XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO Anno A |
Non opponiamo resistenza alla prima venuta per non dover poi temere la seconda Dal «Commento sui salmi» di sant'Agostino, vescovo |
MESSALE Antifona d'Ingresso Ger 29,11.12.14
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IL COMMENTO
Secondo l'interpretazione dei Padri della Chiesa, l'uomo che parte per un lungo viaggio è il Signore. Dopo aver compiuto il suo Esodo dalla morte alla Vita, Eglichiama gli apostoli "che si era scelti nello Spirito Santo" e impartisce loro le istruzioni sulla missione svelando i segreti del Regno. La Parabola inizia con un flash sui quaranta giorni che separano la risurrezione dall'Ascensione, ma che include anche l'incontro sul Monte delle Beatitudini e la discesa dello Spirito Santo. Con poche parole Gesù sintetizza quale sarà il suo Testamento: donato alla Chiesa come segno sacramentale nell'eucarestia dell'Ultima Cena, sarà consegnato come talenti da impiegare nella missione affidata. Lo Spirito Santo sigillerà ogni insegnamento, evento e parola del Signore nella luce sfolgorante della Pasqua, riversando nei loro cuori l'amore con il quale vivere nella storia la stessa vita del Signore, coinvolti nella sua missione. Il corpo e il sangue di Cristo, uniti poi a tutti gli altri sacramenti, divengono così il Testamento nuovo ed eterno, l'alleanza nella quale la Chiesa dovrà vivere e percorrere il mondo sino ai confini della terra. A Gesù che sta per partire, è stato dato ogni potere in cielo ed in terra: consegnando i talenti Egli dice agli apostoli: "Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt. 28, 18-20). I talenti sono dunque colmi del potere stesso di Cristo.
Essi non sono le qualità umane, sono le ricchezze dei beni messianici, i beni del Padre donati completamente al Figlio. Ed essi sono ora consegnati, affidati ai servi, ai discepoli, a ciascuno di noi. Il verbo consegnare è decisivo: il Padre ha consegnato il Figlio; il Figlio si è consegnato al Padre ed è stato consegnato dal traditore.L'economia della salvezza passa per queste consegne. Per questo, l'inizio della parabola descrive un momento importante e decisivo, che riassume, in una profezia, il cuore della missione di Gesù e della sua Chiesa. Tutta la vita dello Sposo e della Sposa infatti si sviluppa in un crescendo di consegne, sino all'ultimo istante della storia, quando il Figlio consegnerà il Regno al Padre. La consegna è un sinonimo dell'amore. Si consegna davvero solo chi ama. Comprendiamo allora l'incipit della parabola, che è poi quello della nostra stessa vita, come lo è stato di quella del Signore: è l'amore smisurato che spinge il Padre a consegnare il Figlio al posto nostro, e quello del Figlio che si consegna sino alla fine. Il frutto di questo amore intimo e perfetto, è la consegna dei beni di Dio alla Chiesa, a ciascuno di noi, perchè siano consegnati ad ogni uomo. Ed il bene più grande di Dio è il Figlio stesso.E' Lui il talento prezioso che i servi ricevono.
"Come il Padre ha mandato me anche io mando voi", perchè "come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi". Come Lui si è consegnato a noi così anche noi siamo chiamati a consegnarlo al mondo attraverso la nostra stessa consegna. Il come è descritto nel diverso numero dei talenti che ricevono i servi.Non si tratta di qualità diversa, solo di forme diverse in funzione della missione specifica che ciascuno riceve. Se il talento è Cristo, consegnato attraverso la sua Parola, i sacramenti e tutti i beni che la Chiesa ha sempre custodito e amato gelosamente, anche chi riceve un solo talento non ha affatto ricevuto meno. Al contrario, ha ricevuto tutto, nulla gli manca per compiere la sua missione. Significa semplicemente che la storia di ciascuno è diversa e irripetibile, ma non per qusto la vita di San Francesco saverio è più importante agli occhi di Dio di quella di una sconosciuta monaca di clausura nascosta a Lisieux. Il Papa riceve i talenti necessari per adempiere la sua missione, così come la vedova ammalata che vive in uno sperduto paese di montagna.
Da quest'ultimo servo possiamo partire per comprendere la Buona Notizia che oggi il Signore vuole annunciarci. Certamente la paura di questi nasceva innanzi tutto dall'invidia. Come Caino non guardava di buon occhio suo fratello, anche lui guardava storto gli altri servi. Nella parabola questo non è scritto, ma si può dedurre da come guarda il Signore. Con occhi invidiosi; l’etimologia del termine invidia rivela la relazione con il “vedere”: in-videre significa avere un occhio cattivo, che non vede nè gli altri nè le cose. In Caino l'invidia giunge sino al desiderare la sparizione di Abele dalla sua vista. Il servo si comporta proprio così: ha un occhio in-capace di vedere, vede storto Colui che gli ha dato il talento e per questo lo nasconde alla sua vista. Un morbo maligno abita il suo cuore, vede male e quindi non conosce il suo Signore e neppure il talento ricevuto e, di conseguenza ne ha paura.
