giovedì 22 settembre 2011

Dammi tre parole...



"Un vecchio ebreo, giunto a tarda età con la mente e la vista appannate, non riusciva più a leggere il suo libro di preghiere e la memoria, dopo aver iniziato anche l'orazione più comune, latitava e si confondeva. Allora decise di fare così: «Reciterò ogni giorno al mattino e alla sera l'alfabeto ebraico per cinque volte e tu, Signore, che conosci tutte le nostre preghiere, metterai insieme le lettere perché compongano le orazioni che non so più ricordare e dire».

Le vie del collezionismo sono infinite. Un mio conoscente ha una straordinaria raccolta di alfabeti antichi e moderni, trascritti su fogli o tavolette. Come emblema ideale egli ha adottato questo apologo ebraico che trovo bellissimo nella sua ingenuità e innocenza di cuore. Lo sfarfallio delle lettere è affidato a Dio perché lo ricomponga in un inno di lode. Se pensiamo alla potenza di quei segni, dobbiamo restare incantati. Con essi si sono intessuti i più dolci colloqui d'amore, i canti più armoniosi, le invocazioni più drammatiche di salvezza, i racconti più affascinanti, le memorie decisive della storia di una persona e di un popolo e si potrebbe proseguire a lungo in questo catalogo di meraviglie create attraverso gli alfabeti umani, non sempre scritti (si pensi a quelli gestuali di certe culture o dei sordomuti). Eppure, a causa di quelle stesse lettere sono scoppiate guerre, si sono alimentati odi tra fratelli, si è prodotta una valanga di pornografia, si sono ingannate tante menti con false ideologie e così via, in un altrettanto sterminato catalogo di orrori verbali e grafici. È bella, allora, la scelta di quel vecchio ebreo che fa salire al cielo il minimo che ancora conosce e lo mette nelle mani e sulle labbra di Dio perché possa ricreare la più meravigliosa di tutte le preghiere. È, questa, la potenza della semplicità di cuore che Dio ama con infinita tenerezza più dell'eloquenza dei dotti".

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Ho scelto questo aneddoto, riportato dal "Mattutino" del card. Ravasi su "Avvenire" di oggi 22 settembre per introdurre questo post. Avrei anche potuto prendere a prestito la risposta alla prima domanda rivolta al Papa giusto questa mattina sull'aereo che lo portava in Germania:

D. – Santità, ci consenta – all’inizio – una domanda molto personale. Quanto Papa Benedetto XVI si sente ancora tedesco? E quali sono gli aspetti dai quali egli si accorge quanto ancora – o quanto sempre meno – la sua origine tedesca influisca?

R. – Hölderlin ebbe a dire: “Più di tutto fa la nascita”, e questo naturalmente lo sento anche io. Io sono nato in Germania e la radice non può essere, né deve essere tagliata. Ho ricevuto la mia formazione culturale in Germania, la mia lingua è il tedesco e la lingua è il modo in cui lo spirito vive ed opera, e tutta la mia formazione culturale è avvenuta lì! Quando mi occupo di teologia, lo faccio partendo dalla forma interiore che ho imparato nelle università tedesche e purtroppo devo ammettere che continuo ancora a leggere più libri tedeschi che in altre lingue. Per questo, nel mio modo di essere l’essere tedesco è molto forte. L’appartenenza alla sua storia, con la sua grandezza e le sue debolezze, non può e non deve essere cancellata. Per un cristiano, però, si aggiunge dell’altro; con il battesimo egli nasce di nuovo, nasce in un nuovo popolo che è composto da tutti i popoli, un popolo che comprende tutti i popoli e tutte le culture e al quale ora veramente appartiene, senza per questo perdere la sua origine naturale. Quando poi si assume una responsabilità grande, come me, che ho la responsabilità suprema in questo nuovo popolo, è evidente che ci si immedesima sempre di più in esso. La radice diventa un albero che si estende in varie direzioni, e il fatto di appartenere a questa grande comunità della Chiesa cattolica, di un popolo composto da tutti i popoli, diventa sempre più viva e profonda, forgia tutta l’esistenza senza per questo rinunciare al passato. Direi, quindi, che l’origine rimane, rimane la statura culturale, rimane naturalmente anche l’amore particolare e la particolare responsabilità, ma inserito ed ampliato nella più grande appartenenza, nella “civitas Dei”, come direbbe Agostino, nel popolo di tutti i popoli in cui tutti siamo fratelli e sorelle.


La lingua dunque è molto importante, è "il modo in cui lo spirito vive ed opera", le parole, i suoni che articoliamo normalmente hanno un senso. E' evidente, no? Riferendosi alla situazione politica italiana, il Papa ha auspicato un: "intenso rinnovamento etico". Ha detto proprio così, tre sole parole:

1. intenso
2.rinnovamento
3.etico.

Che cosa avrà voluto dire?