mercoledì 30 novembre 2011

ETTY HILLESUM 1

Oggi 30 novembre ricordiamo:

ETTY HILLESUM

(1914-1943)

martire ebrea

Il 30 novembre del 1943 muore ad Auschwitz, dov'era internata da poco più di due mesi, Etty Hillesum, giovane ebrea olandese di origine russa. Esther (Etty) Hillesum era nata nel 1914 a Middelburbg nei Paesi Bassi, ed era figlia di un professore di liceo e di una donna scampata di poco ai pogrom russi. Giovane di grande temperamento, molto dotata per gli studi, Etty fu soprattutto una persona capace di custodire un intenso vissuto interiore, che le permetterà di dare un senso agli eventi tragici della vita, fino a ritrovare un dialogo con Dio negli abissi della disperazione e del non senso costituiti dall'esperienza della Shoah. Compiuti gli studi di diritto e di psicologia ad Amsterdam, Etty Hillesum vide infatti profilarsi nel 1940 il destino dell'intera comunità ebraica olandese, quando le truppe naziste occuparono il suo paese. Accompagnata dall'amicizia e dal confronto con l'analista tedesco Julius Spier, Etty iniziò a scrivere l'8 marzo del 1941 un diario nel quale traccerà il proprio itinerario spirituale fino alla morte nei campi di sterminio. Tutti conoscono, anche se alcuni vorrebbero dimenticarlo, il numero di ebrei sterminati nella Shoah: 6 milioni. Gli scritti postumi della giovane ebrea olandese possono essere un aiuto significativo per ricordare, attraverso la voce di un testimone oculare, la disperata ricerca di significato in eventi la cui portata richiede, da parte di chi non vi ha preso parte, unicamente una memoria attenta e silenziosa.

TRACCE DI LETTURA

Non mi faccio molte illusioni su come stiano le cose veramente e rinuncio persino alla pretesa di aiutare gli altri; partirò sempre dal principio di «aiutare Dio» il più possibile e se questo mi riuscirà, bene, allora vuol dire che saprò esserci anche per gli altri. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali, ma anch'esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all'ultimo la tua casa in noi. Mio Dio, cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutare noi stessi. L'unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l'unica cosa che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini.

Etty Hillesum, dal Diario

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APPROFONDIMENTI




Fratel MichaelDavide (1)
Etty Hillesum: Dio matura.
Un viaggio in quaranta tappe
Edizioni La Meridiana, Molfetta (Bari) 2005



La vita di Etty Hillesum si può racchiudere in uno stupendo verso di Rilke: "anche se non vogliamo Dio matura" . Una vita assai breve, caduta come seme nel solco della storia il 30 novembre 1943, nel campo di concentramento di Auschwitz. Per lunghi anni questo seme è rimasto ben custodito, praticamente sconosciuto fino a quando - nel 1981- il suo fittissimo Diario ed alcune Lettere sono stati raccolti, pubblicati e tradotti in varie lingue.
Per la forza e l'audacia con cui ha vissuto il suo tempo, Etty è così divenuta inconsapevolmente maestra. Queste pagine, scandite su quaranta tappe, le stesse di un insolito ma coinvolgente cammino quaresimale, conducono alla scoperta del suo amore maturo, adulto che avverte la pienezza donandosi al mondo, nonostante l'urto traumatico con la violenza estrema. Difficile trovare, nella nostra esperienza contemporanea, una introspezione così profonda nel mistero della vita da lei avvertito come enigma: "Siamo noi stessi a derubarci da soli. Trovo bella la vita, e mi sento libera. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile ma non è grave".

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Proviamo…!?

Cosa poter offrire come spunto di riflessione, quale viatico per questo tempo prezioso che, ancora una volta, la Chiesa ci offre per crescere, per progredire, per desiderare di camminare ancora un poco verso il nostro Dio? Di certo la Scrittura, che normalmente ci accompagna giorno dopo giorno, nella sua inesauribilità potrebbe fornirci pane a sufficienza, potrebbe indubbiamente scaldare soavemente le nostre notti e dolcemente curare come balsamo le piaghe dei nostri piedi sull’erta del non sempre facile cammino. Stringiamoci a Davide che «saliva l'erta degli Ulivi; saliva piangendo e camminava con il capo coperto e a piedi scalzi; tutta la gente che era con lui aveva il capo coperto e, salendo, piangeva» (2Sam 15, 30).

Vorrei offrire, nel filo dorato dei giorni di questo Tempo purpureo, un po’ della luce e del calore che hanno reso il pane di questi ultimi tempi della mia vita un viatico capace di sostenermi e di riportarmi dalla sopravvivenza alla vita. Vorrei condividere con i miei fratelli e sorelle che, come me e con me, portano avanti il loro combattimento spirituale la forza dell’exemplum di una donna che sessant’anni fa come pane a lungo, segretamente e faticosamente lievitato fu cotto in uno dei forni crematori di Auschwitz, era il 30 novembre 1943…!

Non si tratta di una santa - la sua storia infatti e le sue storie non potrebbero essere innalzate come ornamento di nessuno dei nostri altari - ma solo esservi deposta sobriamente in attesa di una trasformazione da cui tutti e sempre speriamo e suggiamo la nostra santificazione. Si tratta di una donna la cui vita, per un misterioso imprevedibile gioco di perle, è stata capace di fare dei frammenti della sua esistenza una splendida collana che ora adorna la storia dell’Umanità conferendole uno splendore insperato, inatteso, impossibile eppure capace di scaldare e di profumare la terra del nostro cuore ancora dopo tanti anni… non avviene forse lo stesso attorno alle reliquie dei santi che giacciono, invece, sotto i nostri altari e a fondamento delle nostre Chiese?

Etty Hillesum – questo è il suo nome – non ci ha lasciato molto! Solo un fitto Diario e una manciata di lettere in cui questa donna, tremendamente alla ricerca di se stessa in una verità talora incomprensibile oltreché incommensurabile, non ci rivela la Storia della sua Anima ma si lascia percepire come l’Anima di una storia… la sua e quella del suo tempo. Questa donna ha saputo essere luce nella tenebra più fitta sapendo scrivere un verso di incantevole poesia in una delle pagine più prosaiche – la più disumana – della Storia dell’umanità.

Una Quaresima con Etty potrebbe essere per noi un modo per dare un colpo d’ali al cammino di conversione in una direzione forse minima, persino modesta ma non meno attraente e necessaria: raffinare la nostra umanità affinando la nostra anima. Un invito in questi giorni si farà pressante e urgente: «Tu ritorna al tuo Dio» (Os 12, 7)!

Come tornare al nostro Dio senza tornare – senza fare con-versione – verso il luogo in cui Egli abita, la nostra anima, la nostra interiorità? Ma noi sappiamo quanto è difficile questo con-vergere verso il centro di noi stessi… ne siamo sempre un po’ spaventati! Eppure è là che siamo attesi dall’appuntamento più importante ed in-dimenticabile della nostra vita.

Entriamo in questo viaggio con un verso di Rilke: «Come potrei trattenerla in me, la mia anima, che la tua non sfiori; come levarla, oltre te, ad altre cose?». Inoltriamoci in questo viaggio con accanto questa pellegrina sconosciuta che pure ci accompagna e facciamo nostro il desiderio che divenne il fuoco trasformante di tutta la sua vita fino alla morte: «essere buoni l’uno verso l’altro con tutta la bontà di cui siamo capaci». Solo quello di cui siamo capaci… cominciamo da quello di cui siamo capaci.