Quell'unico talento tra le mani gli innesca i pensieri più terribili, - "so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso" - non può neanche sopportare la sua vista. Lo sotterra per paura, perchè l'invidia genera sempre la paura. Il terrore di non essere, di perdere la propria identità, di non valere e non reggere; la paura di soccombere e non essere amato. Per questo il servo, con il talento, nasconde anche se stesso. Esattamente come Adamo dopo aver perduto l'innocenza che lo stringeva a Dio in un legame intimo e familiare. Sotterrare il talento significa sotterrare la propria dignità, il proprio essere, la primogenitura e il senso della propria vita; significa nascondersi e macerarsi in un misto di sentimenti di gelosia, mormorazioni, rancori, che avvelenano e ci imprigionano sempre più. Perchè, in una parola, sotterrare il talento è occultare Cristo, ucciderlo, come Caino ha ucciso Abele. Quel Talento, questa volta con lettera maiuscola, definisce il servo, ne annuncia l'autentica identità; è l'occasione di conversione, di abbandonarsi alla fedeltà, al potere e all'amore di Dio per vivere secondo la sua volontà. Nascosto il Talento si spengono le luci e la vita diviene un brandello gettato "fuori nelle tenebre", dove "sarà pianto e stridore di denti". Scrive San Paolo: "Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio. Ed è per lui che voi siete in Cristo Gesù, il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione..." (1 Cor. 1,26-31).
Il servo malvagio e infingardo non ha trattato il talento con familiarità, amore, dedizione, fedeltà anche nei piccoli particolari, come fosse cosa propria. Per lui, schiavo dell'invidia e della paura, nessuna intimità con Cristo; i beni di Cristo non erano oggetto delle sue attenzioni, perchè la sua esistenza scivolava via senza alcuna relazione con Lui. Chiamato a vivere la sua stessa vita, ad annunciare al mondo il suo amore, si è chiuso in se stesso, nel timore figlio del pensar male di Dio. In fondo, dietro all'atteggiamento di questo servo, vi è quello comune a tanti di noi. Pensiamo che Dio voglia sottrarci qualcosa e sospettiamo di Lui, ingannati dalla menzogna primordiale nella quale sono caduti i progenitori: Dio non ti ama, vuole solo limitarti. Dietro alle sue parole si nasconde l'inganno, vuole incastrarti. Dio è esigente e la Chiesa, peggio di peggio. Perchè non avere rapporti pre-matrimoniali? Perchè non ci si può divorziare? Perchè non posso convivere? Perchè sposarmi se sono tanto giovane? Perchè non posso vivere secondo i miei criteri e la libertà che mi spetta? Perchè perdonare quello che non posso perdonare? Perchè Dio mi vuole incastrare e la Chiesa interpreta a caso e subdolamente la sua Parola. Perchè in fondo domina la paura che dietro alla Croce non vi sia la resurrezione, ma, nella migliore delle ipotesi, solo un gran punto interrogativo. La paura di chi ha smarrito la fede o si è lasciato raffreddare dagli insuccessi, dallo scandalo della Croce; il timore che spesso prende la Chiesa e le impedisce di annunciare il Vangelo sotterrando il Talento in discussioni, convegni, slogan e proclami, produzione di carta, impegni volontaristici con i quali ci si sotterra sempre di più invece di schiudere il Cielo. La Chiesa che non annuncia il Vangelo è sempre una Chiesa che ha sepolto Cristo di nuovo. E così lascia sepolti quelli a cui è mandata, al suo interno e nel mondo. Il servo malvagio infatti non riporta nessun talento: la sua vita è stata infeconda. Quando la Chiesa, mondanizzata, ha paura e non crede nel potere della predicazione, sta gravemente abdicando, si converte in una serva malvagia e infingarda, che lascia nell'inganno e nella morte i suoi figli e i pagani, e non li porta a Cristo.
Si comprende ancora una volta che dietro a questi atteggiamenti del cuore vi sia un inganno profondo: facendo leva sulle disillusioni, sulle sofferenze, sulla croce che ha segnato la nostra vita, il demonio ci ha sedotti ritoccando l'immagine di Dio con un colpo ineffabile di "Photoshop": via la misericordia, la generosità, la fiducia, e l'amore e dentro durezza, esigenza, moralismo. Ha preso qualche cosa della nostra storia e l'ha sovrapposta all'immagine di Dio, coprendo e occultando la realtà più profonda. Proprio in quei momenti crocifissi ci veniva consegnato il talento! La Buona Notizia del Vangelo di oggi è nascosta qui: I talenti sono Cristo Crocifisso in noi, inviato ancora a vivere la storia per seminarvi la sua vita, il suo potere, il riscatto eterno per ogni uomo. Il talento consegnato ci consegna al mondo. Negli eventi che ci hanno fatto soffrire Dio era presente, ed è presente, e ci consegna il suo talento più prezioso. In quei momenti, lungi dall'essere duro ed esigente, Egli rivela il suo volto pieno di generosità e misericordia: è nella durezza della vita - che esiste a causa del peccato - che Dio elargisce gratuitamente il suo potere e la sua vittoria. Per questo, quando ci assalgono i pensieri tristi che tendono a gettarci nella paura e nell'invidia bisogna correre dai banchieri, dagli esperti del denaro, per imparare da loro, perchè ci aiutino a trafficare bene quanto ricevuto. Così ha fatto la Chiesa durante i secoli quando ha indetto i Concili, spesso sospinta dai servi fedeli che hanno ricevuto i talenti-carismi e li stavano trafficando. Così anche noi, nei momenti di crisi, quando si insinuano pensieri malvagi e ci accorgiamo di perdere il gusto per la volontà di Dio, avviciniamoci ai presbiteri, a catechisti, ai genitori, ai banchieri che Dio ha messo sul nostro cammino, e affidiamoci a loro.
