia ma la tua volontà!» (Mt. 26, 39). Il primo atto di obbedienza è l'aver detto queste parole, il secondo è l'avere vuotato l'amaro calice. Se egli avesse vuotato l'amaro calice senza dire quelle parole, la sua obbedienza non sarebbe stata perfetta. Poiché l'obbedienza perfetta esige anche e anzitutto la domanda che supplica e la preghiera che chiede: se questa è la volontà del Padre, se non è possibile altrimenti. E così la sua vita è stata obbedienza, obbedienza fino alla morte di croce (Fil. 2, 7). Egli che era la verità, la via e la vita, che non aveva bisogno d'imparare nulla, imparò tuttavia una cosa: l'obbedienza. Tanto stretto è il rapporto dell'obbedienza con la verità eterna che colui che era la Verità imparò l'obbedienza.

(1977)

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[1] Sören Kierkegaard, Opere, a cura di Cornelio Fabro, Sansoni Editore 1972, pp. 850-852.


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4. Kierkegaard, poeta teologo dell'Annunciazione

Si sa che la teologia protestante fu e si mantenne per principio molto intransigente nella determinazione del rapporto dell'uomo a Dio. Il duro univocismo della sua teoria del peccato, sotto il quale sta schiacciata la razza di vipere della nostra specie, ribelle a Dio, sommerge nella comune condanna tutti gli individui senza eccezione, neppure per la Donna che lo ebbe in seno e gli diede carne. Così il Cristianesimo protestante non soltanto eliminava la funzione mediatrice della donna, quale era stata intravista e variamente espressa da molte religioni, ma innalzava attorno a Dio e alla Persona del Verbo fatto uomo, la gabbia di ferro del peccato. Essa lo teneva prigioniero e lo lasciava solitario nella sua metafisica santità impartecipata e impartecipabile condannandolo a vivere, a respirare a muoversi, a operare. nel regnum irae che tutti rivestiva e che doveva trasparire su tutti i volti, anche su colei che gli aveva per nove mesi modellato, in ineffabile attesa, il suo. Più ancora l'ostracismo della riforma alla teologia mariana non concedeva alla Madre del Salvatore neppure quel tanto di distinzione nel rapporto a Dio, che lo stesso Testamento antico concedeva ai personaggi di ambedue i sessi, la cui missione, alta quanto si voglia nell'economia della teocrazia giudaica, non poteva in alcun modo competere con la dignità della «piena di Grazia» e della «benedetta fra le donne».

L'assenza di Maria nella teologia e religiosità protestante costituisce l'autocritica della Riforma e il segno della sua incomprensione dell'Incarnazione. Nata dal pretesto dell'interiorità e della soggettività esistenziale, eccola inciampare al primo passo. Perché se c'è un rapporto autentico d'interiorità, l'unico rapporto d'intimità esistenziale fra Dio e una creatura (supposita Incarnatione Verbi!) è quello di Cristo con sua Madre: ma un'intimità fra il Creatore e la creatura, senza partecipazione di beni - primo fra tutti la Grazia - e senza comunicazione d'affetti - prima fra tutte, l'intercessione - è un nonsenso, è l'assurdo più paradossale. E se lo scopo dell'Incarnazione è precisamente la «deletio culpae» per reintegrare nell'uomo la «imago Dei» e ripristinarlo nello splendore della vera o`moi,wsij tw|/ qew con la Grazia, non si sa perché il protestantesimo abbia concepito questa «rinascita» (Wiedergeburt) dell'uomo in termini di pura escatologia, e questo egualmente, tanto per i peccatori come per colei al cui personale consenso pur si doveva il compimento del tempo di Grazia. Non solo diImmacolata Concezione ma neppure di santificazione, cioè di intima totale purificazione della Madre di Dio, si può parlare nella teologia protestante.