Non guardare indietro!

Il monito del Deuteronomio - «se il tuo cuore si volge indietro» - (Dt 30, 17) viene chiaramente rafforzato e direzionato dalla parola del Signore Gesù: «Se qualcuno vuol venire dietro a me…» (Lc 9, 22). Noi tutti, come la moglie di Lot (Gn 19, 26), facciamo fatica a guardare avanti soprattutto quando rischiamo di non vedervi tutto un mondo che va in pezzi. Di certo non siamo messi di fronte a quello che Etty insieme alla sua generazione e al suo popolo dovette affrontare eppure forse – proprio come quella generazione – potremmo dire davanti ai grandi cambiamenti del nostro tempo: quanto poveri siamo diventati … quanto siamo rimasti soli (43).

Non è raro che, davanti alle esigenze di dare un senso sempre più compiuto alla nostra esistenza, soprattutto per quanto riguarda la nostra vita di relazione, siamo presi da un sentimento di paura e quasi da un istinto verso la fuga. Proprio in un pomeriggio in cui tutti cercavano di fuggire (44) Etty incontrò in una strada di Amsterdam un suo vecchio e stimato professore a cui pose la domanda per essere aiutata a trovare una via d’uscita: «crede che abbia senso fuggire?». La risposta del feroce Bonger fu: «la gioventù deve rimanere qui». Questo medesimo professore nella medesima sera e precisamente Alle otto, si era sparato alla testa (45).

Davanti a tutto un mondo che andava in pezzi e che alla fine spaccherà inesorabilmente la vita di Etty come si fa con un prezioso vaso di cristallo, questa donna, giovane – aveva 27 anni – bella, corteggiata e a cui tutti cercavano di offrire una via di scampo in Inghilterra, non riusciva a scrivere se non con questo tono: E’ tutto un mondo che va in pezzi. Ma il mondo continuerà ad andare avanti e per ora andrò avanti anch’io. Restiamo certo un po’ impoveriti, - ma io mi sento ancora così ricca che questo vuoto non m’è entrato veramente dentro.

In tutto l’itinerario di Etty, continuamente forgiata dalla lettura della Bibbia, del Corano, di Rilke, di Agostino e di Jung, il segreto è non solo continuare ad andare avanti, non solo e sempre guardare avanti ma soprattutto prendersi cura in modo accuratissimo del dentro. Per non voltarsi indietro e per non fermarsi infatti è necessario prima di tutto difendere questo dentro da tutto ciò che può contaminarlo di paura e poi far sì che la nostra anima sia continuamente purificata e ampliata.

Subito dopo la sensazione di essere sempre più sola e nel bel mezzo della tentazione di fuggire come tutti, Etty non può che scrivere: Debbo occuparmi di me stessa niente da fare! (45). E quando Etty si occupa di se stessa di certo non si sta pre-occupando della sua sopravvivenza bensì dell’approfondimento e dell’ampliamento della sua anima: la vita dentro di me era così limpida e serena, ero in contatto con il mondo esterno come con quello interno, la mia vita si arricchiva, la mia personalità si ampliava (46). Questo occuparsi senza pre-occuparsi è la grande lezione imparata da Etty dal suo indimenticabile amico – Spier – e così ogni sera, con una certa pace di spirito, io depongo le mie molte preoccupazioni terrene ai piedi di Dio stesso. Un certa pace!

Siamo come posti di fronte al mistero di quella «croce» che il Signore Gesù ci chiede di portare «ogni giorno» (Lc 9, 23): si tratta dell’in-crocio continuo tra mondo esterno e quello interno. Si tratta della fatica quotidiana di vivere presenti alla storia ma ad un livello di profondità e di ampiezza che non ci renda vittime di essa ma animatori del suo fluire verso il bello, il buono e il vero. Nei momenti più tragici Etty conclude sempre: Ho una bella vita proprio così (113).

Sembra che ogni volta che siamo assaliti dall’istinto di fuggire a gambe larghe si debba solo acconsentire dolcemente a rimanere per avere tutto il tempo - persino l’agio - per scendere dentro la propria anima e ivi trovare la pienezza di un vuoto che non permetta a nulla e a nessuno di contaminarne la forza e la purezza. Si tratta infatti di vivere pienamente, verso l’esterno e verso l’interno, non sacrificare nulla della realtà esterna a beneficio di quella interna, e viceversa (45). L’unico modo per interpretare correttamente nel senso evangelico la "fuga mundi" sembra essere quello di fuggire la paura per abitare il reale in tutta la sua complessità fino a farsene croci-figgere: infissi ad una croce non si può che guardare avanti…

E se si rivolgesse proprio a me quando dice: considera tutto ciò come un bel compito per te stessa? E se fosse proprio per me l’eredità del Crocifisso: «Donna, ecco tuo figlio!» (Gv 19, 26)?

Spontaneamente

Da tempo ormai nella nostra tradizione e nei nostri comportamenti il digiuno non ha più quasi posto, ci sembra una pratica troppo esteriore e per questo la reputiamo inutile. Eppure il Signore Gesù non solo non la esclude dalla sua vita – la quaresima non è altro che l’imitazione del suo lungo digiuno – ma la pronostica chiaramente per i suoi discepoli, per noi: «Verranno però i giorni quando lo sposo sarà loro tolto e allora digiuneranno» (Mt 9, 15). Forse senza accorgerci ragioniamo come gli stolti a cui fa riferimento Isaia: «Perché digiunare se tu non lo vedi?» (Is 58, 3). Invece non solo Dio vede e sa il nostro digiuno ma soprattutto ama il nostro saper sperimentare la fame.

In realtà c’è bisogno di così poco per vivere! Il nostro corpo ha bisogno di molto meno di quanto si possa immaginare per tenersi in forma e in strettissima collaborazione con lo spirito perché quest’ultimo possa continuare comunque il suo cammino e il suo lavoro (128). Davanti ai tempi che si facevano sempre più difficili Etty non fece altro che adottare l’uso di un piccolo digiuno come preparazione alla prova: dobbiamo abituare il nostro corpo a chiederci solo l’indispensabile, soprattutto nel campo del cibo. L’accesso al digiuno ha per Etty un doppio significato.

Da una parte rappresenta un esercizio di discernimento del reale – perché stiamo andando verso tempi difficili: anzi ci siamo già – e dall’altra una preparazione remota e profonda per essere sempre e sempre più in grado di vivere la storia che ci viene incontro con leggerezza e forza. Etty sa bene che senza esercizio- ascesi-preparazione remota - sarebbe impossibile affrontare ed essere all’altezza della prova al momento in cui verrà e, senza averne tanta coscienza, enuncia un principio ascetico-iniziatico fondamentale: è meglio abituarci a una certa astinenza in periodi di relativa ricchezza, che poi essere costretti in momenti di reale bisogno.

Ma non si limita a questi dati pratici, la riflessione di Etty tocca brevemente ma efficacemente altre due questioni fondamentali: il come e il perché. Nel suo spirito libero – talora quasi libertino – Etty non si assoggetta al digiuno per una motivazione esterna ma per una necessità interiore e non esita a svelarci il segreto di un digiuno che possa produrre un effetto liberante: quello che otteniamo spontaneamente da noi stessi ha basi più solide e durature di quello che realizziamo con forza.