Allora il vangelo di oggi rovescia completamente la prospettiva del servo malvagio. I talenti ci sono dati per essere trafficati, perchè siano consegnati nelle trame della storia e attirino in essi, nel potere di Cristo, nel suo Mistero Pasquale, ogni sofferenza. Per questo, i servi fedeli nel poco che ancora è questa vita - le occasioni piccole di ogni giorno che abbiamo visto a proposito della parabola delle dieci vergini - consegnano al Signore i talenti esattamente raddoppiati: a ciascun Talento corrisponde un evento redento, un uomo salvato. E' tutto opera sua, nessuna esigenza, nessun moralismo anzi! Si tratta al contrario dipartecipare della gioia di Dio, che è sempre quella di aver ritrovato la pecora perduta, di un peccatore convertito. La gioia di Cristo che esplode la sera di Pasqua nel rivedere i suoi discepoli: il suo talento aveva dato il frutto meraviglioso della salvezza di quel manipolo di traditori. La gioia del perdono! Per questo la missione della Chiesa, quella che ci coinvolge tutti ogni giorno, è un'avventura affascinante. Trafficare il talento nel fidanzamento, osando l'impossibile della castità pre-matrimoniale come un dono che si compie per il potere di Cristo risorto; trafficarlo nel lavoro, osandoservire come l'ultimo degli impiegati; trafficarlo nella scuola, osando la dabbenaggine di sedersi e studiare davvero; e così in ogni aspetto della nostra vita, sino ai più piccoli. Osare con Dio perchè Lui ha osato con noi, ci ha dato fiducia nonostante la brutta esperienza dell'Eden; perchè ci ha consegnato se stesso, e con Lui tutto si può, anche l'impossibile. E quando si varca la frontiera dell'assurdo, si entra nella sala più intima, quella riservata ai familiari del re. Vivere trafficando il talento per oltrepassare ogni giorno la soglia dell'impossibile, oltre la quale c'è la gioia vera, la partecipazione completa e senza limiti di tutti i beni di Dio. Altro che trappole, limiti, durezze ed esigenze. Altro che sospetti! Con Dio è tutto un dono, e i tagli che ci feriscono sono i varchi che Lui si apre per consegnarsi a noi. Attraverso la Croce il Talento ci appartiene come noi apparteniamo a Lui. Sì, anche noi siamo i talenti di Dio! La nostra vita è frutto del talento ricevuto dai nostri genitori e dalla Chiesa. Accogliere e trafficare il Talento che è Cristo stesso significa lasciare che tutta la nostra vita divenga sua, pensieri e azioni, ogni istante, nulla escluso. Trafficare il talento è vivere in Cristo, e allora tutto è toccato e colmato da Lui; anche il fisico, anche le cose più banali, tutto diviene bello nella sua bellezza. Come invidiare allora chi ha lo stesso identico talento? Impossibile! Anzi, nella missione sorge l'innocenza e la comunione. Per questo, con il Beato Giovanni Paolo II, il Signore oggi ci ripete: "Non abbiate paura!".Spalancate le porte a Cristo, al suo amore, al Talento che fa della vostra vita un'opera d'arte, una meraviglia ai vostri stessi occhi, qualcosa di grande, autentico, santo, in ogni istante, ovunque, con tutti!".
"Non abbiate paura, aprite anzi spalancate le porte a Cristo! Il Papa parlava ai forti, ai potenti del mondo, i quali avevano paura che Cristo potesse portar via qualcosa del loro potere, se lo avessero lasciato entrare e concesso la liberta' alla fede. Si', egli avrebbe certamente portato via loro qualcosa: il dominio della corruzione, dello stravolgimento del diritto, dell'arbitrio. Ma non avrebbe portato via nulla di cio' che appartiene alla liberta' dell'uomo, alla sua dignita', all'edificazione di una societa' giusta. Il Papa parlava inoltre a tutti gli uomini, soprattutto ai giovani. Non abbiamo forse tutti in qualche modo paura - se lasciamo entrare Cristo totalmente dentro di noi, se ci apriamo totalmente a lui, paura che Egli possa portar via qualcosa della nostra vita? Non abbiamo forse paura di rinunciare a qualcosa di grande, di unico, che rende la vita cosi' bella? Non rischiamo di trovarci poi nell'angustia e privati della liberta'? Ed ancora una volta il Papa voleva dire: no! chi fa entrare Cristo, non perde nulla, nulla - assolutamente nulla di cio' che rende la vita libera, bella e grande. No! solo in quest'amicizia si spalancano le porte della vita. Solo in quest'amicizia si dischiudono realmente le grandi potenzialita' della condizione umana. Solo in quest'amicizia noi sperimentiamo cio' che e' bello e cio' che libera. Cosi', oggi, io vorrei, con grande forza e grande convinzione, a partire dall'esperienza di una lunga vita personale, dire a voi, cari giovani: non abbiate paura di Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a lui, riceve il centuplo. Si', aprite, spalancate le porte a Cristo, e troverete la vera vita. Amen".
Benedetto XVI, Omelia per la messa di inizio pontificato, 24 aprile 2005
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Omelia a cura della Congregazione per il Clero
La nota parabola dei talenti ci introduce, con ancor più evidenza, nell’ultima parte dell’Anno liturgico, dopo aver fatto un esame di coscienza come pastori (XXXI domenica) e aver richiamato la necessità di vegliare come le Vergini sagge (XXXII domenica).
La parabola descrive direttamente quello che sarà l'ultimo giorno della storia, nel quale ogni uomo sarà chiamato a "rendere conto" a Dio dei talenti ricevuti, dei doni a noi consegnati e del modo nel quale sono stati fatti "fruttare", cioè del modo in cui la libertà, interagendo necessariamente con la grazia, nel tempo ha corrisposto e corrisponde ai doni.