Durezza di teologia cerebrale e di ostinazione ereticale, per le quali l'incomparabile «situazione» della Madre di Dio si doveva esaurire nella sola sfera biologica, escludendo quel che della maternità umana è ad un tempo trepida ansia e beatificante mistero: il chinarsi della Madre sul pargolo che nasce, il farsi guida e difesa del bimbo che cresce, il colloquio dei primi sguardi e delle prime parole. tutto questo, che quasi sempre ogni uomo può avere, sarebbe mancato al Figlio dell'Uomo con la Madre sua. Il suo sguardo di Salvatore, volgendosi a lei, non avrebbe distinto il suo volto dagli altri, perché marcato com'essi dal sigillo della perdizione. Le azioni di sua Madre, anche quando lo portava al seno tenero infante e lo fasciava nei panni che per lui aveva con le sue mani preparati; anche quando se lo stringeva al petto fuggendo da Erode e lo proteggeva del suo abbraccio; anche quando correva ansante di spasimo di porta in porta per ritrovarlo nel tempio.: queste azioni che avvennero una volta sola sulla terra e che ebbero protagonista d'amore e di dolore una sola donna Vergine e Madre, sarebbero state della stessa qualità di quelle di tutte le altre madri. Anzi, nella geometrica consequenzialità della mariologia protestante, dato che il Figlio in questo caso è Dio, questo Figlio e questa Madre si troverebbero - per quella scissione e barriera proclamata insanabile nel tempo - in rapporto non di sola distanza ma di repulsione: peggio ancora, di avversione che è non solo disumana, ma blasfema ed empia. Colei ch'era stata scelta per essere la «più vicina» a Dio di tutte le creature, avrebbe invece sentito più di tutte il peso schiacciante dell'infinita distanza del peccato che faceva anche di Lei una «filia irae», mentre pur teneva in seno e portava in braccio la Fonte della Grazia. A colei, che pur aveva come vera Madre iniziato col Verbo fatto carne i suoi primi colloqui sulla terra, aprendo alla parola eterna l'umile via della voce per risuonare nel tempo: proprio a lei, e perché Madre di Dio, sarebbe stato negato quello che ad ogni madre compete per diritto inalienabile di maternità, la «diretta comunicazione» di amore col Figlio di cui ogni giorno nutriva e accompagnava la vita.

Queste semplici riflessioni, che stanno a fondamento della mariologia cattolica, stupiscono molto i protestanti, per i quali la teologia deve fermarsi ai rapporti assoluti dell'Assoluto, e non indulgere a riflessioni di carattere «personale» e fenomenologico nei rapporti di Dio coll'uomo: vero attentato di lesa divinità è per essi tutta l'ispirazione personalistica della teologia cattolica.

Si senta quel che scrive della Madre di Dio Karl Barth, il teologo più rappresentativo del protestantesimo contemporaneo. Egli, il celebre «Herr Professor», non rifiuta a Maria il titolo di «Madre di Dio», ma trova che la mariologia romano-cattolica ne abusa troppo e v'insiste più del conveniente (!). Del resto tanto Calvino, come Lutero, hanno espressamente riconosciuto il qeoto,koj del concilio di Efeso (431), seguiti in questo da tutta la tradizione dell'ortodossia della Riforma. Quel titolo, secondo il Barth, importa: 1) che l'Incarnazione del Verbo non è stata una creazione dal nulla, ma che Gesù Cristo, per via di sua Madre, appartiene realmente al genere umano (nativitas temporalis); 2) Colui che Maria partorì, era lo stesso Figlio di Dio, procedente «ab aeterno» dal Padre (nativitas aeterna). Il qeoto,koj esige di per sé l'ammissione delladuplex nativitas Christi, e così l'ha inteso anche la tradizione, come ci assicura in un breve excursus lo stesso Barth. Egli però si affretta a denunziare il passo falso della Teologia cattolica che ha fatto del qeoto,koj il «fondamento di una cosiddetta Mariologiaautonoma» (als Grundlage einer Selbständige sog. Mariologie), un arbitrio e un rischio contro il quale s'è levata la protesta della Teologia evangelica. I dati della rivelazione non riconoscono alla persona di Maria che un'autonomia soltanto relativa, se non si vuole oscurare la stessa verità della Rivelazione, cadere cioè senz'altro nell'errore dogmatico. Sentenza finale: «La mariologia è un'escrescenza (eine Wucherung), ovvero una formazione patologica del pensiero teologico. Le escrescenze devono esseretagliate»[1].

