sabato 19 novembre 2011

GESÙ CRISTO RE DELL'UNIVERSO


Oggi 20 Novembre celebriamo la

XXXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO
RE DELL'UNIVERSO
Anno A - Solennità

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Di seguito riporto:

1. la seconda lettura dell'Ufficio:

2. i testi del Messale;

3. un commento brevissimo sull'Inferno, di G. Ravasi

4. qualche esempio di Omelia

5. due pagine di sant'Agostino


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Venga il tuo regno

Dall'opuscolo «La preghiera» di Origène, sacerdote (Cap. 25; PG 11, 495-499)
Il regno di Dio, secondo la parola del nostro Signore e Salvatore, non viene in modo da attirare l'attenzione e nessuno dirà: Eccolo qui o eccolo là; il regno di Dio è in mezzo a noi (cfr. Lc 16, 21), poiché assai vicina è la sua parola sulla nostra bocca e nel nostro cuore (cfr. Rm 10, 8). Perciò, senza dubbio, colui che prega che venga il regno di Dio, prega in realtà che si sviluppi, produca i suoi frutti e giunga al suo compimento quel regno di Dio che egli ha in sé. Dio regna nell'anima dei santi ed essi obbediscono alle leggi spirituali di Dio che in lui abita. Così l'anima del santo diventa proprio come una città ben governata. Nell'anima dei giusti è presente il Padre e col Padre anche Cristo, secondo quell'affermazione: «Verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14, 23).
Ma questo regno di Dio, che è in noi, col nostro instancabile procedere giungerà al suo compimento, quando si avvererà ciò che afferma l'Apostolo del Cristo. Quando cioè egli, dopo aver sottomesso tutti i suoi nemici, consegnerà il regno a Dio Padre, perché Dio sia tutto in tutti (cfr. 1 Cor 15, 24. 28). Perciò preghiamo senza stancarci. Facciamolo con una disposizione interiore sublimata e come divinizzata dalla presenza del
Verbo. Diciamo al nostro Padre che è in cielo: «Sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno» (Mt 6, 9-10). Ricordiamo che il regno di Dio non può accordarsi con il regno del peccato, come non vi è rapporto tra la giustizia e l'iniquità né unione tra la luce e le tenebre né intesa tra Cristo e Beliar (cfr. 2 Cor 6, 14-15).
Se vogliamo quindi che Dio regni in noi, in nessun modo «regni il peccato nel nostro corpo mortale» (Rm 6, 12). Mortifichiamo le nostre « membra che appartengono alla terra» ( Col 3, 5). Facciamo frutti nello Spirito, perché Dio possa dimorare in noi come in un paradiso spirituale. Regni in noi solo Dio Padre col suo Cristo. Sia in noi Cristo assiso alla destra di quella potenza spirituale che pure noi desideriamo ricevere. Rimanga finché tutti i suoi nemici, che si trovano in noi, diventino «sgabello dei suoi piedi» (Sal 98, 5), e così sia allontanato da noi ogni loro dominio, potere ed influsso. Tutto ciò può avvenire in ognuno di noi. Allora, alla fine, «ultima nemica sarà distrutta la morte» (1 Cor 25, 26). Allora Cristo potrà dire dentro di noi: «Dov'è , o morte, il tuo pungiglione? Dov'è , o morte, la tua vittoria? » ( Os 13, 14; 1 Cor 15, 55). Fin d'ora perciò il nostro «corpo corruttibile» si rivesta di santità e di « incorruttibilità; e ciò che è mortale cacci via la morte, si ricopra dell'immortalità» del Padre (1 Cor 15, 54). Così regnando Dio in noi, possiamo già godere dei beni della rigenerazione e della risurrezione.


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MESSALE


Antifona d'Ingresso Ap 5,12; 1,6
L'Agnello immolato è degno di ricevere potenza
e ricchezza e sapienza e forza e onore:
a lui gloria e potenza nei secoli, in eterno.


Colletta

Dio onnipotente ed eterno, che hai voluto rinnovare tutte le cose in Cristo tuo Figlio, Re dell'universo, f
a' che ogni creatura, libera dalla schiavitù del peccato, ti serva e ti lodi senza fine. Per il nostro Signore...


Oppure:
O Padre, che hai posto il tuo Figlio come unico re e pastore di tutti gli uomini, per costruire nelle tormentate vicende della storia il tuo regno d'amore, alimenta in noi la certezza di fede, che un giorno, annientato anche l'ultimo nemico, la morte, egli ti consegnerà l'opera della sua redenzione, perché tu sia tutto in tutti. Egli è Dio, e vive e regna con te ...


LITURGIA DELLA PAROLA


Prima Lettura Ez 34,11-12.15-17
Voi siete mio gregge: io giudicherò tra pecora e pecora.