La prima "buona notizia" è che tutti i protagonisti della parabola hanno ricevuto dei doni. In quantità e modi differenti, ma sempre straordinariamente generosi: un talento, infatti, era una cifra molto grande nelle monete antiche, corrispondente a circa seimila denari, cioè la paga di seimila giorni di lavoro, oltre 16 anni.
Nessun uomo, quindi, è escluso dalla predilezione del Padre, che dona a ciascuno i doni necessari per essere "protagonista" del grande disegno di amore e di salvezza a cui si è chiamati e, nel contempo, per crescere nella responsabilità di se stessi di fronte a Dio. Il Padre colma l'uomo di doni, perché desidera che ciascuno si senta profondamente amato e prediletto, voluto per se stesso ed unico nel grande disegno della storia.
Il dono è, per sua natura, qualcosa che non ci si dà da se stessi, qualcosa che viene da "altro" e che si è chiamati a riconoscere.
In tal senso, l'autentico peccato del terzo servo, non è appena il non aver fatto fruttare il talento, ma, molto più profondamente, il non aver riconosciuto il significato del "dono"; esso, infatti, dice della gratuita della predilezione della quale è stato fatto oggetto, della volontà di "relazione" che il Signore ha nei confronti di ciascuno e della sua sconfinata fiducia nei confronti degli uomini.
Il vero peccato, che induce a "togliere il talento", dandolo a chi ne ha dieci (elemento apparentemente irragionevole, se non adeguatamente compreso), è il rifiuto della relazione con il Signore; relazione che sempre, dopo l'Incarnazione dl Verbo, passa attraverso la storia concreta di ciascuno, luogo "epifanico" della presenza di Dio nella vita.
Siamo permanentemente chiamati, come cristiani e come pastori, ad accogliere i talenti del Signore, a riconoscere cioè i doni grandissimi che Egli ci ha fatti: a partire dalla vita, per arrivare alla fede, passando per tutti quei tratti caratteristici di quel livello di natura che chiamiamo uomo: l'intelligenza, la libertà, la volontà, la capacita di amare etc.
Accogliere i Suoi doni significa entrare in relazione grata con Lui e, pertanto, concepire l'intera propria esistenza al Suo cospetto. Significa vivere un'autentica passio gloria Christi, passione per la Gloria di Cristo, disponibili ad ogni fatica perché la Sua bellezza sia conosciuta, stimata, amata e seguita da tutti gli uomini.
Ci sostenga la "piena di grazia", Colei che da Dio è colmata di doni, la Beata Vergine Maria, perché possiamo sempre vivere in comunione con il Signore, nella lieta responsabilità per ciò che Egli ci ha donato, quindi per ciò che siamo, implorando, un giorno, di poterglielo mostrare "moltiplicato".
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La parabola dei talenti, di p. Raniero Cantalamessa ofmcap.
Il vangelo di questa domenica è la parabola dei talenti. Purtroppo in passato il significato di questa parabola è stato abitualmente travisato, o almeno assai ridotto. Sentendo parlare di talenti pensiamo subito alle doti naturali di intelligenza, bellezza, forza, capacità artistiche. La metafora viene usata per parlare di attori, cantanti, comici…L’uso non è del tutto errato, ma è secondario. Gesù non intendeva parlare dell’obbligo di sviluppare le proprie doti naturali, ma di far fruttare i doni spirituali da lui recati. A sviluppare le doti naturali ci spinge già la natura, l’ambizione, la sete di guadagno. A volte, anzi, è necessario tenere a freno questa tendenza a far valere i propri talenti perché essa può diventare facilmente carrierismo, smania di imporsi sugli altri.
I talenti di cui parla Gesù sono la parola di Dio, la fede, in una parola il regno da lui annunciato. In questo senso la parabola dei talenti si affianca a quella del seminatore. Alla diversa sorte del seme da lui gettato – in alcuni esso produce il sessanta per cento, in altri invece rimane sepolto sotto le spine, o mangiato dagli uccelli del cielo -, corrisponde qui il diverso guadagno realizzato con i talenti.
Talenti sono per noi cristiani di oggi la fede e i sacramenti che abbiamo ricevuti. La parabola ci costringe dunque a un esame di coscienza: che uso stiamo facendo di questi talenti? Somigliamo al servo che li fa fruttare o a quello che mette il talento sottoterra? Per molti il proprio battesimo è davvero un talento sotterrato. Io lo paragono a un pacco-dono che uno ha ricevuto a Natale e che è stato dimenticato in un cantuccio, senza essere stato mai scartato e aperto.
I frutti dei talenti naturali finiscono con noi o al massimo passano agli eredi; i frutti dei talenti spirituali ci seguono nella vita eterna e un giorno ci varranno l’approvazione del Giudice divino: “Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto: prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
Il nostro dovere umano e cristiano non è solo di sviluppare i nostri talenti naturali e spirituali, ma anche di aiutare gli altri a sviluppare i loro. Nel mondo moderno esiste una professione che si chiama, con termine inglese “talent-scout”, cioè scopritori di talenti. Sono persone che sanno individuare dei talenti nascosti – di pittore, di cantante, di attore, di calciatore – e li aiutano a coltivare il loro talento e trovare chi li sponsorizza. Non lo fanno naturalmente gratis o per amore dell’arte, ma per avere una percentuale dei loro guadagni, una volta che si sono affermati.