È chiaro che fin quando Barth se la prende coi cattolici per proclamare a tutto spiano la «relatività» del culto a Maria, combatte contro dei mulini a vento: qual è quel teologo che può pensare altrimenti? Ma se il titolo di «Madre di Dio» ha un senso reale e quello augusto quale a nessuna creatura è stato né mai sarà concesso, esso «canonizza» necessariamente la devozione mariana del cattolicesimo e il rango di una dignità assolutamente singolare che compete a Maria nella Redenzione. La dura replica del Barth alla Teologia cattolica: «Dove Maria è venerata, dove vige tutta questa dottrina e la devozione corrispondente, ivi non è la Chiesa di Cristo»[2], tradisce non solo un'opacità spirituale che si distende fin sui fondamenti della Fede, ma mostra tutto il vuoto e la desolazione di una teologia che si mutila da sé. Che il qeoto,koj sia da prendere come un «principio cristologico ausiliario» (ein christologischer Hilfssatz), è pacifico per tutti: ma perché il Protestantesimo non onora, non celebra, non prega Colei che Dio stesso ha onorata, richiesta del consenso ed esaltata? L'esegesi pignola e puntigliosa che il Barth fa del kecaritqme,nh (Lc. 1, 28) del messaggio angelico, è causa nel lettore cattolico più di tristezza che di indignazione, di fronte ad una insensibilità che si mostra negata ai contatti più elementari e sostanziali della vita spirituale. Per Barth, Maria è con S. Giovanni Battista il culmine del Vecchio Testamento e (corsivo del Barth!) il primo uomo del Nuovo: Essa è semplicemente l'uomo in cui si compie il miracolo della Rivelazione[3]. Ma basta con Barth! L'ho voluto ricordare come sfondo negativo della ben diversa posizione di Kierkegaard nei riguardi dell'augusta Madre di Dio: e il Barth, che nel Römerbrief (ed. 1941, p. XIII) s'era detto kierkegaardiano, ha fatto molto bene negli ultimi scritti a separare la sua causa da quella del grande pensatore danese.

I testi che Kierkegaard dedica alla Madonna, tanto nelle Opere come nel Diariosono così numerosi che il traduttore inglese delle Opere, Walter Lowrie, ha dichiarato che «sarebbe interessante ed edificante fare un'antologia dei testi nei quali Kierkegaard parla della beata Vergine: perché senza dubbio nessun protestante fu così preso da questo tema e forse nessun cattolico ha apprezzata più profondamente l'eccezionale posizione di Maria»[4]. È (quanto agli autori protestanti) la pura verità, e questo riconoscimento venuto da un pastore protestante ma di ben altra levatura interiore del Barth, fa parte di quella orientazione realista e cattolica del pensiero di Kierkegaard che finirà per imporsi, una volta che l'immensa sua produzione sarà direttamente conosciuta nei suoi temi reali e nel suo sviluppo.

Chi, come Kierkegaard, aveva rilevato e denunciato il piatto livellamento degli spiriti a cui aveva portato la Riforma, mortificatrice di ogni slancio generoso perché dichiarato superfluo e perfino ingiurioso all'opera di Cristo; chi come lui aveva sentito, come mai pochissimi anche fra i massimi scrittori cristiani di tutti i tempi, l'inderogabilità di un contatto amoroso con Dio per salvarci dalla disperazione dell'esistenza; chi aveva osservato e descritto le inesauribili possibilità della donna, di salvezza come di perdizione, di «silenziosa dedizione» come di fatua dispersione.; chi aveva ristabilito nella Cristianità imborghesita la categoria dello «straordinario» nell'ambito religioso e aveva salutato nei «gloriosi santi» gli unici cristiani in carattere.: costui non poteva non accorgersi della posizione di assoluto privilegio e della distinzione spirituale che compete alla Madre di Dio.

Kierkegaard, senza tante cineserie esegetiche, la chiama la «piena di Grazia», la «Vergine pura», la «Vergine fedele» , la «Madonna», la «Madre di Dio». Ma più dei titoli che gli sfavillano sotto la penna, merita di essere segnalata la «situazione esistenziale» al tutto singolare che Kierkegaard attribuisce alla divina maternità di Maria. Egli l'avvicina ad Abramo, il padre della fede: l'annunciazione sta al Nuovo Testamento, come il sacrificio di Abramo al Vecchio - sono i due punti di volta decisivi della storia umana e indicano l'estremo limite di dedizione a cui la creatura, sorretta dalla Grazia, sia mai salita. A somiglianza di Abramo - anzi molto più di lui, com'è evidente per la infinita distanza fra i termini in funzione nei due casi - Maria, pronunciando il fiatdell'Incarnazione, faceva del suo essere, della sua persona, della sua vita e specialmente della sua intima situazione di donna. tale una incondizionata offerta a Dio da equivalere alla morte e più ancora.