Dal libro del profeta Ezechièle
Così dice il Signore Dio: Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna. Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine.
Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia.
A te, mio gregge, così dice il Signore Dio: Ecco, io giudicherò fra pecora e pecora, fra montoni e capri.


Salmo Responsoriale Dal Salmo 22
Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla..

Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare.
Ad acque tranquille mi conduce.

Rinfranca l’anima mia,
mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome.

Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca.

Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni.


Seconda Lettura
1 Cor 15,20-26a.28
Consegnerà il regno a Dio Padre, perché Dio sia tutto in tutti.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita.
Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo. Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza.
È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte.
E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti.


Canto al Vangelo
Mc 11,9.10
Alleluia, alleluia.

Benedetto colui che viene nel nome del Signore!
Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide!

Alleluia.


Vangelo Mt 25,31-46
Siederà sul trono della sua gloria e separerà gli uni dagli altri.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.
Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.
Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.
Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”.
Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”.
E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».


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Da "Mattutino" di ieri, 19 novembre 2011 (Gianfranco Ravasi)


Il freddo dell'Inferno


Possono esserci persone che hanno distrutto totalmente in sé stesse il desiderio della verità e la disponibilità all'amore… In simili individui non ci sarebbe più nulla di rimediabile: è questo che si indica con la parola “inferno”. «Questa è la mia idea dell'inferno: uno se ne sta seduto là, completamente abbandonato da Dio, e sente che non può più amare, mai più e che mai più incontrerà un'altra persona, per tutta l'eternità».


Così scriveva al teologo Karl Rahner la romanziera tedesca Luise Rinser, echeggiando le parole di un altro scrittore, Georges Bernanos: «L'inferno è non amare più», che a sua volta raccoglieva l'idea del suo connazionale Victor Hugo secondo il quale «l'inferno è tutto in una parola, solitudine». Forse per questo si potrebbe dire — sempre con Bernanos — che non si deve parlare del «fuoco dell'inferno» perché «l'inferno è freddo», come ogni luogo senza la luce e il calore dell'amore. Si dice che i predicatori di oggi, rispetto ai loro colleghi del passato, non sono inclini a mettere a tema i cosiddetti “Novissimi”. Non così Benedetto XVI che li ha affrontati nella sua enciclica Spe salvi (2007) alla quale abbiamo attinto per un'efficace rappresentazione dell'inferno come stato interiore che può già crearsi dentro la vita e l'anima di una persona in vita. Due sono i sintomi inequivocabili. Innanzitutto spegnere ogni ricerca della verità e, quindi, ogni cammino verso il mistero, il trascendente, il divino. Segue a ruota proprio la chiusura all'amore che raggela ogni spiritualità profonda. Solo una piccola nota di commento. Il Papa fa balenare la possibilità che l'inferno inizi già ora, qui nella storia. Il filosofo americano William James (1842-1910) l'aveva già intuito: «L'inferno di cui parla la teologia non è peggiore di quello che creiamo a noi stessi in questo mondo».


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Omelia (Congregatio Pro Clericis)


La celebrazione della Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo, Re dell’Universo, al termine dell’anno liturgico, ha il valore di una vera e propria sinfonia in cui viene celebrato, nella sua interezza, il mistero di Dio. Le letture liturgiche, infatti, annunciano la regalità di Dio e la sua piena signoria sulla realtà tutta e introducono nella natura sconvolgente di tale salvatrice potestà: «Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura [...] Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare». Attraverso le parole del profeta Ezechiele si viene introdotti nel cuore della fede, proprio in quanto posti dinnanzi all’Avvenimento centrale mediante il quale Dio manifesta la propria regalità.

Il Signore parla all’uomo e gli mostra la propria signoria, in primo luogo attraverso la Creazione: «Infatti, dalla creazione del mondo in poi le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da Lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità» (Rm 1,20). Inoltre il Padre è venuto incontro all’uomo mediante i suoi profeti: Egli infatti «molte volte e in diversi modi" ha rivolto la sua parola al suo popolo "per mezzo dei profeti» (Eb 1,1). Ma tutta la creazione e tutta l’opera profetica era orientata a compiersi nella promessa di Dio: «io stesso cercherò [...] io stesso condurrò le mie pecore». Questa promessa si realizza quando, venuta la pienezza del tempo, Dio invia il proprio Figlio unigenito, nella carne.

Egli non è più “uno” che cerca le pecore e ne ha cura “a nome di Dio” come i profeti; Gesù Cristo è Dio stesso, fatto uomo. Il Padre, nel suo Figlio, si trova “in mezzo” alle sue pecore che erano state disperse.