Il vangelo ci invita a essere tutti dei talent-scout, degli scopritori di talenti, non però per amore del guadagno ma per aiutare chi non ha la possibilità di affermarsi da solo. L’umanità deve alcuni dei suoi geni o artisti migliori all’altruismo di una persona amica che ha creduto in essi e li ha incoraggiati, quando nessuno credeva in loro. Un caso esemplare che mi viene alla mente è quello di Theo Van Gogh che sostenne tutta la vita, economicamente e moralmente, il fratello Vincent, quando nessuno credeva in lui ed egli non riusciva a vendere nessuno dei suoi quadri. Tra di loro si scambiarono più di seicento lettere che sono un documento di altissima umanità e spiritualità. Senza di lui non avremmo oggi quei quadri che tutti amiamo e ammiriamo [qualche quadro di Van Gogh]
La prima lettura di domani ci invita a soffermarci su un talento in particolare che è al tempo stesso naturale e spirituale: il talento della femminilità, il talento di essere donna. Contiene infatti il noto elogio della donna che inizia con le parole: “Una donna perfetta chi potrà trovarla?”.Questo elogio, così bello, ha un difetto, che non dipende ovviamente dalla Bibbia ma dall’epoca in cui fu scritto e dalla cultura che essa riflette. Se ci si fa caso, si scopre che esso è interamente in funzione dell’uomo. La sua conclusione è: beato l’uomo che possiede una tale donna. Essa gli tesse bei vestiti, fa onore alla sua casa, gli permette di camminare a testa alta tra gli amici. Non credo che le donne sarebbero oggi entusiaste di questo elogio.
Lasciando da parte questo limite, vorrei sottolineare l’attualità di questo elogio della donna. Da ogni parte emerge l’esigenza di fare più spazio alla donna, di valorizzare il genio femminile. Noi non crediamo che “l’eterno femminino ci salverà”. L’esperienza quotidiana dimostra che la donna può “sollevarci in alto”, ma può anche farci precipitare in basso. Anch’essa ha bisogno di essere salvata da Cristo. Ma è certo che, una volta redenta da lui e “liberata”, sul piano umano, da antiche soggezioni, essa può contribuire a salvare la nostra società da alcuni mali inveterati che la minacciano: violenza, volontà di potenza, aridità spirituale, disprezzo della vita…
Dopo tante ere che hanno preso il nome dall’uomo – l’era dell’ homo erectus, homo faber, fino all’homo sapiens, di oggi -, c’è da augurarsi che si apra finalmente, per l’umanità, un’era della donna: un’era del cuore, della tenerezza, della compassione. È stato il culto della Vergine a ispirare, in secoli passati, il rispetto della donna e la sua idealizzazione in tanta parte della letteratura e dell’arte. Anche la donna di oggi può guardare a lei come a modello, amica e alleata nel difendere la propria dignità e il talento di essere donna.
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Omelia di Luciano Manicardi
Il legame tra prima lettura e vangelo emerge se si considera che il testo di Proverbi non descrive solamente il tipo di donna che il sapiente, al termine del percorso di formazione e studio, delinea per i suoi allievi come moglie ideale, ma se si coglie quella figura femminile nella sua valenza simbolica per cui designa a un tempo la sapienza e il sapiente, ovvero, il dono e ilfrutto che tale dono suscita nell’uomo. Al cuore del ritratto della donna forte vi è la responsabilità. Responsabilità che si configura, tra l’altro, comeaffidabilità (cf. Pr 31,11), laboriosità (cf. 31,13.19),vigilanza (cf. 31,27),generosità (cf. 31,20). E responsabilità è anche parola chiave per cogliere la differenza di comportamento tra i due tipi di servi nella parabola evangelica: il “servo buono e fedele” (Mt 25,21.23) e il “servo malvagio e pigro” (Mt 25,26). La responsabilità cristiana è coscienza del dono ricevuto efedeltà a esso. Anzi, più radicalmente, fedeltà al Donatore.
Secondo Ireneo di Lione, il denaro affidato dal padrone ai suoi servi significa il dono dellavitaaccordato da Dio agli uomini. Dono che è anche compito e che chiede di non essere sprecato o ignorato o disprezzato, ma accolto con gratitudine attiva e responsabile. Paolo scrive: “Che cosa hai che non hai ricevuto?” (1Cor 4,7). Potremmo aggiungere che non solo ciò che abbiamo, ma anche ciò che siamo è dono di Dio. Noi siamo dono.
In questa luce vi è un aspetto del giudizio che incombe su chi non ha fatto fruttare i talenti ricevuti che non ha a che fare anzitutto con la prospettiva escatologica (cf. Mt 25,30), ma già qui e ora con il rischio di sprecare la vita, di non viverla, di sciuparla “fino a farne una stucchevole estranea” (Constantinos Kavafis). Il rischio è quello di una vita insignificante, di una vita non vissuta.
L’idea essenziale che unifica i tre casi di servi che ricevono talenti in misura diversa è che in ogni caso, per ciascuno, all’origine vi è un dono che proviene da un altro, e che ciascuno riceve secondo la propria capacità. Si tratta dunque di un dono “personalizzato”.Il dono affidatomi mi rivela a me stesso. Entrare nella logica del paragone e magari nella recriminazione, distoglie l’uomo dall’unica attività veramente sensata: conoscere se stesso e conoscere Dio, il Donatore, riconoscendo e accogliendo i doni ricevuti.