Gli amici intenditori di teologia protestante mi dicono che questo atteggiamento di tenera ammirazione e compassione di Kierkegaard verso la Vergine è assolutamente personale e sconosciuto al protestantesimo. Tutta la letteratura della Maria-Dichtung, ispirata a motivi romantici, è su di un altro piano, e si collega più allo «ewige Weiblisches» goethiano che al testo evangelico. Per Kierkegaard invece la luce della divina Maternità di Maria è circonfusa di dolore, segnata dal disprezzo, consacrata dal martirio interiore per quel Figlio datole da Dio e attorno al quale Ella vede ogni giorno crescere l'incomprensione, le animosità, l'invidia che Gli daranno crudelissima morte. E ben più di Abramo, per due motivi: prima, perché - diversamente dal padre della fede - il suo fiat la condannava all'angustia più cocente; poi, perché quando suo Figlio fu innalzato in Croce fra i lazzi dei suoi nemici che Lo sfidavano a scendere, nessun Angelo venne a distaccarvelo e la Madre dovette accettare e assistere coi Suoi occhi alla straziante morte del Figlio.

Ecco dove sta per Kierkegaard, come per le vere anime cristiane di tutti i secoli, la grandezza della Madre di Dio, capace di commuovere ogni credente che voglia avvicinarsi a Cristo. Non per nulla Kierkegaard negli ultimi anni leggeva con trasporto S. Bernardo e S. Alfonso M. de' Liguori, i dottori massimi dei dolori e delle glorie di Maria.

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Voglio anzitutto riportare un testo dei primi anni dell'attività letteraria di Kierkegaard e precisamente del 1843. Si trova nel saggio pseudonimo Timore e Tremorenel quale Johannes de Silentio indaga la teologia della fede e celebra in Abramo il «Cavaliere della fede» - che silenzioso sale il Moria per sacrificare (in obbedienza all'ordine divino) il figlio Isacco, senz'aver fatto motto né con Sara né col servo Eliezer del suo doloroso segreto «con Dio». Abramo è detto «Cavaliere», in soggezione a Dio, non «eroe della Fede»: perché l'eroe si rapporta come tale all'umano-generale e «posa», anche l'eroe tragico che si sacrifica, come affermazione di una individualità ch'egli ritiene superiore. È stato questo sentimento misto di superiorità in sé e di simpatia per gli altri a portare Agamennone, Iefte, Bruto. al sacrificio della persona cara.

Non così Abramo, né Maria: il loro sacrificio si pone «alla presenza di Dio», da cui proviene l'infinità della loro assoluta dedizione. Non solo manca l'appoggio dell'umano-generale e la solidarietà della simpatia degli altri, ma il loro atto li pone in una posizione diametralmente opposta, perché li espone allo sdegno e al disonore estremo a cui possono andare incontro un padre e una fanciulla. L'atto di obbedienza e di accettazione ch'essi compiono è inqualificabile sul piano della morale generale: esso non si giustifica che per il loro particolare rapporto con Dio in qualità di «singoli» e sul quale mantengono il più assoluto segreto - ciò che umanamente parlando lavora tutto a loro danno.

E Maria nasconde il segreto suo - ben più grave nelle sue conseguenze e più decisivo, per l'umanità intera, di quello di Abramo - allo stesso sposo Giuseppe, il quale non da Maria che tutto conservava chiuso nel suo cuore, come rileverà anche Kierkegaard, ma dall'Angelo vien edotto su quanto era per virtù divina accaduto alla sua purissima sposa. C'è quindi non solo una differenza qualitativa fra lo stadio morale e quello religioso, ma nella stessa sfera religiosa vi sono alcune vocazioni o situazioni assolutamente singolari che hanno valore di principio: così quella di Abramo nel Vecchio Patto, come e più ancora quella di Maria che col suo Ecce Ancilla Domini apre il Nuovo.

Queste o simili considerazioni Kierkegaard le trae immediatamente dal testo sacro, e le può trarre con lui ogni cristiano che sappia leggere con fede il c. 22 del Genesi e il c. 1 del Vangelo di s. Luca. Ed ecco la digressione Mariana di Timore e Tremore.