Nell’Esortazione Apostolica Tertio millennio adveniente del Beato Giovanni Paolo II, leggiamo: «Tocchiamo qui il punto essenziale... non è soltanto l’uomo a cercare Dio, ma è Dio che viene in persona a parlare di sé all’uomo ed a mostrargli la via sulla quale è possibile raggiungerlo» (n. 6). Così Cristo, Verbo eterno fattosi uomo, è sia la piena manifestazione della gloria di Dio sia il definitivo compimento del progetto del Padre per l’uomo.

Il Profeta Ezechiele rivela che la condiscendenza divina verso l’uomo si manifesta nella ricerca che il Signore compie della sua creatura: «Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita». In Cristo Gesù, Dio il Padre non solo parla all’uomo, ma lo cerca. Quale mistero profondo questo atteggiamento verso l’uomo da parte di Dio!

Tutto il cristianesimo è il Padre che in Gesù Cristo e nello Spirito cerca l’uomo. Questa ricerca ha la sua origine nell’imperscrutabile intimità della Santissima Trinità. Ha la sua origine nella decisione del Padre di scegliere ciascuno di noi, prima della creazione del mondo, perché fossimo «Santi ed immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi» (Ef. 1,4-5). «Dio dunque cerca l’uomo, che è sua particolare proprietà, in maniera diversa da come lo è ogni altra creatura. Egli è proprietà di Dio in base ad una scelta di amore: Dio cerca l’uomo spinto dal suo cuore di Padre». (Giovanni Paolo II, Tertio millennio adveniente, n. 7).

Perché l’uomo è cercato dal Padre?

Perché - come insegna il profeta - gli uomini «Erano dispersi nei giorni nuvolosi e di caligine»; el il Signore desidera renderli partecipi della «Sorte dei santi nella luce» (Col 1,12).

Afferma San Paolo nell’odierna lettura: «Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti». La ricerca che Dio Padre fa dell’uomo raggiunge il suo culmine nella morte e risurrezione di Gesù Cristo.

In Gesù di Nazateh l’uomo da tanto tempo cercato è finalmente ritrovato, l’uomo da tanto tempo perduto è finalmente ricondotto a casa, l’uomo da tanto tempo ferito e malato è finalmente curato e guarito. E tutto questo accade nella morte e risurrezione di Cristo: «Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dai morti», dal momento che «come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo». Cristo infatti, morendo, ha distrutto il vero nemico, la morte. Risorgendo, Egli ha donato la vera vita e ha ricostituito, negli uomini la dignità della loro prima origine. In Gesù Cristo, Dio ha operato la liberazione dalla morte eterna, «ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto, per opera del quale abbiamo la redenzione» (Col 1, 13-14 ) facendo di noi un popolo di sacerdoti, re e profeti!

A che cosa mira tutto questo? A che «Dio sia tutto in tutti», afferma ancora l’Apostolo.

Lo scopo di tutto è il rimanere di Dio nell’intimo dell’uomo, così che l’uomo possa rimanere nell’intimo di Dio. L’Incarnazione del Figlio di Dio ha come scopo la partecipazione, da parte dell’uomo, alla stessa vita di Dio. Ecco che cosa celebra la liturgia della Chiesa in questo giorno solenne: il mistero del Padre che crea ogni cosa e che, nel Figlio, viene instancabilmente a cercare ciascuno, affinché, liberati mediante la passione redentrice di Cristo ed il dono dello Spirito, ogni uomo divenga partecipe, nel Figlio, della stessa vita del Padre.

La Regalità di Cristo consiste nel poter presentare al Padre l’uomo redento e divenuto figlio di Dio, e l’umanità riunita nell’unica Chiesa, sua Sposa e suo Corpo. La Signoria regale del Figlio è il compiersi di questo mirabile disegno. Ad essa siamo chiamati a partecipare fin d’ora, divenendo sempre più simili a Lui, cooperando nella Chiesa alla Sua maggior gloria e riconoscendoLo regalmente presente in ogni uomo.


Perché questo avvenga, è necessario che, anche le strutture temporali, nella loro legittima autonomia, siano orientate, dai cristiani, alla visibilità della Regalità di Cristo sul mondo. Non si dà, infatti, Signoria unicamente “intima o spirituale”, senza una reale e concreta Signoria sulla e nella storia, visibile anche nella società, nelle sue leggi e nella consapevolezza che, di ogni azione, ciascuno sarà chiamato a rendere conto all’unico vero Signore.

Maria Santissima e tutti i Santi, nei quali il potere Regale di Cristo ha operato meraviglie, sostengano la Chiesa nella difficile e permanente opera di instaurare omnia in Christo!

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Omelia (p. Cantalamessa ofmcapp.)

Il Vangelo dell’ultima domenica dell’anno liturgico, solennità di Cristo Re, ci fa assistere all’atto conclusivo della storia umana: il giudizio universale: “Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sua sinistra”.