È una finezza psicologica la sottolineatura che è il servo che ha nascosto il denaro per paura è quello che ha ricevuto meno degli altri. Questi fatica ad accettare la propria minore forza-capacità rispetto ad altri è maggiormente esposto al rischio di cadere nell’invidia e nel risentimento. L’adesione alprincipio-realtà, ovvero, l’accettazione della realtà così come si presenta, in noi e fuori di noi, è allora misura salvifica umanamente e spiritualmente.
Investire il denaro ricevuto significa esporsi al rischio di perdite che dovrebbero poi essere rimborsate al padrone: la paura del servo, che lo ha paralizzato, è anche paura del rischio. Ed essendo evidente che questa parabola non vuole insegnare l’uso del denaro e non può essere usata per un’apologia di un sistema economico che assolutizzi il profitto, ecco che la paura di eventuali perdite va intesa come paura della vita che nasce da un’immagine di Dio distorta. Il desiderio di sicurezza, la paura di spendersi, il timore del giudizio altrui, hanno neutralizzato in quest’uomo la volontà di Dio che era che egli cercasse un guadagno (cf. Mt 25,27) con il denaro ricevuto: e quel cercare un guadagno avrebbe significato anche un suo vivere, lavorare, rischiare, gioire e soffrire, insomma, un suo dare senso all’esistenza.
Dio vuole che l’uomo viva e cerchi la felicità, che osi la propria unicità e la propria umanità, che non si lasci paralizzare da paure e da immagini di Dio distorte. Ildono impegnativo che Dio affida all’uomo è anche la sua fiducia nei confronti dell’uomo.
Contrario di fedeltà (cf. Mt 25,21.23) nella parabola, è pigrizia (cf. Mt 25,26). Il pigro è colui su cui non si può fare affidamento, colui che delega, che spreca il proprio tempo, l’irresponsabile, colui che non assume la vita e la fede come compito di cui rispondere a Dio.
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Omelia di Enzo Bianchi
La parabola di domenica scorsa si concludeva con il monito di Gesù: «Vegliate, perché non sapete né il giorno né l’ora» (Mt 25,13) in cui il Figlio dell’uomo verrà nella gloria (cf. Mt 25,31). Macome vegliare?Come tradurre in un comportamento concreto e quotidiano il desiderio dell’incontro definitivo con il Signore? Gesù ce lo insegna mediante la parabola odierna: un racconto che – diciamolo subito a scanso di equivoci – non va assolutamente interpretato come una lezione sull’uso del denaro o un elogio dell’abilità nel trarre profitti…
Un uomo, partendo per un viaggio, consegna il proprio denaro ad alcuni servi affinché durante la sua assenza lo custodiscano e lo facciano fruttare: «a uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì». Egli è figura di Dio il quale, attraverso suo Figlio Gesù Cristo, mette fiducia nell’uomo e trova gioia nell’offrire gratuitamente a ciascuno di noi i suoi doni (cf. Mt 10,8); e fa questo in modo personalizzato, tenendo conto di ciò che noi siamo in grado di accogliere. Il punto consiste precisamente nel riconoscere e accogliere con gratitudine i doni personali ricevuti da Dio, senza fare paragoni con quelli altrui, ma impegnandosi a rispondere di essi con tutta la propria vita: nessun altro può farlo per me!
I primi due servi impiegano i talenti ricevuti – non viene detto come – e ne guadagnano altrettanti; il terzo invece scava una buca nel terreno e vi nasconde il suo unico talento, o meglio quello che egli ancora considera come «denaro del suo padrone». «Dopo molto tempo», ennesima allusione al ritardo della parusia (cf. Mt 24,48; 25,5), ecco che il padrone ritorna e chiama separatamente i servi per chiedere loro conto dell’uso dei talenti. Saputo del frutto ottenuto dai primi due, li loda nello stesso modo: «Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; entra nella gioia del tuo signore». Parole brevi ma estremamente significative, soprattutto alla luce della ricompensa promessa: entrare nella gioia del Signore significa infattiprendere parte alla festa escatologica, al banchetto del Regno (cf. Mt 8,11). A confronto di questa pienezza di comunione ogni nostra azione si riduce a poca cosa; eppure senza questo «poco» non potremmo conoscere il «molto» a cui Dio ci chiama…
L’attenzione di Matteo si concentra però sul dialogo che intercorre tra il padrone e il terzo servo. Quest’ultimo comincia con il giustificarsi: «Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso». Ma perché duro? Se mai egli è abile, efficace nel lavoro. Il problema è che questo servo si è costruito un’immagine perversa del suo signore, come anche noi facciamo spesso con Dio. E sono le sue stesse parole a giudicarlo (cf. Lc 19,22), a rivelare ciò che abita il suo cuore (cf. Mt 12,34): «perpaura andai a sotterrare il tuo talento; ecco, hai il tuo». Paura di Dio – una storia che incomincia con Adamo (cf. Gen 3,10)! –; paura di esporsi al rischio di mettere a frutto ciò che si è ricevuto; paura di accogliere il dono come tale, come qualcosa che abbatte la logica del mio/tuo: tutto questo, non la durezza del padrone, ha paralizzato il servo, lo ha reso «cattivo e pigro». Vengono in mente le domande del padrone descritto in un’altra parabola, il quale ribatte a un servo che lo contesta: «Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure il tuo occhio è cattivo perché io sono buono?» (Mt 20,15).