Oggi siamo assai fortunati perché nessuno è obbligato a digiunare veramente in nessun giorno dell’anno e questa rappresenta la possibilità di misurarci con noi stessi e con il nostro desiderio. Il segreto del digiuno – cristologicamente compatibile – sta proprio in questo avverbio spontaneamente. San Benedetto, che taglia radicalmente ogni via alla "spontaneità" dei suoi monaci, usa questo avverbio proprio e solo nel capitolo sulla Quaresima – RB 49 – e quando parla della penitenza quaresimale: «Ciascuno spontaneamente nella gioia dello Spirito Santo, offra a Dio qualcosa di più della misura che gli è imposta» (RB 49, 6).

Il segreto di un digiuno accetto a Dio ha senso nella misura in cui sciolga «catene e legami» (Is 58,6) a cominciare proprio da questa capacità nel viverlo spontaneamente come esercizio della propria libertà. Tutta una serie di morbosità attorno al cibo non è altro che una sorta di comprensibile reazione – soprattutto nei monasteri e dove il cibo manca o non è buono – per una sorta di difesa della propria intimità, del proprio pudore personale su cui bisogna agire esternamente e per forza il meno possibile. Il prendere cibo è sempre una storia intima che rimanda a tante intime realtà, bisogni, desideri, frustrazioni, sogni…!

Solo la libertà – educata ed educante – permette di centrare l’obbiettivo: questa colazione monacale che mi aiuta a raggiungere i miei "appetiti" nei luoghi più nascosti e sradicarli via. Per questo è costume proprio della tradizione monastica guardare sempre diritti nel proprio piatto , nel proprio cuore lasciando all’altro la libertà del suo personale e forse più lento o più veloce cammino. In una domenica mattina, alle otto Etty scrive: Ho accanto la mia colazione: un bicchiere di latticello, due fette imburrate di pane bigio con cocomero e pomodoro (127). Tra le sue lettere da Westerbork negli ultimi sempre più difficili tempi Etty è sempre alla ricerca di tante buone cose terrene (144) per nutrire i suoi anziani genitori ma aggiunge: Un bel giorno ti manderò soltanto delle effusioni liriche, e nemmeno una parola sul cibo che trovo un argomento detestabile (145).

Ma questa libertà e liberalità non sarà che il compimento di un cammino cominciato un anno prima, alle otto quanto questa donna prese una piccolissima decisione: Ho rinunciato al bicchiere di cioccolata che mi concedevo sempre, un po’ di soppiatto, alla domenica mattina, voglio abituarmi. Spontaneamente…!

Riparatori di brecce

Per Etty il digiuno è una forma di profezia e, più precisamente, un modo per iscrivere giorno dopo giorno nella propria anima attraverso il proprio corpo il carisma profetico. Alla fine del suo Diario la ritroviamo come ammaliata da una sorta di scoperta della sua propria vocazione interiore tanto che il termine tedesco le risulta intraducibile nella sua lingua: Vorwegnehmen/anticipare […] Sono distesa qui da ieri sera, e intanto comincio ad assorbire una piccola parte del gran dolore che dev’essere assorbito su tutta la terra. Comincio a mettere al coperto (238) Alla fine del suo Diario - mentre si apre l’ultimo anno della sua vita terrena che si spenderà tra il fango del campo di Westerbork visitando e rivistando quelle grandi baracche in cui si vive come topi in una fogna (85) – con piglio profetico ridice a se stessa con la forza degna dei suoi grandi antenati ebrei: anticiperò una piccola parte dei duri giorni che verranno (238). Ma anticipare per Etty non significa parare i colpi bensì porsi nell’atteggiamento giusto per acquisire la capacità di essere un vero e proprio «riparatore di brecce» (Is 59, 12). Riparatore di brecce non certo in un atelier di raffinato restauro bensì in un ambiente che Etty descrive in tutta la sua crudeltà dicendo eccomi dunque nell’inferno (132).

In questo inferno, dove diventa un bene di lusso persino un rotolo di carta igienica (112), davanti alla minaccia incombente di così grandi edifici e torri, costruiti dagli uomini con le loro mani e che si innalzano sopra di noi, ci dominano, e possono crollarci addosso e seppellirci (102), questa donna si mette alla ricerca di un rifugio per la sua anima per creare attorno a sé uno spazio di quiete per chi ne avesse bisogno: Io sto cercando un tetto che mi ripari ma dovrò costruirmi una casa pietra su pietra. E così ognuno cerca una casa, un rifugio per sé. E io mi cerco sempre un paio di parole (67).

Troppo spesso ci sfugge il fatto che un paio di parole possono essere una casa e un rifugio. Troppo spesso ci sfugge il fatto che solo una parola può farci crollare addosso il mondo e seppellirci. Nonostante la profonda consapevolezza del grande equivoco che ogni parola può creare fino ad accrescere i malintesi su questa terra troppo loquace, nondimeno Etty persegue per tutta la vita il sogno di diventare niente altro che un poeta. Scrive un mese prima di essere deportata: Ora lo Stundenbuch – poesie di Rilke grande poeta e suo maestro – si trova sotto il mio guanciale (115). E proprio quando dispera del suo talento non fa che sperare di più: In me non c’è un poeta, in me c’è un pezzetto di Dio che potrebbe farsi poesia (230).

La poesia esistenziale di Etty ripara le discrepanze e gli abissi che sempre più profondamente si creano terribilmente nel suo mondo. E lei si aggira per il campo come si aggirava – un tempo appoggiata al suo amico/amante – per le signorili strade di Amsterdam nella consapevolezza «che non sono i sani che hanno bisogno del medico ma i malati» (Lc 5, 31). Etty cerca di farsi ri-sanare in un modo molto evangelico: dapprima chiamando per nome la sua di malattia che pretende di rinchiudere la vita nelle tue formule, di abbracciare tutti i fenomeni della vita con la tua mente, invece di lasciarti abbracciare dalla vita (64).

Preso coscienza di questa malattia che pensando di racchiudere in realtà disperde e rompe i pochi e traballanti ponti esistenti tra le persone, Etty si oppone come ad una vera e propria malattia dell’anima a tutto ciò che contrappone in modo superficiale. Davanti alle tensioni e al dramma di un odio crescente – ben giustificato – così appunta con la sua grafia: mi sembra che valga la pena di tenere in piedi questa piccola comunità, per testimoniare che la vita non può essere racchiusa in uno schema determinato (31). Ma al fine di evitarci spiacevoli illusioni subito aggiunge: però tutto questo costa un prezzo di dolore, di forti conflitti interiori, di reciproche offese di tanto in tanto, di nervosismo e di rimorso…ma è qui che si apre il grande terreno della Resistenza ad ogni forma di dis-gregazione che ingloba persino il nemico come povero nemico che è semplicemente un malato da guarire come quel giovane soldato che si da tante arie ma che, in realtà, è solo un povero ragazzo.

Ma come essere in grado nelle terribili ore del disastro, mentre tutti fuggirebbero per non essere sommersi, continuare a riparare e a ripartire? Una sola risposta sembra possibile quella di riparare le brecce che portiamo dentro di noi: non vedo nessun altra soluzione che quella di raccoglierci in noi stessi e di strappare via il nostro marciume. Non credo che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza avere fatto la nostra parte dentro di noi. È l’unica lezione della guerra: dobbiamo cercare in noi stessi, non altrove (100). Guarire per guarire! Di quale silenzio – quale digiuno da ogni pretesa di incasellare l’altro - dovremo armarci per affrontare questa indispensabile cura per poter alfine avvertire distintamente che dentro di me c’è una melodia (67).