Il primo messaggio contenuto in questo vangelo non è il modo o l’esito del giudizio, ma il fatto che ci sarà un giudizio, che il mondo non viene dal caso e non finirà a caso. Esso è iniziato con una parola: “Sia la luce…Facciamo l’uomo” e finirà con una parola: “Venite, benedetti…Andate, maledetti”. Al suo inizio e alla sua fine c’è la decisione di una mente intelligente e di una volontà sovrana.

Questo inizio di millennio è caratterizzato da una accesa discussione su evoluzionismo e creazionismo. Ridotta all’essenziale, la disputa oppone quelli che, richiamandosi – non sempre a ragione – a Darwin, credono il mondo sia frutto di una evoluzione cieca, dominata dalla selezione delle specie, e quelli che, pur ammettendo una evoluzione, vedono Dio all’opera nello stesso processo evolutivo.

Giorni fa si è svolta in Vaticano una sessione plenaria della Pontificia Accademia delle scienze che aveva per tema: “Vedute scientifiche intorno all’evoluzione dell’universo e della vita”, con la partecipazione dei massimi scienziati di tutto il mondo, credenti e non credenti, diversi dei quali premi Nobel. Nel programma sul vangelo che conduco su Rai Uno, ho intervistato uno degli scienziati presenti, il Prof. Francis Collins, capo del gruppo di ricerca che ha portato alla scoperta del genoma umano. Gli ho chiesto: “Se l’evoluzione è vera, resta ancora uno spazio per Dio?”. Ecco la sua risposta:

“Darwin aveva ragione nel formulare la sua teoria secondo cui discendiamo da un antenato comune e ci sono stati cambiamenti graduali nel corso di lunghi periodi di tempo, ma questo è l’aspetto meccanico di come la vita è arrivata al punto di formare questo fantastico panorama di diversità. Non risponde alla domanda sul perché c’è vita. Vi sono aspetti dell’umanità che non sono facilmente spiegabili, quali il nostro senso morale, la cognizione del bene e del male che a volte ci induce a compiere sacrifici che non sono dettati dalle leggi dell’evoluzione, che ci suggerirebbero di preservare noi stessi a tutti i costi. Questa non è una prova, ma non sta forse ad indicare che Dio esiste?”.

Ho anche chiesto al Prof. Collins se aveva creduto prima in Dio o in Gesù Cristo. Mi ha risposto: “Sino all’età di circa 25 anni ero ateo, non avevo una preparazione religiosa, ero uno scienziato che riduceva quasi tutto ad equazioni e leggi di fisica. Ma come medico ho cominciato a vedere la gente che doveva affrontare il problema della vita e della morte, e questo mi ha fatto pensare che il mio ateismo non era un’idea radicata. Ho cominciato a leggere testi sulle argomentazioni razionali della fede che io non conoscevo. Per prima cosa sono arrivato alla convinzione che l’ateismo era l’alternativa meno accettabile, e poco a poco sono giunto alla conclusione che deve esistere un Dio che ha creato tutto questo, ma non sapevo com’era questo Dio. Ciò mi ha indotto a compiere una ricerca per scoprire qual è la natura di Dio, e l’ho trovata nella Bibbia e nella persona di Gesù. Dopo due anni di ricerche ho ritenuto che non fosse più ragionevole opporre resistenza, e sono divenuto un seguace di Gesù”.

Un grande fautore dell’evoluzionismo ateo ai nostri giorni è l’inglese Richard Dawkins, l’autore del libro “God Delusion”, L’illusione di Dio. Egli sta promuovendo una campagna pubblicitaria che si propone di mettere sui bus delle città inglesi la scritta: “Dio, probabilmente, non esiste: smetti di angustiarti e goditi la vita” (“There’s probably no God. Now stop worrying and enjoy life”). “Probabilmente”: dunque non si esclude del tutto che possa esistere! Ma se Dio non esiste il credente non ha perso quasi niente, se invece esiste il non credente ha perso tutto.

Io mi metto nei panni di un genitore che ha un figlio portatore di handicap, autistico, o gravemente malato, di un immigrato fuggito dalla fame o dagli orrori della guerra, di un operaio rimasto senza lavoro, o di un contadino espulso dal suo campo…Mi domando come reagirebbe a quell’annuncio: “Dio non esiste: smetti di preoccuparti e goditi la vita!”.

L’esistenza del male e dell’ingiustizia nel mondo è certo un mistero e uno scandalo, ma senza la fede in un giudizio finale, essa risulterebbe infinitamente più assurda e più tragica. In tanti millenni di vita sulla terra, l’uomo si è assuefatto a tutto; si è adattato a ogni clima, immunizzato da ogni malattia. A una cosa non si è assuefatto mai: all’ingiustizia. Continua a sentirla come intollerabile. Ed è a questa sete di giustizia che risponderà il giudizio universale.