Infine, dopo aver ripreso le parole usate dal servo nei suoi confronti, il signore gli rivela qual era il suo vero desiderio: che l’altro si desse da fare, che impiegasse fattivamente il talento ricevuto e, così facendo, guadagnasse, salvasse la sua vita (cf. Lc 21,19). Sì, chi non impiega i propri doni finisce inevitabilmente per perderli e per sprecare la vita; questo è il senso del commento di Gesù:«A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha». È invece vigilante chi, con gratitudine, cerca di fare il miglior uso possibile del «poco» di cui dispone; e quale sia tale uso ce lo chiarirà Gesù stesso nella pagina del giudizio finale (cf. Mt 25,31-46).
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Benedetto XVI: "Ciò che Cristo ci ha donato si moltiplica donandolo! E’ un tesoro fatto per essere speso, investito, condiviso con tutti..."
Cari fratelli e sorelle!
La Parola di Dio di questa domenica – la penultima dell’anno liturgico – ci invita ad essere vigilanti e operosi, nell’attesa del ritorno del Signore Gesù alla fine dei tempi. La pagina evangelica narra la celebre parabola dei talenti, riportata da san Matteo (25,14-30).
Il "talento" era un’antica moneta romana, di grande valore, e proprio a causa della popolarità di questa parabola è diventata sinonimo di dote personale, che ciascuno è chiamato a far fruttificare. In realtà, il testo parla di "un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni" (Mt 25,14).
L’uomo della parabola rappresenta Cristo stesso, i servi sono i discepoli e i talenti sono i doni che Gesù affida loro. Perciò tali doni, oltre alle qualità naturali, rappresentano le ricchezze che il Signore Gesù ci ha lasciato in eredità, perché le facciamo fruttificare: la sua Parola, depositata nel santo Vangelo; il Battesimo, che ci rinnova nello Spirito Santo; la preghiera – il "Padre nostro" – che eleviamo a Dio come figli uniti nel Figlio; il suo perdono, che ha comandato di portare a tutti; il sacramento del suo Corpo immolato e del suo Sangue versato. In una parola: il Regno di Dio, che è Lui stesso, presente e vivo in mezzo a noi.
Questo è il tesoro che Gesù ha affidato ai suoi amici, al termine della sua breve esistenza terrena. La parabola odierna insiste sull’atteggiamento interiore con cui accogliere e valorizzare questo dono.
L’atteggiamento sbagliato è quello della paura: il servo che ha paura del suo padrone e ne teme il ritorno, nasconde la moneta sotto terra ed essa non produce alcun frutto. Questo accade, per esempio, a chi avendo ricevuto il Battesimo, la Comunione, la Cresima seppellisce poi tali doni sotto una coltre di pregiudizi, sotto una falsa immagine di Dio che paralizza la fede e le opere, così da tradire le attese del Signore. Ma la parabola mette in maggior risalto i buoni frutti portati dai discepoli che, felici per il dono ricevuto, non l’hanno tenuto nascosto con timore e gelosia, ma l’hanno fatto fruttificare, condividendolo, partecipandolo.
Sì, ciò che Cristo ci ha donato si moltiplica donandolo! E’ un tesoro fatto per essere speso, investito, condiviso con tutti, come ci insegna quel grande amministratore dei talenti di Gesù che è l’apostolo Paolo.
L’insegnamento evangelico, che oggi la liturgia ci offre, ha inciso anche sul piano storico-sociale, promuovendo nelle popolazioni cristiane una mentalità attiva e intraprendente. Ma il messaggio centrale riguarda lo spirito di responsabilità con cui accogliere il Regno di Dio: responsabilità verso Dio e verso l’umanità. Incarna perfettamente quest’atteggiamento del cuore la Vergine Maria che, ricevendo il più prezioso tra i doni, Gesù stesso, lo ha offerto al mondo con immenso amore. A Lei chiediamo di aiutarci ad essere "servi buoni e fedeli", perché possiamo prendere parte un giorno "alla gioia del nostro Signore".
Sull'invidia. Di Marco Belpoliti
Perché lui sì e io no? Questa è la domanda principale, forse la sola, che gli invidiosi si pongono. Secondo il filosofo Slavoj Žižek l'invidia è qualcosa di più, o di meno, del desiderio di possedere quello che ha l'altro - ricchezza, amore, potere -; è un «negativo»: impedire all'altro quel possesso. Il filosofo sloveno racconta una storiella emblematica. Una strega dice a un contadino: «Farò a te quello che vuoi, ma ti avverto, farò due volte la stessa cosa al tuo vicino!». E il contadino con un sorriso furbo le risponde: «Prendimi un occhio!». Žižek, sulla scorta di Lacan, sostiene che il vero opposto dell'amore di sé egoistico non è l'altruismo, la preoccupazione per il bene comune, bensì l'invidia - o il risentimento, suo fratello gemello - «che mi fa agire contro i miei interessi». Sant'Agostino in un passo famoso delle Confessioni racconta di un bambino invidioso del proprio fratello che succhia dal seno materno: «non parlava ancora e già guardava livido, torvo, il suo compagno di latte». Secondo la teoria lacaniana ciò che muove gli uomini è il desiderio dell'Altro: il bambino che invidia il fratello non invidia il fatto che l'Altro possieda l'oggetto desiderato - il seno materno -, bensì il modo in cui l'Altro può godere di questo oggetto; per cui non gli è sufficiente ottenerne il possesso, deve invece distruggere la capacità del suo compagno di godere dell'oggetto stesso. Secondo Žižek, che scrive dell'invidia in un breve saggio, questo sentimento perverso va collocato nella triade composta da invidia, avarizia e melanconia, tre forme del non essere in grado di godere dell'oggetto, e al tempo stesso di godere di riflesso di questa stessa impossibilità.