E ti ritrovi un santo

L’invito del Levitico risuona esigente ma assai attraente: «Siate santi, perché io, il Signore vostro sono santo» (Lv 19, 2). Il Signore Gesù da parte sua non esita indicarci una sorta di metodologia della santità: «ogni volta che avete fatto queste cose ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me» (Mt 25, 40).

Con l’accostamento di questi due testi biblici si viene creare un indissolubile legame tra la santità di Dio e il nostro saperci chinare non solo e non tanto sulla piccolezza dell’altro – i suoi bisogni - ma, più profondamente, sul fatto che l’altro nella sua piccolezza ci rivela il volto di Dio. Ma chi è mai questo Dio che si confonde con i più piccoli, le più in-visibili tra le sue creature: «Signore quando mai ti abbiamo visto…?» (Mt 25, 37.44).

Davanti a questi volti inquietanti dell’umanità che sono i poveri e gli esclusi anche noi – ogni volta – siamo costretti a riconoscere: Non c’è ancora abbastanza spazio in me stessa per far posto alle molte contraddizioni, mie e di questa vita (79). Laddove le contraddizioni si fanno più stridenti si è chiamati ad assumente uno sguardo e un gesto che vada oltre ciò che si vede per cogliere ciò che non si vede e che pure si sente: la vita di tutti gli uomini sentita di nuovo come una gran storia di dolori (80). Quale Dio potrà mai celarsi in questa storia di dolori?

La risposta che Etty sembra trovare è proprio apparentemente contraria al nostro solito modo di intendere il rapporto tra Dio e il dolore e i bisogni degli uomini. Nel cuore di una catastrofe che spingerebbe a mettere in dubbio ogni cosa - la fede in Dio e la fiducia negli uomini – Etty ha il coraggio di rinnovare la sua convinzione più profonda: Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore (127). Per Etty riconoscere la santità di Dio è fargli credito della sua purità assoluta da tutto ciò che contamina il nostro cammino: Dio non è responsabile verso di noi, siamo noi a esserlo verso di lui (134).

Per Etty la santità di Dio è ciò che lo rende estraneo al male che noi viviamo tanto che Dio non è nemmeno responsabile verso di noi per le assurdità che noi commettiamo: i responsabili siamo noi (134). In questa affermazione assoluta della trascendenza e santità di Dio si fonda la necessità di essere santi come Lui rendendoci sempre più responsabili delle nostre azioni, sempre più coscienti del male a cui diamo spazio dentro di noi, sempre più convinti di non poter delegare nulla a Dio ma di doverci sporcare le mani per dare alla storia un’anima che renda possibile a Dio stesso di passeggiarvi.

La santità come imitazione di Dio nella sua capacità di rimanere estraneo al male implica una fiducia enorme nella nostra capacità di fare spazio al bene qualunque siano le situazioni che ci troviamo a vivere: Qui molti sentono languire il proprio amore per l’umanità, perché questo amore non è nutrito dall’esterno. Dicono che la gente di Westerbork non ti offre molte occasioni di amarla (114).

Potremmo chiederci quante occasioni offriamo a Dio per amarci ogni giorno? Etty sembra rispondere in modo tremendamente evangelico: Ma ho dovuto ripetutamente constatare in me stessa che non esiste alcun nesso causale fra il comportamento delle persone e l’amore che si prova per loro. E come se non bastasse aggiunge: Questo amore del prossimo è un ardore elementare che alimenta la vita. Il prossimo di per sé ha ben poco a che farci (115).

Ciò che siamo chiamati a coltivare non è un programma di gesti di santità – tanto amati e ricercati dal nostro piccolo fariseo interiore – ma un atteggiamento di santità che è la capacità di scorgere in Dio e nelle creature tutte quel tratto di innocenza dal male – sebbene quasi invisibile o assai sommerso – che ci permette di provare naturalmente com-passione e amore come per la nostra «propria carne» (Ef 5, 29. Una santità del genere non si pianifica ma misteriosamente vi ci si ritrova.

Vivere portando nella vita piovosa e uggiosa dei nostri fratelli e sorelle in umanità un piccolo arcobaleno può avvicinare la santificazione dell’intero universo e dell’intera storia. Come quel giorno in cui Etty dovette inventare di sana pianta una storia per lasciare, comunque, irradiare la sua gioia. Così scrive ad una sua amica il 7 agosto 1943: stamattina c’era un arcobaleno sopra il campo e il sole brillava nelle pozzanghere melmose. Quando sono entrata nella baracca dell’ospedale, alcune donne hanno esclamato: «Forse ci porta buone notizie? Ha un’aria così allegra!». Ho escogitato una storiella a proposito di Vittorio Emanuele, di un governo popolare e di una pace più vicina, potevo forse scamparmela con quell’arcobaleno, anche se era l’unica ragione della mia letizia? (109).

Si potrebbe cambiare un po’ il testo del Levitico: "Siate lieti perché io sono lieto". Ma basterebbe un arcobaleno per la mia letizia?! Me ne accorgerei?! Eppure non sarebbe così difficile lasciarsi meravigliare dalla santità del nostro Dio fino a rispecchiarla un poco!

Lotta allo spreco

Il Signore Gesù è il nostro Maestro di preghiera e il suo insegnamento è così netto: «Pregando non sprecate parole come i pagani» (Mt 6, 7) i quali – e ciascuno di noi è sempre un po’ pagano – non credono a quanto dice il profeta: «…la parola uscita dalla mia bocca non ritornerà a me senza effetto» (Is 55, 11). Preghiera e fiducia, fiducia come preghiera… e siamo al cuore, al nocciolo incandescente dell’esperienza interiore di Etty che aveva cominciato a scrivere una novella intitolata: "La ragazza che non sapeva inginocchiarsi" (70).

Di questa novella non è rimasta nessuna traccia ma ci è rimasta la testimonianza luminosa di una donna che ha trasformato la sua vita proprio lasciandosi impregnare da una preghiera sobria di parole ma di rara intensità e giocatasi tutta a livello di "ginocchia", cioè di corpo offerto allo sguardo segreto del Padre nel silenzio e nel profondo della propria intimità: Ieri sera subito prima di andare a letto, mi sono ritrovata improvvisamente in ginocchio nel mezzo di questa grande stanza, tra le sedie di acacia sulla stuoia chiara. Un gesto spontaneo, spinta a terra da qualcosa che era più forte di me (87).

Per Etty la preghiera è la manifestazione di una necessità interiore, di una misteriosa costrizione interiore che non ha nulla di pagano nel senso che non cerca e non chiede nulla ma semplicemente si espone nudamente – in una disordinata camera da bagno (73) – allo sguardo di Dio. Il nucleo incandescente dell’esperienza di Etty si pone questa sorta di resa incondizionata ad una divina presenza che si impone alla coscienza come l’evidenza più chiara: Esitavo ancora troppo davanti a questo gesto che è così intimo come i gesti dell’amore, di cui non si può parlare se non si è poeti (87). Solo i poeti infatti riescono a dire il gesto dell’amore attraverso una sobrietà di parole che tende all’assenza stessa di parole poiché la preghiera entra nel novero delle faccende intime, quasi più intime di quelle del sesso (73).