Esso non sarà voluto solo da Dio, ma, paradossalmente, anche dagli uomini, anche dagli empi. “Nel giorno del giudizio universale, non è solo il Giudice che scenderà dal cielo, ha scritto il poeta Claudel, ma sarà tutta la terra a precipitarglisi incontro”.

La festa di Cristo Re, con il vangelo del giudizio finale, risponde alla più universale delle speranze umane. Ci assicura che l’ingiustizia e il male non avranno l’ultima parola e nello stesso tempo ci esorta a vivere in modo che il giudizio non sia per noi di condanna ma di salvezza e possiamo essere di quelli a cui Cristo dirà: “Venite, benedetti dal Padre mia, prendete possesso del regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo”.

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Omelia (L. Manicardi)

Questa ultima domenica dell’anno liturgico presenta un messaggio escatologico centrato su un intervento di Dio che è di giudizio. Nella prima lettura Dio annuncia che egli in persona opererà un giudizio sul suo popolo, non solo nei confronti dei capi (montoni e capri), ma di ciascun membro del popolo (pecore). Il vangelo presenta Gesù quale re e giudice escatologico che separa pecore e capre, che opera il giudizio su ogni uomo basandolo sulla concreta prassi di carità. Paolo parla dell’estensione della signoria di Cristo Risorto che raggiungerà il suo apice nella sottomissione della potenza della morte che imperversa nella creazione sottomettendola a caducità.

Il giudizio è elemento centrale della fede cristiana. L’annuncio del giudizio vuole suscitare la responsabilità del credente nel mondo affinché la sua prassi unifichi misericordia e giustizia. La sua portata universale, per cui riguarda ogni uomo, va intesa anche nel senso digiudizio di tutto l’uomo, ovvero, come sguardo di Dio che fa emergere il bene e il male che abitano nel cuore dello stesso uomo: “Il medesimo uomo è in parte salvato e in parte condannato” (Ambrogio, In Ps. CXVIII Expositio, 57). Affinché Dio sia tutto in tutti, affinché solo l’amore resti e non ci sia più il male occorre il fuoco purificatore dell’incontro con il Signore che bruci ciò che in noi è contrario all’amore.

L’evocazione matteana del giudizio, con l’elemento determinante della sorpresa dei giudicati, mette a nudo il cuore dell’uomo e conduce il lettore del vangelo a interrogarsi sulla qualità della sua prassi.
Il giudizio è anche l’atto attraverso cui Dio può instaurare la sua giustizia e la sua signoria sulla storia e sull’umanità. Il giudizio è misura di giustizia divina nei confronti di tutti coloro che nella storia sono stati oppressi e sfruttati dagli uomini, che nella vita sono stati soltanto vittime, senza soggettività, senza voce, senza diritti.
Il giudizio rileva in particolare l’omissione, il peccato del non-fare. Ovvero, il peccato più diffuso e che più facilmente si può coprire con giustificazioni e scuse. Il “non amare” è il grande peccato: Dio ci giudica nel malato o nel carcerato che non visitiamo, nel bisognoso di cui non ci prendiamo cura, nell’altro che non amiamo. Se il giudizio di Dio è il suo sguardo che vede ciò che abita nel cuore dell’uomo, esso smaschera anzitutto ciò che non abbiamo voluto vedere: esso vede il nostro vedere e il nostro non-vedere.

Questo sguardo di Dio giudica anche il tipo di sguardo che abbiamo sul povero e sul bisognoso. Giudica il nostro giudicare l’altro per cui un carcerato è uno che ha ciò che si merita, lo straniero è uno che disturba la nostra tranquillità, il malato è uno che sconta i suoi peccati… Il giudizio divino giudica il nostro chiudere le viscere a chi è nel bisogno (cf. 1Gv 3,17).

L’universalità del giudizio emerge anche dal fatto che si fonda sulla valutazione di gesti umani, umanissimi, fatti (o non fatti) da credenti e da non credenti. I semplici gesti di aiuto, carità e vicinanza espressi in Mt 25,31-46 costituiscono una sorta di grammatica elementare dell’umana relazione con l’altro. Una grammatica senza la quale non si potrà mai comporre una frase veramente cristiana. Il volto supplice dell’altro mi interpella: l’uomo è colui che risponde di un altro uomo.

Negli esempi di aiuto e prossimità enumerati nel testo evangelico vi è un aspetto spesso trascurato nella riflessione: la capacità di lasciarsi aiutare, di lasciarsi avvicinare, toccare, curare. La capacità e l’umiltà di lasciarsi amare fattivamente. Una capacità che rivela una dimensione di povertà più radicale della malattia o della fame o della nudità e che si chiama umiltà. L’umiltà che può nascere dalle umiliazioni operate dalla vita o procurate dagli uomini.

