mercoledì 21 settembre 2011

Rispetto, prima di ogni cosa.



Apprezzo Massimo Gramellini e ogni mattina scorro la sua rubrica sulla prima pagina de La
Stampa: sempre con interesse, talvolta con condivisione. Anche per questo mi sono sorpreso della
intransigenza sbrigativa, da ésprit fort ottocentesco, nel suo commento al bacio alla teca di San
Gennaro dato (come da tradizione secolare) anche dal nuovo sindaco di Napoli, il dipietrista De
Magistris. Tralascio le considerazioni politiche, interessato solo a queste righe: «Non pretendevamo
che (il sindaco) disertasse la cerimonia del finto miracolo, per il quale tutto il mondo ci spernacchia.
Sarebbe bastato il silenzio. E un po' di dignità». Ne conclude, Gramellini, che anche il De Magistris
avrebbe ceduto a uno dei mali antichi della religiosità italiana: «la superstizione».
Sono sorpreso, dicevo, da questo radicalismo senza appello, da libellista d'antan. Sorpreso ma non
scandalizzato, vista la diffidenza che io stesso ho nutrito a lungo verso questo evento e verso ciò
che, mi dicevano, lo circondava. Sia innanzitutto chiaro che la fede non dipende né da questo
sangue, né dal telo della Sindone, né dal roteare del sole nel cielo di Fatima, né da altri fenomeni del
genere. Il discrimine tra fede e incredulità passa (parola di San Paolo) dalla accettazione o dal
rifiuto di quel solo Miracolo su cui tutto l'edificio cristiano si regge: passione, morte e infine
risurrezione del crocifisso Gesù di Nazareth. Cose come questa di cui parliamo non sono che
«segni» che confermano e sostengono la fede, ma che nessun cattolico è obbligato ad accettare. La
Chiesa si limita a riconoscere la legittimità del culto e a sorvegliare che resti nella ortodossia, senza
deragliare verso quella superstizione di cui parla Gramellini. Questo precisato, vorrei dire che
lavorando, anni fa, a una «inchiesta sul cristianesimo», volli vederci un po' chiaro anche sul «segno
di San Gennaro». Vista la mia richiesta, l'allora arcivescovo di Napoli, cardinal Corrado Ursi, mi
accolse generosamente, invitandomi addirittura a stare al suo fianco per tutta la mattinata del 19
settembre, il più solenne tra i tre giorni in cui si verifica (ma non sempre, come si sa) lo
«scioglimento». Fui così unito ai membri, tutti laici, della «Deputazione di San Gennaro», in abito
da cerimonia con una fascia rossa sul petto. Con essi constatai l'apertura, fatta dall'arcivescovo con
una serie di doppie chiavi del deposito blindato che contiene le due ampolle. Gli archeologi hanno
stabilito che risalgono al tardo impero romano (Gennaro fu martirizzato, stando alla Tradizione, nel
305, a Pozzuoli) e l'una è più grande, panciuta, piena per circa due terzi, mentre l'altra, più piccola,
contiene soltanto un piccolo grumo di sangue. Sangue, diciamo: come è stato più volte confermato
dalle analisi spettrografiche eseguite da docenti di varie università anche straniere, non soltanto di
quella partenopea. Alcuni critici, come quelli del Cicap, hanno negato che sia sangue, parlando di
un composto chimico, ma sono stati smentiti da altri critici che credono sia davvero fluido umano,
anche se «animato» non da prodigio bensì da fenomeni naturali. L'autorità ecclesiastica napoletana
non si è trincerata dietro la Tradizione ma si è messa a disposizione per ogni possibile analisi, ma
queste sono rese sinora impossibili, perché le due ampolle sono sigillate con un mastice durissimo
di formula sconosciuta e che, stando agli esperti, è vecchio di 17 secoli, coevo cioè al vetro dei
recipienti. Sarebbe possibile, pare, praticare un piccolissimo foro con un laser quando il sangue è
sciolto, per trarne una minigoccia. Ma nessuno specialista, finora, ha voluto accollarsi il rischio di
una possibile rottura delle ampolle: evento traumatico che forse provocherebbe in città, addirittura,
moti popolari.
Ma va subito precisato: se sto alla mia esperienza, l'amore e la devozione dei napoletani (quelli,
almeno, attuali) non hanno nulla a che fare con tante descrizioni pittoresche. Al seguito del
cardinale che teneva sul petto la teca, percorsi l'intera navata del duomo e poi, sull'altare, potei
osservare tutta quanta la folla durante l'azione liturgica. Almeno cinquemila persone, la capienza
massima della cattedrale, ma, guardando i volti, vidi sguardi partecipi eppure non udii alcun grido,
salvo una voce isolata di donna con un: «Viva San Gennaro! Viva Gesù! Viva Maria!». E siccome
ripeteva l'invocazione, la vidi accompagnata fuori, gentilmente, da un addetto all'ordine.
Percorrendo la navata, e poi dall'altare, scorsi molti piangere, ma in silenzio, con pudore. E le
«parenti di San Gennaro», quelle vecchine che inciterebbero il santo a «fare 'o miracolo»? Tutto
sparito, a quanto constatai. Anzi, stando agli studiosi napoletani che interpellai, buona parte del
folklore sarebbe stato esagerato da letterati fantasiosi alla Dumas o da libellisti faziosi. Sta di fatto
che la sola cosa clamorosa che constatai fu l'applauso irrefrenabile di diecimila mani quando il capo
della Deputazione sventolò un fazzoletto bianco per annunciare al popolo che il «segno di San
Gennaro» ancora una volta era stato donato a Napoli. Il cardinal Ursi fece un lungo giro del
presbiterio, mostrando le ampolle. Quando giunse davanti a me, mi accorsi che il sangue era
davvero liquefatto, tanto che l'arcivescovo poteva agevolmente smuoverlo contro le pareti di vetro e
notai che sulla superficie erano comparse quelle bollicine che fanno dire che il sangue «bolle».
Mentre continuava il boato degli applausi dei cinquemila presenti, è con emozione, lo confesso, che
allungai una mano per sfiorare la teca dove ribolliva ciò che il cardinale aveva appena definito «un
preannuncio della risurrezione di ogni uomo».
Non c'è spazio, qui, anche solo per una sintesi delle ragioni scientifiche che portano molti sapienti,
anche agnostici o atei, ad ammettere che non è lecito liberarsi, con sufficienza, del «dossier San
Gennaro». Se Gramellini, e altri con lui, approfondissero il problema, forse non parlerebbero di
«falso miracolo» ma, pur non ammettendo un intervento soprannaturale, resterebbero pensosi
davanti a un enigma. Che non è affatto sciolto, come molti pensano o annunciano. Va ripetuto: non
è necessario credere in quel sangue per dirsi cristiano e cattolico, ma ci sono molti più motivi di
quanto credano gli ignari per giustificare la devozione dei napoletani. E non di loro soltanto.
Fonte: V. Messori in "Corriere della Sera" del 21 settembre 2011