Mai abbiamo notizia di Etty che partecipi ad una preghiera ufficiale né nella sua tradizione ebraica né nelle altre con cui è a contatto. La preghiera di Etty è, rimane e vuole rimanere un gesto intimo. La forte sensazione di avere Dio dentro di me se esige il coraggio di dirlo, avere il coraggio di pronunciare il nome di Dio (87) ma non si tramuta - mai - nel bisogno di sbandierarlo. Dal suo amico-amante Etty ha imparato la preghiera e l’amore nello stesso tempo e la preghiera rimarrà sempre per questa donna la realtà più intima. Spier, che rispondeva a tutte le sue domande, quando venne interrogato sulla sua preghiera aveva risposto timidamente: questo non glielo dico. Per adesso no. Più tardi (88).

La domanda di Etty era infatti maldestra e sfasata: "cosa dice quando prega?". Ma la preghiera è ben aldilà di quanto vi "si dice". Alla medesima domanda inopportuna il santo curato d’Ars – uomo consumatosi nella preghiera – non aveva saputo dire altro se non «Io guardo lui e lui guarda me». Il cammino di preghiera di Etty si presenta come una scala in cui sempre più intimamente mi inginocchio sul ruvido tappeto di cocco, con le mani che coprono il viso e prego: "Signore fammi vivere di un unico, grande sentimento – fa’ che io compia amorevolmente le piccole azioni di ogni giorno, e insieme riconduci tutte queste piccole azioni a un unico centro, a un profondo sentimento di disponibilità e di amore. E aggiunge quasi per essere sicura che la sua resa sia incondizionata: Allora farò quel che farò, e il luogo in cui mi troverò, non avrà più molta importanza (82).

Ancora una volta – ed è sempre così – il legame tra preghiera e amore è assoluto! Sempre la preghiera per Etty non è questione di parole ma di gesti. Il gesto del suo inginocchiarsi nell’intimità che diventa il gesto di chinarsi - amorevolmente - sugli altri sfiorandone l’intimità con un rispetto e una empatia che avrebbe estasiato la stessa Edith Stein. Purtroppo il loro incontro fu terribilmente fugace perché i nazisti avevano fretta eppure non sfuggirono all’occhio attento e al cuore ardente di Etty ricorda tra i suoi incontri due carmelitane appartenenti ad una famiglia di ebrei molto osservanti, ricca e altamente intellettuale di Breslau, con la stella gialla cucita sul loro abito monastico. Ed eccole che ritrovano i loro ricordi d’infanzia…mentre venivano condotte verso il compimento della Settima Stanza!

Nel suo itinerario la preghiera è la sola arma capace di sconfiggere il male, è l’unica rivoluzione e restaurazione possibile: Oggi mentre passavo per quei corridoi così affollati, ho sentito improvvisamente un grande desiderio di inginocchiarmi sul pavimento di pietra, in mezzo a tutta quella gente. Questo non di certo per abdicare all’intimità ma perché L’unico atto degno di un uomo che ci sia rimasto di questi tempi è quello di inginocchiarci davanti a Dio (182).

Per Etty che fa una spietata lotta ad ogni forma di spreco di parole fino a desiderare l’isolamento di un chiostro (74-75), non bisogna invece badare a spese quando si tratta di inginocchiarsi. Sembra che la preghiera ponga la nostra vita nella stessa traiettoria della Parola ed è l’unica realtà umana che non tornerà indietro senza «effetto» (Is 55, 11).

Potremmo dopo sessant’anni restituire ad Etty la parola che inviò alla sua cara amica Christine: E, sì, prega un pochino per noi. E grazie di tutto (71).

Uomini e bestie tu salvi

Veramente commovente vedere come, nonostante la diffidenza del profeta Giona, il re di Ninive non esita ad ordinare che non solo gli uomini ma pure gli «animali non gustino nulla, non pascolino, non bevano acqua» (Giona 3, 7). Il Signore Gesù ci invita pressantemente ad aprire gli occhi su questo «segno» senza cercare altri «segni» (Lc 11, 29-32).

La Quaresima ci offre attraverso il digiuno, il silenzio, la preghiera l’occasione propizia per purificare il nostro cuore di uomini e di donne da un’eccessiva centratura su noi stessi: noi non siamo il centro dell’universo ma solo parte di esso e, non raramente, dobbiamo farci aiutare dalla creazione per ritrovare la strada che ci riporti ad una relazione più sana con noi stessi, con gli altri e con il Creatore: Non esistono forse altre realtà, oltre a quella che si trova sui giornali e nei discorsi vuoti e infiammati di uomini intimoriti? Etty dopo essersi posta questa domanda a cui non possiamo, in nessun modo restare insensibili, offre pure una risposta: Esiste anche la realtà del ciclamino rosso-rosa e del grande orizzonte, che si può sempre scoprire dietro il chiasso e la confusione di questo tempo (215).

Potremmo aggiungere al testo del salmo che dice «uomini e bestie tu salvi, Signore» (Sl 35, 7), "e salvi i fiori, gli orizzonti, le galassie…!" Etty non si trovava in una situazione tale da permetterle nessuna forma di leggerezza immersa com’era in una realtà in cui ogni cosa è di un’indescrivibile e buffonesca assurdità e tristezza (147). Cercando riparo dalla tristezza ma ancora di più dalla terribile buffoneria che noi umani siamo capaci – a differenza di tutte le altre creature di costruire in noi e attorno a noi – non trova altro modo che fare visita alla natura fedele alle sue proprie leggi: E così provo a vivere senza preoccuparmi di timbri verdi rossi e blu e di liste di deportati, e di tanto in tanto faccio visita ai gabbiani, nei cui movimenti per i vasti cieli nuvolosi si indovinano leggi, eterne leggi di un genere diverso da quelle che fabbrichiamo noi uomini (95).

Etty ci aiuta a cogliere e accogliere l’invito del Signore Gesù: «guardate i fiori dei campi… guardate gli uccelli del cielo…» (Mt 6, 25ss) un testo che lei ama e cita con particolare passione. Nel suo cammino costellato da una cura del tutto speciale per i fiori e in cui spesso chiama a testimone della sua vita e del suo combattimento l’albero che ondeggia fuori della sua finestra ad Amsterdam, questa donna ha imparato una grande lezione: Sì, è così, nella natura ci sono leggi molto compassionevoli (96).

Come Giona anche noi dobbiamo saperci mettere al di sotto non solo degli abitanti di Ninive «la grande città» (Gn 1, 2) ma persino al di sotto dei suoi animali per imparare perfino dal «grosso pesce» (Gn 2, 1) e ancora dalla mitissima «pianta di ricino» (Gn 4, 6). Con Etty dobbiamo imparare la lezione che timidamente ci viene impartita dal ragno che tesse la sua tela, il quale non lancia forse i fili principali davanti a sé e ci si arrampica poi sopra? E così interpreta la lezione: la strada principale della mia vita è tracciata per un lungo tratto davanti a me e arriva già in un altro mondo (87-88).

Proprio quando gli uomini con la loro ingordigia distruttrice non accettano di risparmiare le loro prede a differenza della mitica balena; quando la cattiveria umana non può che aprire le porte alla disperazione più terribile ecco che Etty non rinuncia alla speranza accettando – secondo la dottrina dei Santi Padri – di mettersi al di sotto degli uccelli, dei fiori, dei ragni, delle nuvole…: Il cielo è pieno di uccelli, i lupini violetti stanno là così principeschi e così pacifici, su quella cassa si sono sedute e chiacchierare due vecchiette, il sole splende sulla mia faccia e sotto i nostri occhi accade una strage, è tutto così incomprensibile. E aggiunge stupendamente a guisa di rettifica: Io sto bene (65) come quei gabbiani, come quei lupini, come quelle nuvole.