Come imparare a fare il bene agli altri? Dal propriodesiderio, risponde Gesù quando dice di fare agli altri ciò che si vorrebbe fosse fatto a noi (cf. Mt 7,12). E il desiderio che abbiamo è di essere amati, raggiunti dagli altri nel nostro bisogno. Così, “colui che fa del bene al suo prossimo, fa del bene a se stesso, e colui che sa amare se stesso, ama anche gli altri” (Antonio,Lettera IV,7).

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Omelia (E. Bianchi)

Nell’ultima domenica dell’anno liturgico ascoltiamo la pagina che conclude il discorso escatologico nel vangelo secondo Matteo, quella in cui Gesù annuncia il giudizio finale. È un brano straordinario, che sintetizza in modo semplice la singolarità cristiana, ponendo con chiarezza ogni discepolo di Cristo di fronte alla propria concreta responsabilità verso i fratelli, in particolare verso gli ultimi.

«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, si siederà sul trono della sua gloria e saranno riunite davanti a lui tutte le genti». Gesù parla di sé alla terza persona quale Figlio dell’uomo (cf. Dn 7,13), ossia quella figura di Giudice escatologico che alla fine della storia verrà per stabilire la giustizia di Dio. La sua regalità consiste nel compiere quel giudizio che è una misura di giustizia verso tutti coloro che sulla terra sono stati vittime, privati della possibilità di una vita degna di questo nome; in questo modo Gesù porterà a compimento ciò che ha iniziato durante il suo passare tra gli uomini facendo il bene (cf. At 10,38). Il giudizio è assolutamente necessario affinché la storia abbia un senso e tutte le nostre azioni trovino la loro oggettiva verità davanti al Dio che «ama giustizia e diritto» (Sal 33,5).

Servendosi di un’immagine tratta dal profeta Ezechiele Gesù afferma che il Figlio dell’uomo «separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra» (cf. Ez 34,17). Questo giudizio, che è a un tempo universale e personale, non avviene – come potremmo attenderci – al termine di un processo:qui viene solo presentata la sentenza, perché tutta la nostra vita è il luogo di un «processo» particolarissimo. Ed è proprio per risvegliare in noi questa consapevolezza che Gesù descrive il duplice dialogo simmetrico tra il Re/Figlio dell’uomo e quanti si trovano rispettivamente alla sua destra e alla sua sinistra. Ai primi, definiti «benedetti del Padre», il Re dona in eredità il Regno con questa motivazione: «ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, in carcere e siete venuti a trovarmi». Per non aver fatto questo agli altri è invece riservata una sorte opposta.

Il metro di questa separazione non è costituito da questioni morali o teologiche: no, la salvezza dipende semplicemente dall’aver o meno servito i fratelli e le sorelle, dalle relazioni di comunione con quanti siamo stati disposti a incontrare sul nostro cammino. E ciò che colpisce è lo stupore manifestato da coloro cui il Figlio dell’uomo si rivolge: «Quando ti abbiamo visto affamato… e ti abbiamo (o non ti abbiamo) servito?», cui segue la risposta decisiva: «Amen, io vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». Sì, il poveroche manca del necessario per vivere con dignità è«sacramento» di Gesù Cristo, perché con lui Cristo stesso ha voluto identificarsi (cf. 2Cor 8,9): chi serve il bisognoso serve Cristo, lo sappia o meno.

Di più, per noi cristiani i poveri sono anche «sacramento del peccato del mondo» (Giovanni Moioli), dell’ingiustizia che regna sulla terra, e nell’atteggiamento verso di essi si misura la nostra capacità di vivere nel mondo quale corpo di Cristo. Quando infatti vediamo una persona oppressa dalla povertà, dovremmo saper interpretare questa situazione come il frutto dell’ingiustizia di cui anche noi siamo responsabili in prima persona. Da tale presa di coscienza scaturirà poi la disponibilità a farci prossimi a chi soffre per lottare contro il bisogno che lo angustia; e quando avremo operato per eliminare il bisogno, anzi mentre operiamo, ecco che il povero diventa per noi sacramento di Cristo, anche se forse lo scopriremo solo alla fine dei tempi…

Nell’ultimo giorno tutti, cristiani e non cristiani, saremo giudicati sull’amore, e non ci sarà chiesto se non di rendere conto del servizio amoroso che avremo praticato quotidianamente verso i fratelli, soprattutto verso i più bisognosi. E così il giudizio svelerà la verità profonda della nostra vita quotidiana, il nostro vivere o meno l’amore qui e ora: «impariamo dunque a meditare su un mistero tanto grande e a servire Cristo come egli vuole essere servito» (Giovanni Crisostomo).

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Dai "Discorsi" di sant'Agostino, vescovo (Disc. 86, 3-6)

Ciò che si dà ai poveri lo riceve Dio.