«Chi mai al mondo fu grande come la Piena di Grazia[5], la Madre di Dio, la Vergine Maria? E pertanto come se ne parla? La sua grandezza non viene dal fatto di essere la benedetta fra le donne. Perché, se non ci fosse questo caso strano che coloro che ascoltano siano capaci di pensare in un modo così disumano come quelli che scrivono, allora certamente ogni ragazza potrebbe chiedere: "Perché non sono diventata anch'io la piena di grazia?". E se non dovessi aggiungere altro, non respingerei come stupida una simile questione; perché in materia di favori, considerando la situazione in astratto, ogni uomo ha gli stessi diritti. Si dimentica invece la sofferenza, l'angoscia, il paradosso. Il mio pensiero è puro come quello di qualsiasi altro; e chi è in grado di pensare cose siffatte, avrà anch'egli un pensiero altrettanto puro, altrimenti si aspetti senz'altro anche la cosa più tremenda. Perché colui che abbia suscitato una volta queste immagini, non potrà più disfarsene; e s'egli pecca contro di esse, queste allora con ira tranquilla si prendono una vendetta più tremenda dello schiamazzo di dieci recensori. Certamente Maria mise al mondo il Bambino in modo miracoloso; ma la cosa tuttavia avvenne in Lei al modo delle altre donne[6], e quello fu un tempo servizievole, ma non fu affatto uno spirito servile, che siasi portato dalle altre donzelle d'Israele per dir loro: "Non disprezzate Maria, quel che in Lei si compie è la cosa straordinaria". Invece l'Angelo sen venne solo a Maria, e nessuno La potrebbe comprendere. Quale donna più offesa di Maria: e non è vero qui che Colui che Dio benedice, col medesimo respiro Egli anche maledice? Questa è l'interpretazione spirituale della situazione di Maria. Essa non è affatto - mi ripugna il dirlo, ma ancor più il pensare alla storditezza e alla civetteria di quanti l'hanno così interpretata - una gran Dama che si mette in mostra per trastullarsi con un Dio Bambino. Non pertanto quando Maria dice: "Ecco, io sono l'Ancella del Signore" (Lc. 1, 38), Essa è grande, e non dovrebbe essere difficile spiegare come sia divenuta Madre di Dio. Maria non abbisogna di lagrime: perché Essa non era un'eroina, né lui un eroe. Ma ambedue divennero ancor più grandi degli eroi non col fuggire la sofferenza, le pene e il paradosso, bensì per via di essi»[7].

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Un raffronto inaspettato dell'atteggiamento di Maria nell'Annunciazione è nel discorso del 1850: La peccatrice[8], che è un commovente commento a Lc. 7, 37. Kierkegaard vi fa l'elogio della profonda religiosità che la donna nasconde in sé col suo atteggiamento di silenzio nel quale egli addita il magistero che compete alla donna. Enunciata la tesi, per lumeggiare la conversione della peccatrice, sale subito con rapido volto a Colei ch'è tutta santa.

«Nessuno che sappia come la religiosità è per sua natura femminilità, si meraviglierà perché una donna venga rappresentata come maestra, come modello della vita di pietà. Dunque, benché la donna in chiesa debba tacere (I Cor. 14, 34) e pertanto non possa insegnare: ebbene, appunto il tacere "davanti a Dio" proprio questo appartiene all'essenza della vera religiosità. Questo dunque devi poterlo imparare dalla "donna". Da una donna pertanto impara anche l'umile Fede nei riguardi della cosa straordinaria; quella fede umile che non domanda, incredula o dubitante: "Perché?", "A che scopo?", "Come è mai possibile questo?", ma umilmente crede e, come Maria, dice: "Ecco, io sono l'Ancella del Signore". Essa lo "dice": ma se ci badi un po', questo dirlo è un tacere. Da una donna tu impari la vera audizione della parola! da Maria, la quale benché non comprendesse le parole che le furono dette, tuttavia la conservava nel suo cuore (Lc. 2, 19). Dunque Maria non esigeva, prima, di comprenderle, ma in silenzio conservava le parole al posto giusto: ché questo è il posto giusto, quando cioè la parola, il buon seme, è conservato "in un cuore buono e perfetto." (Lc. 8, I5). Da una donna tu impari il calmo, profondo e religioso dolore che tace al cospetto di Dio: da Maria. Perché certamente com'era stato predetto, "Il Suo cuore fu trapassato da una spada" (Lc. 2, 35): ma Essa non disperò, né al sentire la profezia né quando accaddero le cose predette: - Da una donna tu impari la preoccupazione per l'unica cosa necessaria, da Maria sorella di Lazzaro che silenziosa se ne stava ai piedi di Cristo con la scelta del suo cuore: l' "unica cosa necessaria" (Lc. 10, 42). Così anche da una donna tu potrai imparare il vero dolore sul tuo peccato, dalla peccatrice.»[9].