Quale cammino di vera umiltà ha dovuto percorrere questa donna per riuscire a ri-mirare lo stesso carnefice in una luce serena se riportato ad essere considerato come parte di una medesima creazione: Un ufficiale della gendarmeria raccoglie i lupini violetti con aria rapita (64)? Un messaggio delicato ma fortissimo sembra risuonare tra le righe di Etty: se vivessimo di più tra i fiori tutto potrebbe essere diverso. Il nostro stesso dolore per ciò che ancora accade a troppi uomini e donne potrebbe rivestirsi di una dolcezza capace di portare nuovi sapori nell’altrimenti inevitabile disgusto: Tanti uomini vengono uccisi dappertutto, mentre io sto scrivendo vicino al mio ciclamino rosso-rosa… intanto il mio braccio sinistro riposa sulla piccola Bibbia aperta (214).

Il nostro piccolo angolo di mondo, il nostro minuscolo pezzo di terra e di cielo potranno convertirsi al ritmo e alle leggi ben più giuste dell’Universo Creato? Sapremo inviare dalla nostra stessa terra di desolazione righe illuminate dalla speranza come quelli scritte dall’amico all’amica: "Eccomi di nuovo seduto con le gambe che penzolano fuori dalla finestra, ad ascoltare l’immenso silenzio. Il campo di lupini, ora senza i suoi colori esultanti, è immerso nella luce confortante della luna. Tutto è di una solennità e di una pace che mi rendono muto e serio. Salto giù dalla finestra, faccio pochi passi sulla sabbia soffice e guardo la luna (214)".

Era il 3 gennaio 2004 e mi trovavo anch’io con un amico proprio a Westerbork! Fu una giornata inaugurata da una soffice delicata neve ma conclusa da uno splendido tramonto che incendiava la brughiera mentre la luna già risplendeva timida e bellissima… non potei che ripetere con tutto me stesso: qui si può fare solo un gesto: inginocchiarsi (214). Lo feci e l’amico lo fece con me!

Su, andiamo a fare visita ai gabbiani, ai fiori, alle nuvole, alle acque… per imparare quella compassione che Etty imparò proprio laddove il sole dà spettacolo ogni sera con un tramonto diverso. Quanti paesaggi ospita questo campo nella brughiera del Drenthe! Credo che il mondo sia bello dappertutto, anche nei luoghi descritti come desolati e aridi e monotoni (124)… non è forse ciascuno di noi uno di questi paesaggi di possibile impossibile bellezza? Sì è vero «uomini e bestie tu salvi, Signore»!

Come stelle

La parola del Signore è profondamente ambigua: «… chiunque chiede riceve, e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto» (Mt 7, 8)… eppure come è diversa la nostra esperienza quotidiana… quanto buia e talvolta terribilmente paurosa è la notte della preghiera inesaudita che ci scandalizza e ci paralizza. Eppure in questa notte la Liturgia quaresimale accende una stella – di nome e di fatto – Ester. La regina che rinuncia alla sicurezza del suo stato per farsi solidale con il suo popolo. La credente che intercede presso il Signore senza chiedere poiché parte dalla certezza che qualunque sia l’esito potrà sempre dire fino in fondo: «Tu sei giusto Signore» (Est 4, 6).

Con la regina orante Etty condivide il nome – Etty è diminutivo di Ester – e condivide il sentimento profondo dell’innocenza di Dio: E malgrado tutto si approda sempre alla stessa conclusione: la vita è pur buona non sarà colpa di Dio se a volte tutto va così storto, ma la colpa è nostra (75). Le nostre due sorelle nella fede si dimostrano fino in fondo - ciascuna a suo modo - delle vere regine capaci di portare la propria parte di responsabilità fino alla soglia del terribile e pericoloso trono regale (Est 5, 4) a cui Etty si accosta con la consapevolezza chiara che le mie preghiere non sono come dovrebbero. E ne spiega il motivo: So bene che si deve pregare per gli altri nel senso che trovino la forza di sopportare ogni cosa (106).

Etty non ha solo imparato a pregare ma ha imparato a pregare per amore accettando di non essere esaudita se non per l’unico desiderio che Dio ha il dovere di esaudire: renderci capaci di acconsentire sempre ad un avvenire sconosciuto in piena comunione con tutto il mondo e con tutta la storia: Ma sotto i miei piedi girovaghi non c’è forse dappertutto la stessa terra; e lo stesso cielo – ora con la luna, ora col sole, per non parlare di tutte le stelle? (209-210). Etty ha imparato il segreto della preghiera proprio ed esattamente mentre il grande amico, l’ostetrico della mia anima, soffriva nel suo letto e ridiventava bambino (214-215). Etty ci svela il segreto della preghiera degna di un cuore regale e libero: si tratta non di chiedere a Dio di fare qualcosa per noi ma semplicemente di manifestarci con libertà le intenzioni che ha nei miei confronti (215).

Cosa di più degno di Dio? Cosa di più degno dell’uomo davanti a Dio? Questo mistero di incontro adulto e sponsalmente libero tra la creatura e il Creatore Etty lo persegue anche nei momenti più difficili: Stasera ho sentito un principio di tristezza, anche questa fa parte della vita. Eppure ti sono così riconoscente, mio Dio, sono persino quasi fiera che tu non mi nasconda i tuoi ultimi, i tuoi massimi enigmi. Potrò pensarvi una vita intera (213).

Misteriosamente e stupendamente la preghiera si trasforma in una mano tesa verso Dio per darGli finalmente la possibilità di esprimersi, di esprimere il Suo cuore, i Suoi sentimenti, il Suo immenso dolore. La preghiera è e rimane così per l’umanità una grande responsabilità. La più grande delle responsabilità che una creatura possa avere che Etty come Ester non esita a dichiarare: devo dire che mi sento capace di assumerla. Questa responsabilità assume in Etty la forza di un amore che non si arrende e che arriva allo "stremo teologico" di chi può parlare a Dio intimamente e arditamente: E se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio (163).

La preghiera non è un accesso privilegiato o un modo per evitare la fatica ma è la forma più perfetta di percorrere fino in fondo il proprio destino rischiando la propria vita come la regina che osa sfidare le leggi dei Medi e dei Persiani. Davanti a qualunque costrizione della necessità, davanti alle realtà più assurde e di fronte all’inevitabile ogni volta so ritrovare me stessa in una preghiera – e pregare mi sarà sempre possibile – anche nello spazio più ristretto. E, come se fosse un fagottino, io mi lego sempre più strettamente sulla schiena, e porto sempre più come una cosa mia quel pezzetto di destino che sono in grado di sopportare: con questo fagottino già cammino per le strade (162) allo stesso modo in cui la regina avanza vero il re nascondendo sotto i fastosi abiti regali il suo fagottino di preghiera, di fiducia, di disponibilità a dare la vita prima di tutti gli altri e per tutti gli altri.

Tra le preghiere che troviamo nelle Scritture quella di Ester è tra le più belle, nella festa di Purim Israele la prega e la canta. Potremmo rileggerla in questi giorni quaresimali facendoci trasportare dalla sua forza e dalla sua bellezza e potremmo accostare a questa Stella un’altra Stella che, col suo mite fulgore, così pregava e ci insegna a pregare:

Mio Dio, prendimi per mano, ti seguirò da brava, non farò troppa resistenza. Non mi sottrarrò a nessuna delle cose che mi verranno addosso in questa vita, cercherò di accettare tutto e nel modo migliore. Ma te ne prego concedimi di tanto in tanto un breve momento di pace. Non penserò più nella mia ingenuità che un simile momento debba durare in eterno … purché tu mi tenga per mano… e cercherò di non avere paura. E dovunque mi troverò, io cercherò di irraggiare un po’ di quell’amore, di quel vero amore per gli uomini che mi porto dentro. Ma non devo neppure vantarmi di questo "amore". Non so se lo possiedo.

