martedì 20 settembre 2011

Per uscire davvero dalla crisi...



Ricordo che nel lontano 1976 Celentano diceva più o meno così: "Ma questa Italia qua - se lo vuole sa - che ce la farà; e il sistema c'è - quando pensi a te, pensa... anche un pò per me". La canzone si chiamava "Svalutation": dopo tanti anni, non solo la musica non è cambiata, siamo diventati peggiori, più tristi e più arrabbiati, più ricchi forse, più egoisti senz'altro, sempre meno capaci di ascolto e di accoglienza. Ho trovato una bella pagina di Paolo de Benedetti, biblista, che dice le stesse cose di Celentano. Solo le dice meglio.

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Tra le più praticabili opere di misericordia spirituale ce n'è una di cui si ha sempre più bisogno man mano che la vita e la società si plasmano sul modello della città, e che questa società tuttavia non pratica affatto: consolare gli afflitti. La civiltà contemporanea teme gli afflitti e li sfugge perchè teme il contagio dell'afflizione e non sa portare il contagio della consolazione. E in realtà non è facile consolare, specialmente se si crede che ciò consista in un obbligo da adempiersi mediante un discorso.
Bonhoeffer osservava: "E' passato il tempo in cui si poteva dire tutto agli uomini tramite le parole". E lo stesso scriveva il 10 febbraio 1944: "...Sono venuti al mattino da me per farsi un pò consolare. Ma penso di essere un cattivo consolatore. Sono capace di stare ad ascoltare, ma non so dire quasi nulla".Questo pensiero ricorda l'ammonimento di rabbi Simeon ben Eleazar: "Non voler placare il tuo compagno nell'ora della sua ira; non cercare di confortarlo mentre il suo morto è steso davanti a lui,... e non darti premura di vederlo nell'atto della sua debolezza", cioè quandocade in peccato. Sono tre casi in cui la carità suggerisce discrezione piuttosto che esortazioni, consolazioni, ammonimenti verbali.
Nella più amara afflizione anche la Bibbia insegna quel conforto che Bonhoeffer, umilmente, attribuisce alla propria incapacità: la presenza e l'ascolto. Che cosa chiedeva Gesù agli apostoli nel Getsemani? Soltanto che vegliassero con Lui, non certo che gli facessero un discorso consolatorio. E quando Giobbe fu colpito dalle sventure, i suoi amici Elifaz, Bildad e Zofar "decisero di andare insieme a compiangerlo e consolarlo", e, giunti da lui, "dando in alte grida, si misero a piangere. Ognuno si stracciò le sue vesti e si cosparse il capo di cenere. Poi si sedettero con lui in terra per sette giorni e sette notti, e nessuno gli rivolse una parola, perchè vedevano che assai grande era il suo dolore" (Gb. 2, 12-13). Questo conforto offerto in silenzio, la nostra comunità umana oggi non lo sa dare: lo "stare insieme" è diventato un concetto di pura contiguità, la contiguità propria della massa: uno stadio, una spiaggia, un tram, una fabbrica, anche una chiesa. Da tutti questi assembramenti, compreso quello ecclesiastico, spira un senso di sopportazione reciproca che non consolerà mai nessuno. (...)
La non solidarietà è un problema della Chiesa non meno che del secolo e sarebbe un grave errore considerarla un morbo deprecabile e passeggero: è la realtà in cui viviamo, semplicemente. Proprio dalle esperienze di dolore e abbandono che prima o poi toccano a tutti, dobbiamo imparare a riconoscere il valore della presenza altrui ("il prossimo"), per reggerci tutti quanti in piedi.
PAOLO DE BENEDETTI, La morte di Mosè e altri esempi, Milano 1971, pp. 37-39