Ma già in una nota del mirabile Libro su Adler, lasciato inedito, la Madre di Dio è presentata come modello della sofferenza, della fede: «La necessaria lentezza è anche una croce che l'eletto deve portare con fede e umiltà. Quando l'Angelo annunziò a Maria che avrebbe partorito un bambino per opera dello Spirito Santo (Lc. 1, 31), ecco che ora tutto questo era certamente un miracolo - ma perché questo bambino doveva impiegare nove mesi come gli altri bambini? Perché non poteva accadere subito? - poiché Essa aveva ben capito e compreso la sua situazione che la nascita di Gesù era un miracolo. Non possiamo infatti scindere Maria in due nature: una donna terrestre e di sentimenti terreni per la quale è del tutto regolare che la gestazione duri nove mesi; poi la Maria credente la quale comprende in umiltà che questa nascita è un miracolo. No, Maria comprese che si trattava di un miracolo. Ma perché allora la gestazione doveva in un certo modo seguire l'ordine della natura? Certo, qui c'è il rebus. La cosa straordinaria fa perdere la testa all'impazienza nevrastenica la quale non riesce a concentrarsi con fede e umiltà. Solo l'umiltà può sopportare che il miracolo esiga il suo tempo, come ha fatto Maria. Forse che Maria dopo aver ricevuto l'Annuncio, non ha continuato ad essere la medesima donna umile e tranquilla? Forse che si è messa a domandare che ora era, quando il mese era finito - per timore che dovesse tornare indietro?» [10].

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Anche nel Diario corrono gli stessi pensieri e dànno la conferma che la dialettica delle Opere pseudonime e le alate perorazioni dei Discorsi edificanti erano prima vissute dal vero Autore in riflessione e meditazioni personali. Ecco un'indicazione sommaria dei «fiori mariani» di cui pullula il Diario di Kierkegaard.

Maria è la «Madre di Dio» (I A 172) e la «Vergine pura da uci nacque Cristo» (I A 190), l'unica «Vergine-Madre» a cui rendono omaggio e conferma indiretta le false mitologie similari (I A 232), perché soltanto Maria Vergine ha concepito adombrata da Spirito Santo (II A 31). Maria è l'esempio del silenzio religioso che conserva i segreti di Dio (I A 68), anche col suo sposo S. Giuseppe (VIII A 338); soprattutto Maria è l'esempio della fortezza nel dolore quando Le viene annunziato che la Sua anima sarà trapassata da una spada (X2 A 64; X4 A 572): si proclama «beata» all'annunzio dell'Angelo pur sapendo di andare incontro ai più cocenti disprezzi (X3 A 57); nell'Annunciazione Maria dà l'esempio della «libertà» che si abbandona incondizionatamente a Dio (X4 A 454) e perciò nel cattolicesimo ella viene subito dopo Gesù come «mediatrice» e «modello» (X4A 521). Onore alla Vergine Maria che accettando di diventare Madre di Dio, sa di avere una vita di scherni e di esporsi a ogni possibile sofferenza e si professa tuttavia «umile ancella del Signore» (XI1 A 40). Modello soprattutto è Maria della fede: la «spada» preannunciata dal vecchio Simeone non si intende soltanto del dolore alla vista della morte del Figlio ma anche delle «prove» della sua fede alla vista di tanto scempio del Figlio di Dio (XI1 A 45). Ella è sopratutto lo «scandalo» dei giudei, come Gesù, perché una «nascita verginale» di Cristo va contro tutta la concezione giudaica della razza: Cristo è infatti veramente della stirpe di David perché nasce da Maria, ma insieme anche non lo è perché nasce da una «Vergine» che per l'ebraismo è come negare tutto il Vecchio Testamento e levargli la forza (XI1 A 184). Maria è modello nel «cercare Cristo» ed insieme è il modello più insigne dello «Straordinario»: mai paga di poter ringraziare Iddio per la grazia che le aveva fatto, e poi trovarsi esposta a tutte le sofferenze e incomprensioni anche da parte del suo sposo (IX A 12). Perciò, mentre il protestantesimo ha messo sul trono la donna terrena (XI1 A 141), fanno bene i cattolici a pregare la Vergine Madre di Dio (I A 172) [11].