Mio Dio, non voglio essere niente di così speciale, voglio solo cercare di essere quella che in me chiede di svilupparsi pienamente (74). Amen! Amen!

Possa la nostra preghiera raccogliere e presentare sempre le impressioni e gli aneliti del cuore come stelle sfavillanti sullo scuro velluto (236) della storia trasformatasi in un mirabile cielo notturno certo ma stupendamente stellato… come quello di questa splendida serata!

Ri-flessibili

Il profeta Ezechiele ci introduce nella mente di Dio, nel suo modo di guardare noi umani e, soprattutto, nella sua attenzione al nostro processo interiore di intelligenza e di reazione al reale: «Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le sue colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà» (Ez 18, 28). Dio è come conquistato e persino piegato dalla nostra capacità e possibilità di ri-flessione. Sembra proprio che ogni volta che un essere umano si dimostra capace di riflettere su se stesso offra una possibilità a Dio di penetrare nella sua vita e di salvarlo: «certo vivrà e non morirà».

Da questa angolatura si potrebbe ri-leggere tutto il cammino umano – così intimo e interiore – di Etty come una continua espansione e approfondimento della sua attitudine ri-flessiva. Etty si autodescrive e si autocomprende proprio a partire dalla sua capacità di riflessione e di penetrazione del reale attraverso la grata del suo cuore in espansione: la mia camera è così bella e tranquilla . Io trascorro delle mezze nottate alla mia scrivania, a leggere e a scrivere vicino alla mia piccola lampada. Ho qui circa 1500 pagine di diario dell’anno scorso e ora me le rileggo (25).

Sembra che Etty si rilegga continuamente ma lungi dall’essere questo un esercizio di narcisismo è, in realtà, un continuo stupore e un invito pressante ad un’ulteriore crescita ed espansione della sua coscienza: Che ricca vita mi viene incontro ad ogni pagina! E pensare che è stata la mia vita e che lo è tuttora. Allo stupore si aggiunge subito la percezione e la penetrazione del senso profondo e del fine preciso di ogni riflessione: Non sono i fatti che contano nella vita, conta solo ciò che grazie ai fatti si diventa (25).

Etty non riesce a comprendere e, in certo modo, ad amare se stessa se non in divenire e questo divenire non si attua principalmente e fondamentalmente negli avvenimenti esterni bensì nella riflessione accurata e talora spietata su tutto il reale per scoprirvi nelle apparenti pareti impenetrabili infinite porte per sempre rinnovati accessi ad un significato più ampio: Le cose devono poter essere chiamate per nome, e se non reggono a questa prova non hanno il diritto di esistere. Spesso si cerca di salvarle con una sorta di vago misticismo. Il misticismo deve fondarsi su un’onestà cristallina; quindi prima bisogno aver ridotto le cose alla loro nuda realtà (125). La riflessione sembra essere per Etty il mezzo concreto per non perdersi e non farsi sommergere in una morte interiore ben più grave della stessa morte: C’è fango, talmente tanto fango che da qualche parte si deve proprio possedere un gran sole interiore se non se ne vuole diventare la vittima psicologica (39).

Non sfugge alla stessa Etty il timore e il pericolo di isolarsi in un mondo così interiore da essere una sorta di fuga dal reale: non per questo mi rinchiudo nella mia stanza, Dio: continuo a guardare le cose in faccia e non voglio fuggire dinanzi a nulla, cerco di comprendere i delitti più gravi, cerco ogni volta di rintracciare il nudo, piccolo essere umano che spesso è diventato irriconoscibile. E aggiunge quasi per schermirsi ma anche per aiutarsi nella fedeltà ad un programma di vita irrinunciabile: Io non me ne sto qui, in una stanza tranquilla ornata di fiori, a godermi Poeti e Pensatori glorificando Iddio, questo non sarebbe proprio tanto difficile, né credo di essere così estranea al mondo come dicono inteneriti i miei buoni amici.

In realtà persino nel grande trambusto di Westerbork, ormai definitivamente lontana dallo scenario familiare e amato della sua scrivania, dei suoi libri, della sua lampada, della sua finestra, del suo bagno scrive a questi suoi inteneriti amici: "Carissimi avete salutato a lungo i miei due boccioli di rosa?" (60). Ma sono state proprio le lunghe notti passate in ottima compagnia che hanno reso Etty capace di essere ottima – più che ottima compagna – fino all’estremo momento testimoniato dalla lettera di Jopie: "poi un allegro ciaaao di Etty dal vagone 12… e sono partiti" (259). L’«amore fedele e leale che Etty ha dato a queste persone» (259) fu il riflesso della sua instancabile capacita rigorosa, onesta, cristallina di riflettere sul reale per riflettervi un raggio del suo sole interiore.

La prova suprema e l’autenticazione certa della verità, della bontà, della bellezza di quello che fu il lento ma inflessibile percorso di riflessione che per Etty – giorno dopo giorno impegnata in un esodo di liberazione da se stessa - fu il suo rapporto con l’«avversario» (Mt 5, 25). Proprio quando l’avversione sembrava l’unica cosa sensata Etty – come discepola intima e segreta di Gesù di Nazareth suo fratello – scelse e coltivò la via della con-versione all’altro anche quando questo può costare la vita.

La sua è una lezione imparata a caro prezzo e insegnata dolcemente: Ho capito pian piano che nei giorni in cui proviamo avversione per il prossimo, in fondo proviamo avversione per noi stessi. «Ama il prossimo tuo come te stesso». So che dipende sempre da me e non da lui… si deve permettere ad ognuno di essere così com’è… dobbiamo renderci veramente liberi dagli altri e insieme dobbiamo lasciarli liberi (76). Quasi alla fine del suo percorso troviamo come una piccola nota: "Audi alteram partem" [ascolta anche l’altra parte] (219)…un modo del tutto evangelico e assolutamente rivoluzionario di gestire il rapporto con chi, in realtà, rivestendosi del mantello di «nemico» vuole distruggere proprio questa capacità di essere persone in quanto sempre fiduciose e aperti ad una relazione creduta sempre possibile: Siamo passati davanti a lillà, roselline e soldati tedeschi che montavano la guardia.

Riflettere può condurre al grande miracolo di accostare il volto del nemico a quello delle amate splendide e innocentissime roselline! Riflettere può trasformare il volto del reale senza alterarlo: Io guardo il tuo mondo in faccia, Dio, e non sfuggo alla realtà per rifugiarmi nei sogni – voglio dire che anche accanto alla realtà più atroce c’è posto per i bei sogni - , e continuo a lodare la tua creazione malgrado tutto (113). Riflettere per trovare sempre una via per rendere possibile un senso, per rinnovare la profezia per il nostro grande sogno che «certo vivrà e non morirà». Ma quanto flessibili si deve diventare… flessibili come lo siamo nei nostri sogni!