Nessuno sia esitante a dare l'elemosina ai poveri, nessuno creda che la riceva colui del quale vede la mano; la riceve Colui che ha comandato di darla. Non affermiamo ciò in base a un nostro sentimento o a una congettura umana; ascolta Colui che non solo ti esorta a farlo, ma ti firma anche la garanzia. Avevo fame - è detto - e mi avete dato da mangiare. Dopo l'enumerazione dei loro servizi [i giusti] chiederanno [al Signore]: Quando mai ti abbiamo visto affamato? ed egli risponderà: Tutto ciò che avete fatto a uno dei più piccoli dei miei fratelli, lo avete fatto a me. Chiede l'elemosina un povero ma è un ricco quello che la riceve; si dà a uno che la spende per sé, ma la riceve Colui che la renderà. E non renderà solo ciò che riceve: egli vuole prendere a interesse, promette più di quel che avrai dato. Metti fuori tutta la tua cupidigia di danaro; fa' conto d'essere un usuraio. Se tu lo fossi realmente, saresti rimproverato dalla Chiesa, saresti condannato dalla parola di Dio, ti detesterebbero tutti i tuoi fratelli come un crudele usuraio bramoso di guadagnare sulle lagrime altrui. Sii usuraio, nessuno te lo proibisce. Invece di prestare a un povero, il quale piangerà quando ti renderà, dà a uno ch'è in grado di restituire e che ti esorta anche a ricevere ciò che promette.

Dio stesso chiama in giudizio i creditori perché ricevano.

Da' a Dio e cita in giudizio Dio. Anzi da' a Dio e lo citerai per ricevere. Certamente sulla terra cercavi il tuo debitore; cercava anch'egli, ma cercava ove nascondersi dal tuo cospetto. Tu avevi udito il giudice e avevi detto: "Fa' chiamare in giudizio il mio debitore". Il debitore all'udire ciò se ne va via ed evita perfino di salutarti; e dire che tu, quando aveva bisogno, gli avevi prestato dei soldi e così lo avevi salvato. Orbene, ecco a chi devi fare dei prestiti. Da' a Cristo: sarà lui stesso che spontaneamente ti farà chiamare in giudizio per restituirti quanto gli hai prestato, mentre tu ti stupirai ch'egli abbia ricevuto qualcosa da te. In effetti ai giusti che si troveranno alla sua destra dirà lui stesso, di sua propria iniziativa: Venite, benedetti del Padre mio. Venite: dove? Entrate in possesso del regno, preparato per voi fin dall'origine del mondo. In premio di che cosa? Avevo fame e mi avete dato da mangiare; avevo sete e mi avete dato da bere; ero nudo e mi avete rivestito; ero forestiero e mi avete dato ospitalità; ero malato e in prigione e siete venuti a trovarmi. E quelli: Signore, ma quando mai ti abbiamo visto?. Che vuol dire questo modo di parlare? Il debitore concorda nel debito e i creditori rifiutano! Il debitore fedele non vuole ingannarli. Esitate a ricevere? Io ho ricevuto un prestito da voi e voi non lo sapete? Egli inoltre risponde in qual modo l'ha ricevuto: "Ogni volta che avete fatto un servigio a uno dei miei fratelli più piccoli, lo avete fatto a me. Non l'ho ricevuto io direttamente ma per mezzo dei miei. Ciò ch'è stato dato loro è arrivato a me: state sicuri, non l'avete perduto. Sulla terra vi guardavate da quanti non erano capaci di restituire; nel cielo avete uno ch'è in grado di farlo. Io ho ricevuto - dice - io vi restituirò".

Che cosa Cristo renderà in cambio dei beni terreni.

Ma che cosa ho ricevuto e che cosa renderò? "Ho avuto fame - dice - e mi avete dato da mangiare, ecc. Ho ricevuto la terra, darò il cielo; ho ricevuto beni temporali, restituirò beni eterni; ho ricevuto il pane, darò la vita". Anzi diciamo pure così: "Ho ricevuto il pane, darò anch'io il pane; ho ricevuto da bere, darò da bere; ho avuto ospitalità in casa, ma io darò la casa; sono stato visitato quand'ero malato, ma io darò la salute; sono stato visitato in carcere, ma io darò la libertà. Il pane dato a voi ai miei poveri è stato consumato, mentre il pane che io darò, non solo vi ristorerà, ma non finirà giammai". Ci dia dunque il pane lui, il pane disceso dal cielo. Quando darà il pane, darà se stesso.