Il testo che segue è del 1852 e porta espressamente il titolo: L'Annunciazione di Maria. L'anima cattolica a sentire questo tema, corre subito con la fantasia e qualcuna di quelle mistiche composizioni dei nostri pittori del tre e quattrocento. Di quella luce spirituale che si spande su quelle tele, doveva anche Kierkegaard - questo poeta degli ideali cristiani, sperduto nella gelida landa del protestantesimo - sentirne l'irradiante fulgore.

Tema: L'Angelo trovò colei che ci voleva,

perché Maria trovò quel che ci voleva

«Certamente Essa era l'eletta, e così era deciso che fosse Lei. Ma vi è anche un momento della libertà, il momento dell'accettazione, da cui appare che si è la persona che ci vuole. Se l'Angelo non l'avesse trovata quale la trovò, Essa, malgrado tutto non sarebbe stata colei che ci voleva.

Maria disse: "Ecco io sono l'Ancella del Signore, sia fatto di me secondo la tua parola" (Lc. 1, 38).

Siamo tanto abituati a sentire queste parole, che facilmente ci sfugge il significato, e perfino c'illudiamo che nello stesso caso noi avremmo risposto allo stesso modo.

Consideriamo ciò che Maria avrebbe potuto ahimé, in un modo molto più naturale! rispondere. Questa riflessione è per noi più utile se ci soffermiamo, per es., su questo pensiero che quando l'Angelo aveva parlato a Maria, tutta la creazione avrà per così dire gridato a Maria: "Per amore di Dio, acconsenti! affrettati a dir di sì!".

Essa dunque avrebbe potuto (sì, l'avrebbe potuto, come fece Sara: Gen. 18, 10) sorridere, ché qui non c'era minor ragione di farlo: e se Essa non avesse potuto sorridere, avrebbe potuto sentirsi disonorata per quell'appellativo e ripudiarlo.

Maria avrebbe potuto rispondere: "Questa è una cosa troppo alta per me: non posso, risparmiami; è al di sopra delle mie forze.". Di quel parere evidentemente è anche l'Angelo, che la divina Maternità sia cioè al di sopra delle sue forze. Saranno perciò le forze dello Spirito Santo ad adombrarla. - Sì, va bene: ma appunto il credere in questo modo di diventare un nulla, nient'altro che uno strumento, ecco ciò che supera, credo, le forze di un uomo, più che non lo sforzo estremo e supremo delle ultime forze proprie» (X4 A 454).

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Un lettore cattolico non fa molta fatica ad avvertire l'eco delle pie e ardenti espansioni di un s. Agostino e di un s. Bernardo: «Responde iam Virgo sacra: vitam quid tricas mundo? Assensum tuum Angelus praestolatur; inde est quod nuntius iste moratur», così s. Agostino. E s. Bernardo, sviluppando il medesimo pensiero: «Expectat Angelus responsum: tempus est ut revertatur ad Deum qui misit illum.: in suo brevi responso sumus reficiendi, ut ad vitam revocemur. Da, Virgo, responsum festinanter. O Domina, responde verbum quod terra, quod inferi (i Patriarchi del Limbo), quod expectant et superi»[12].