Animi custos

Il Signore Gesù ci porta al cuore del suo insegnamento: «ma io vi dico: amate i vostri nemici» (Mt 5, 44). Sembra proprio che la promessa del Deuteronomio «tu sarai per me un popolo particolare» (Dt 26, 18) si realizzi quando assumiamo lo stesso atteggiamento del Padre dei cieli che «fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5, 45). Il sole ridente e la pioggia fecondante sono il modo in cui Dio dice la sua identità: sempre uguale a se stesso, sempre fedele al suo amore qualunque cosa noi umani riusciamo a combinargli. Se l’amico è propriamente l’animi custos/custode dell’anima, allora l’amicizia è una questione di anima e l’amare il nemico diventa una questione di grande anima.

Etty fu capace di aprirsi alla sua interiorità con molta intensità: tutta la mia tenerezza, le mie forti emozioni, quel mare dell’anima molto mosso, lago dell’anima, oceano dell’anima (108). In questi splendidi abissi Etty vi cercò, condotta per mano dal suo amico-amante e dalle sue letture di qualità, fino a trovarvi quel «tesoro nascosto» (Mt 13, 44) e quella «perla preziosa» (Mt 13, 46) per cui sarà capace di vendere ogni altra forma di sicurezza e di consolazione: dialogo in modo pazzo, infantile o serissimo con la parte più profonda di me, che per comodità io chiamo «Dio» (176).

A nessuno sfuggirà la nota un po’ inquietante per comodità! Eppure sotto questo modo apparentemente "disimpegnato" di parlare di Dio si cela invece tutt’altro che una comodità: ho dovuto percorrere un cammino faticoso per ritrovare quel gesto intimo verso Dio, la sera alla finestra, per poter dire: ti ringrazio Signore. Nel mio mondo interiore regnano tranquillità e pace. E’ stato proprio un cammino faticoso (97-98). Questa fatica fu resa ancora più grande dal fatto che mai Dio fu per Etty una soluzione ma sempre una responsabilità. Il sentimento di presenza di Dio nella sua anima le fece sempre di più avvertire la responsabilità di custodire e di disseppellire continuamente questa presenza a beneficio della storia e dell’umanità intera, non solo quella presente ma anche quella futura.

Si potrebbe dire – con tutta la dose di problematicità che questo comporta – che Etty ospita nella parte più intima interiore di se stessa Dio al posto di quel figlio da cui si liberò in tutti i modi. Etty che risolutamente e problematicamente non vuole prendersi la responsabilità di aumentare il numero di quegli sventurati e che non esita a dichiarare – lasciandoci assolutamente attoniti – ho acquistato qualche merito eterno nei confronti dell’umanità: non ho mai scritto un cattivo libro, e non ho il rimorso di aver aggiunto un altro infelice a quelli che vivono già sulla terra (82), proprio lei si prenderà cura di Dio: Dentro di me c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta da pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. La conseguenza è chiara ed operativa: Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo (60).

Realmente Etty ha conosciuto Dio in un contesto di amicizia, si potrebbe dire che ha imparato a conoscerlo attraverso l’esperienza di un amore tra amori – quello di e per Spier – completamente diverso e corredato da quei numerosi problemi che nasceranno sempre dal nostro rapporto (56). Proprio nel contesto di questo rapporto Etty scrive una frase che potrebbe essere anche letta in modo ambivalente – nei riguardi Spier e di Dio al contempo – Comincio a credere che stia diventando un’amicizia importante, un’amicizia nel senso più profonde del termine (55).

E per Etty l’amicizia ha una sua caratteristica chiara: Stare dalla parte di un altro essere umano, infatti l’amicizia deve essere anche giusta (56). Ed è nel contesto della definizione di Elredo di Rielvaux – "Deus Amicitia est" – che Etty vive la relazione agli amici, all’Amico per eccellenza e grazie proprio a questo contesto così ampio e profondo che questa donna si apre anche al nemico per neutralizzarne dall’interno il veleno come ebbe a scrivere da Westerbork: Laggiù ho potuto toccare con mano come ogni atomo di odio che si aggiunge al mondo lo renda ancora più inospitale (51). E aggiunge per essere massimamente chiara: E credo anche, forse ingenuamente ma ostinatamente, che questa terra potrebbe ridiventare un po’ più abitabile solo grazie a quell’amore di cui l’ebreo Paolo scrisse agli abitanti di Corinto (51).

Il processo di avvicinamento alla sua intimità attraverso l’amicizia con l’ostretico della sua anima, conduce Etty a prendersi cura del Grande Ospite della sua interiorità. Questa presenza riconosciuta, custodita e amata porterà Etty a irradiare una luce e una forza da cui non potrà essere escluso neppure il nemico davanti a cui ella si pone come davanti a un terribile e temibile mistero pur senza rinunciare ad una punta di sana ironia: Io non posso proprio giudicare, ma devo dire che per essere un gentleman ricopre un ufficio un tantino singolare…(39).

Abituata e allenata a prendersi cura dei frammenti di Dio nella sua anima Etty non può che raccoglierli dappertutto persino tra i temibili tedeschi il grande odio per i quali ci avvelena l’animo (29). Ed ecco una sorta di professione di fede nell’umanità che è frutto della sua esperienza di fede in Dio: basta che esista una sola persona degna di essere chiamata tale da poter credere negli uomini, nell’umanità. Ed ecco che Etty quasi trionfante sul veleno dell’odio canta: è spuntato il pensiero liberatorio, simile ad un esitante e giovanissimo stelo in un deserto di erbacce: se anche non rimanesse che un solo tedesco decente, quest’unico tedesco meriterebbe di essere difeso e grazie a lui non si avrebbe il diritto di riversare il proprio odio (29).

Non ci resta dunque che custodire fino in fondo almeno la nostra personale innocenza per poter credere negli uomini, nell’umanità, in Dio. Sapremo portare il peso di essere soli, di essere unici per dare una speranza a Dio che si trasforma da Grande Custode in Custodito… comunque amico:

Che farai, Dio se muoio?
Sono la tua brocca (e se mi spacco?)
Sono la tua acqua (e se m’appesto?)
Io sono la tua veste, il tuo strumento
Senza di me non hai alcun senso.
Non hai più casa, se muoio, che t’accolga
Con parole calde e amiche; dai tuoi piedi
Stanchi scivolano i sandali
Di velluto perché i sandali sono io.
Che farai Dio? Che angoscia!

(Rilke, Das Stunden-Buch)

* * *

(1): Michael Davide Semeraro è un monaco benedettino del monastero di Germagno che vive da alcuni anni a Rhemes Notre Dame in Valle d'Aosta. Nato a Fasano (BR) nel 1964 è entrato in monastero nel 1983. Dopo i primi anni di formazione monastica ha conseguito il Dottorato in Teologia Spirituale presso l'Università Gregoriana di Roma. Coniugando la sua esperienza monastica all'ascolto delle questioni e dei bisogni della realtà contemporanea ha scritto alcuni libri editi dalla Meridiana, dalle Dehoniane e dalla San Paolo, in particolare Le donne di San Benedetto (2005), Etty Hillesum: Dio matura (2005), Cantico dei Cantici (2006), Con Gesù in compagnia di Luca (2006), Rut, donna altra. Le conseguenze e il prezzo dell'amore (2007), Facciamo l'uomo! (2007), Patire le beatitudini (2010), Messale quotidiano. Festivo e feriale. Letture bibliche dal nuovo lezionario CEI (2010), Betlemme, la casa del pane. Il futuro è possibile (2011), Seme è la parola. Invito alla lectio divina (2011). Michael Davide Semeraro collabora anche con alcune riviste, tiene conferenze e accompagna ritiri.