Che cosa infatti volevi quando prestavi a interesse? Dare soldi e riceverne altri, ma darne di meno e riceverne di più. "Io invece - dice Dio - tutto ciò che hai dato, lo contraccambierò in meglio". Ora, se tu dessi una libbra d'argento e ne ricevessi una d'oro, da quanta gioia saresti preso? Osserva e interroga l'avarizia. "Ho dato una libbra d'argento - direbbe - e ne ricevo una d'oro. Quale differenza tra l'oro e l'argento!". A maggior ragione dunque, quale differenza tra il cielo e la terra! Tu inoltre avresti dovuto lasciare quaggiù l'oro e l'argento, ma tu non dovevi rimanervi per sempre. Io invece vi darò un bene diverso, più abbondante e migliore, e ve lo darò per l'eternità. Spegniamo quindi, fratelli, la nostra brama di denaro in modo da lasciarci infiammare da un'altra brama ch'è santa. L'avarizia, che con ogni mezzo cerca d'impedirvi di fare il bene, vi seduce con un linguaggio nefasto; voi volete essere schiavi d'una padrona crudele perché non volete riconoscere il Signore ch'è buono. Talvolta il cuore è sotto il dominio di due padrone dalle quali è straziato in direzioni opposte il cattivo servitore, che merita d'essere schiavo di siffatte padrone.

L'avarizia e la prodigalità: due padrone che danno ordini contrari.

Un individuo è talora schiavo di due padrone che sono in contrasto tra loro: l'avarizia e la prodigalità. L'avarizia dice: "Tieni in serbo", la prodigalità invece dice: "Spendi". Che cosa farai tu, soggetto a due padrone che danno ordini contrari e hanno esigenze opposte? L'una e l'altra ha un suo proprio discorso. Quando perciò ti rifiuterai di ubbidire e vorrai perseguire la tua indipendenza, poiché non potranno darti ordini, useranno con te la seduzione. Ma tu devi avere paura più delle loro carezze che dei loro ordini. Che dice l'avarizia? Dice: "Conserva i tuoi averi per te e per i tuoi figli. Se ti troverai nel bisogno, nessuno ti darà nulla. Non vivere alla giornata; provvedi alle tue necessità per l'avvenire". La prodigalità, al contrario: "Godi la vita finché ce l'hai. Tratta bene l'anima tua. Dovrai morire ma non sai quando e non sai neppure se i tuoi beni li possederà il tuo erede, al quale li lascerai. Tu imponi molte privazioni alla tua gola, ma quello, quando tu sarai morto, non porrà su di te una coppa o, se mai la porrà, sarà per ubriacarsene lui e a te non ne scenderà neppure una goccia. Tràttati perciò bene dal momento che ne hai la possibilità, adesso che la possibilità ce l'hai". Diverso era il comando dell'avarizia: "Conserva per te, pensa a te per l'avvenire". Diverso il comando della prodigalità: "Spendi, tràttati bene".


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Dai "Discorsi" di sant'Agostino, vescovo (Disc. 113/B, 4)
Si dà a Cristo quando si dà al povero.

Giaceva dunque presso la porta questo povero coperto di piaghe, ma il ricco lo disprezzava; quello bramava sfamarsi degli avanzi che cadevano dalla sua tavola; con le sue piaghe nutriva i cani, ma egli non era nutrito dal ricco. Considerate con attenzione, fratelli, che il povero è uno che ha bisogno: Beato - dice il Salmista - chi comprende il misero e il povero; riflettete bene e non disprezzate il povero come uno coperto di piaghe che giace presso la porta. Da' al povero, poiché lo riceve Colui che anche sulla terra volle essere povero ma dal cielo vuole arricchirci. Poiché così dice il Signore: Io avevo fame e voi mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete accolto nella vostra casa, ecc. Ed essi: Ma quando ti abbiamo visto affamato o assetato o nudo o forestiero? Ed egli: Tutte le volte che lo avete fatto a uno dei più piccoli di questi miei [fratelli], lo avete fatto a me. Il Signore mosso da misericordia volle che nei suoi fratelli più piccoli, sofferenti sulla terra, ci fosse in certo qual modo la propria persona per soccorrere dal cielo tutti i sofferenti. Tu dunque dài a Cristo quando dài al povero; o temi forse che un custode sì qualificato perda qualcosa o un ricco così grande non restituisca? Onnipotente è Dio, onnipotente è Cristo: non potrai perdere nulla. Affida la tua ricchezza a lui e non perderai nulla. Quando gliela affidi? Quando la dài al povero. Siffatta ricchezza non passerà quando sarà passata la carne come l'erba e la gloria dell'uomo appassirà come il fiore dell'erba. Pertanto, fratelli, se siamo rimasti atterriti che ci possa capitare di soffrire, dopo questa vita, tali pene e tormenti tra le fiamme ardenti, quali soffriva il ricco superbo e privo di misericordia, emendiamoci ora quando c'è tempo; poiché allora non sarà possibile soccorrere, perché non ci sarà possibilità di correggersi: infatti si corre in soccorso a ciascuno quando si corregge. È quella attuale la vita della correzione, la vita del soccorso e dell'aiuto. Rivolti al Signore.