Siamo pertanto agli antipodi non soltanto del protestantesimo teologico ma anche del romanticismo che pur non era rimasto insensibile al fascino della «benedetta fra le donne»: un fascino però vacuo e meramente estetico. Valga per tutti un testo della celebre Filosofia dell'arte di Schelling (Jena 1802- 1804-5). Dopo aver parlato di Cristo come «simbolo dell'Incarnazione eterna di Dio nel finito» (als Symbol der ewigen Menschenwerdung Gottes im Endlichen), espressione che può benissimo riassumere anche il nocciolo della Filosofia della religione di Hegel, Schelling passa a parlare della Madre di Dio. Anche Maria è un puro simbolo, il simbolo della femminilità e della bellezza a cui si volgono di preferenza i tempi moderni. Ecco: «Eguale carattere di sofferenza e di sottomissione (come in Cristo) esprime anche l'immagine della Madre di Dio. Anche questa, almeno quando non la si considera secondo le idee della Chiesa, quindi quando la vogliamo considerare secondo una necessità interiore, non ha che un significato simbolico. È il simbolo della Natura universale ovvero del principio materno di tutte le cose, il quale fiorisce di eterna verginità. Solamente che nella mitologia del Cristianesimo quest'immagine non ha poi rapporto alcuno alla materia (di qui l'assenza [nel Cristianesimo] di un significato simbolico) ed è rimasto soltanto il significato morale. Maria indica come prorotipo (als Urbild) il carattere della femminilità, caratteristica di tutto il Cristianesimo. Il carattere predominante dell'antichità era il sublime, la maschilità; quello dei tempi moderni è la bellezza, la femminilità »[13].

Per uno spirito eminentemente poetico come quello di Kierkegaard, la tentazione di un simile estetismo panteistico doveva o avrebbe potuto essere molto grande: invece nulla. Maria è anzi il «prototipo» dello «Straordinario», ed il suo fiat, che lo stesso Dio attende per compiere l'Incarnazione e salvare l'uomo, un fiat pienamente volontario e libero nell'accettazione della divina maternità, fa di Maria il modello per ogni cristiano nell'accettazione della divina volontà a suo riguardo. Con ciò Kierkegaard rinunciava e denunziava il nucleo centrale della teologia protestante della grazia ed accettava, forse senz'averne tutta la coscienza, l'essenza della dottrina cattolica della imitazione di Cristo.

(1971)

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[1] Karl Barth, Kirchliche Dogmatik, A. G. Zollikon, Evangelische Verlag, Zürich 1945, t. ½ (III ed.): De Lehre von Worte Gottes, Prolegomena, pp. 153 ss.

[2] Karl Barth, Op. cit., p. 157.

[3] Karl Barth, Op. cit., pp. 153 s.

[4] Cf. Fear and Trembling, Princeton U. P. 1945, nota 50, p. 201.

[5] L'originale ha: «.son hun benaadede Quinde» = lett.: «.come quella Donna gratificata» dove il participio passato «benaadede» corrisponde al kecaritome,nh del Vangelo.

[6] Kierkegaard vuol dire soltanto, e lo prova il contesto con gli altri testi, che la Vergine portò in seno il divin Figlio per il tempo stabilito dalla natura così che la sua Maternità divenne a tutti evidente, e prima di tutti a San Giuseppe, come dice il Vangelo (Mc. 1, 18).

[7] Timore e Tremore, in «Samlede Vaerker», II ed., Copenhagen 1921, t. III, pp. 128 s.

[8] Vedi ora la nostra trad. it: Pensieri che feriscono alle spalle, E.M.P., Padova 1982, p. 154 ss.

[9] S. V., t. XII, pp. 295 s. In questo stesso tempo (1850) nel suo capolavoro cristologico ch'è l'Esercizio del Cristianesimo, Maria è presentata nella più intima partecipazione alla Passione di Cristo come la «Vergine disprezzata» (Indövelse i Christendom, P. I, § II; trad. it. di C. Fabro, Roma 1971, p. 102. Cf. anche pp. 99, 162, 196, 226, 232 e 276).

[10] Bog om Adler: Papirer 1846-47, VII2 B 235, pp. 63 s.; tr. it. di C. Fabro, Padova 1976.

[11] S. Kierkegaard, Diario, a cura di C. Fabro, III ed., Morcelliana, Brescia 1980-83, 12 voll.

[12] S. August., Sermo 120, 4; «In Natali Domini»; PL 39, col. 1986. S. Bern., De laudibus Virginis Matris, Homiliae super «Missus», Hom. 4, 8; PL 183, col. 83. Kierkegaard aveva nella sua biblioteca tanto le opere di S. Agostino (nella ed. dei Maurini), quanto quelle di S. Bernardo, ma è molto probabile che i testi da me citati li abbia letti nelle Glorie di Maria di S. Alfonso de' Liguori, che leggeva proprio nel 1850 servendosi di una traduzione tedesca.

[13] Schelling, Philosophie der Kunst, § 42; s. w. Abt. I, Bd. 5, p. 433.