L'invidia è oggi considerata un peccato sociale, più grave della gelosia stimata invece un peccato veniale, una sorta di sgradevole accompagnamento della passione. Lo psicoanalista Leslie H. Faber sostiene che se l'invidia è un sentimento a due attori, la gelosia è a tre: io, lei e lui. Faber considera la gelosia più devastante sul piano dei rapporti personali perché riunisce in modo ossessivo sulla scena parti sempre più vaste della realtà spingendo il dramma verso una sicura rovina come raccontano innumerevoli romanzi e film. In realtà, l'invidia è molto più temibile della gelosia. Hannah Arendt in un passo di un suo straordinario scritto degli anni Sessanta, Alcune questioni di filosofia morale, parla della malvagità umana e degli scrittori che ci hanno lasciato alcuni ritratti di grandi malvagi. Questi grandi della letteratura (Shakespeare e Melville) non ci dicono molto sulla natura del male, tuttavia ci fanno capire come nella profondità dei personaggi più malvagi delle loro pagine - Iago di Otello e Claggart di Billy Budd - «troviamo sempre la disperazione associata alla sua inseparabile compagna: l'invidia». Che il male radicale provenga dalla disperazione, prosegue la Arendt, lo aveva già detto Kierkegaard, ma è proprio l'invidia a farci riflettere. Intorno al grande malfattore circola sempre un'aura di nobiltà, tuttavia Iago e Claggart, scrive la Arendt, commettono il male per invidia nei confronti di coloro che sono meglio di loro.
Nelle pagine più convincenti del suo libretto sull'invidia Joseph Epstein analizza non a caso il racconto di Melville che vede per protagonista il giovane marinaio Billy Budd, uno dei personaggi più memorabili dell'intera letteratura mondiale. L'invidia, sostenevano i Padri della Chiesa, è connessa alla maldicenza e all'avidità, e discende dalla superbia che è il primo dei sette peccati capitali. Invidia da «in-videre», guardare male, di malocchio: l'invidioso è uno che non vede bene. Nella dottrina cristiana, ci ricordano due studiose del medioevo, Carla Casagrande e Silvia Vecchio, l'invidioso sperimenta il peccato senza piacere: il suo è un tarlo interiore che lo rode, una ruggine interna, una putrefazione del pensiero. Prima di Lacan i Padri avevano capito che l'invidia produce un rovesciamento: provare dolore per il piacere degli altri. San Tommaso scrive che l'invidioso vede nel bene degli altri un male per se stesso, mentre già Aristotele ribadiva che non si invidiano i lontani, bensì i vicini: l'invidia come sentimento che serpeggia nella famiglia, tra gli amici, nelle comunità ristrette.
Gli psicoanalisti di indirizzo freudiano - Freud mette in scena l'invidioso per eccellenza, Edipo, e parla di «invidia del pene» da parte delle donne - sostengono che l'invidia non è generata dal bene dell'altro in generale, ma solo da quel bene che si pensa che possa ledere l'eccellenza dell'invidioso, confermando così l'intuizione della Arendt riguardo alla disperazione: il senso di essere perduti spinge verso la malvagità, e l'invidia è vista come una possibile strada d'uscita, un modo per ristabilire in modo aggressivo il proprio Io diminuito e offeso. Per questo è la mediocrità a produrre più facilmente la malvagità, smentendo l'idea luciferina e seduttiva del Male: Eichmann è per la Arendt l'esempio del malvagio sostanzialmente mediocre. Gli psicoanalisti del Novecento - ad esempio Melanine Klein, autrice del classico Invidia e gratitudine - hanno delineato uno scenario ben più infernale di quello descritto dai Padri della Chiesa. Klein lega il sentimento dell'invidia alla pulsione di morte, a una forza distruttiva innata. L'invidia nascerebbe dal rapporto tra il neonato e la madre, al contatto con il seno materno, dispensatore di nutrimento e di piacere; in questa situazione il bambino proverebbe insieme senso di gratificazione e invidia. Dante, al contrario, non giudicava così tragicamente l'invidia, per quanto sia un peccato da condannare che colloca al Purgatorio. Il padre della nostra lingua descrive gli invidiosi come uomini che avanzano sorreggendosi gli uni agli altri per via delle palpebre cucite con filo di ferro. L'invidioso non riesce a vedere, affermano alcuni psicoanalisti in un libro curato da Enzo Funari, e perciò perde la capacità di amare.
Lo scrittore John Berger in un libro dedicato al guardare (Questioni di sguardi, il Saggiatore) scrive che nel mondo moderno la pubblicità funziona attraverso l'invidia: essere invidiati dagli altri. Di più: rende le persone invidiose di se stesse, di ciò che potranno essere attraverso l'acquisto di quel medesimo prodotto, una forma di reificazione di sé. La pubblicità non parla infatti di oggetti, bensì di relazioni sociali, non offre piacere, ma felicità misurata dall'esterno, sul metro di giudizio degli altri: «La felicità di essere invidiati è glamour». Nessuna parola come glamour rende così bene la condizione contemporanea. Il motore della pubblicità e della moda è la fascinazione prodotta dall'invidia, una invidia più tenue, ma pur sempre invidia. In questo modo questo disdicevole sentimento è diventato così uno dei motori del processo di cambiamento sociale? Grazie all'invidia ci trasformano sempre più in oggetti di noi stessi? Stando al crescente successo di Second life l'invidia avrebbe trovato un modo per succedere a se stessa trasformandoci anche sentimentalmente nell'avatar di noi stessi.