sabato 11 luglio 2015

XV Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)



Gesù con i Dodici - RV
Nel Vangelo della 15.ma Domenica del Tempo ordinario, Gesù entra nel pieno della sua missione, unendo a essa i Dodici: li invia a due a due nelle città e villaggi davanti a sé, a preparare la sua venuta. Questa missione, questo invio è proprio di ogni cristiano: ci viene dato col battesimo:
“Prese a mandarli”.
Gesù ha dato inizio alla sua missione ed ora coinvolge in essa i suoi discepoli: li invia a due a due, con nient’altro che la sua parola: quanto amore! quanta passione nel cuore di Cristo perché la buona notizia del Regno di Dio raggiunga tutti. Quanta urgenza che questo amore scuota la Chiesa dei nostri giorni. Papa Francesco sta animando la Chiesa perché si rimetta con coraggio in missione. Questa missione appartiene al cuore del battesimo. Essere cristiani significa assumerla, lasciarci scuotere dallo zelo del Vangelo e per il Vangelo. Il tesoro che il cristiano porta con sé: l’annuncio della vittoria sopra la morte, la vita eterna, è così grande e così urgente che nulla può trattenerci. Inoltre, quanta libertà in questo gesto così semplice del Signore di inviare i discepoli a due a due! Specie se lo confrontiamo con l’appesantimento di tanti piani pastorali, di tante logiche di uffici diocesani e parrocchiali. Quanta libertà di cuore in questo non portare nulla con sé: “né pane, né sacca, né denaro nella cintura”, in questo farsi piccolo tra i piccoli e povero tra i poveri. Il denaro, per quanto necessario, sporca sempre non solo le mani, ma soprattutto appesantisce il cuore, toglie zelo all’apostolo. Il Vangelo ha il potere di riempire il cuore e di mettere le ali ai piedi degli apostoli, di ieri come di oggi: “E partiti proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano”. Che la celebrazione dell’Eucaristia sciolga oggi le nostre catene e ci dia questa passione per il Vangelo. (Pasotti)
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Mc 6,7-13

7Chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. 8E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient'altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; 9ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. 10E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. 11Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». 12Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, 13scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.

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E' Lui che bussa, proprio ora

Commento al Vangelo della XV Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) -- 12 luglio 2015


Coraggio, oggi si torna a casa! Arrivano gli ambasciatori del Paradiso perduto, gli apostoli che Gesù invia per riscattarci dall’esilio. Sono gli angeli che aspettavamo da tanto, perché non la facciamo più in mezzo a questa situazione, siamo sfiniti e affamati di pace e felicità come il figlio prodigo. Stai dubitando dell'amore di Dio, vero?
Non hai argomenti da opporre all'evidenza del male. Questa ingiustizia non la puoi mandar giù e ti opponi ad essa con un altro male, come accade in questi giorni sotto gli occhi di tutti. Quel collega ti ha chiuso in una gabbia di calunnie bruciando la tua reputazione davanti a tutti? Eccoti pronto a uccidere la sua, senza pietà. Non c'è niente da fare, lontani dal Cielo e da Dio c'è solo il peccato, e tutto odora di morte.
Ma coraggio, gli apostoli ci portano oggi l'annuncio che spalanca la pietra del sepolcro dove è imprigionata la nostra vita: "Gesù non è qui, è risorto!", e con Lui possiamo uscire anche noi dal peccato. Non aver paura, al di là della soglia c'è il Paradiso, la gioia e la pace di chi ama e perdona perché si sente a casa, e non ha più nulla da temere. Guarda bene gli apostoli, in loro che erano dei poveracci come te risplendono le primizie del Paradiso. 
L'annuncio del Vangelo, infatti, plana sull'incontenibile nostalgia del Paradiso perduto perché giunge sempre dove il sudore della fronte e i dolori del parto si sono presi le nostre vite, e vi depone un seme di libertà. Per questo il Signore invia i Dodici ad annunciare la conversione, il ritorno alla Verità. 
Li manda a due a due, uniti come Adamo ed Eva prima della disobbedienza che li ha messi l'uno contro l'altro, ad annunciare che Gesù ha vinto il peccato che separa il marito dalla moglie, i genitori dai figli, l'uomo dall'uomo; due apostoli diversi l’uno dall’altro, forse umanamente incompatibili e senza interessi comuni, ma che passo dopo passo imparano ad amarsi in Cristo, testimoniando che, nonostante le diversità, “non è bene che l’uomo sia solo”, e che in Cristo è di nuovo possibile amare e vedere compiuta la propria vita.
Li manda "senza nulla", con una sola tunica, l'immagine e la somiglianza con il Creatore che li riveste, mai doppi e falsi, mai ipocriti, ma trasparenti e autentici, altro che vesti da cambiare a seconda dell'ambiente, senza malizia e intenzioni nascoste perché nudi e innocenti come Adamo ed Eva prima di tagliare con Dio. 
Li manda liberi, senza "né pane, né bisaccia, né denaro nella borsa", come Adamo ed Eva prima di mangiare il frutto della disobbedienza, abbandonati all'amore del Padre che ogni giorno provvede ai suoi figli proprio attraverso il cibo della sua volontà.
Li manda "conferendo loro il potere sugli spiriti immondi", come aveva fatto con Adamo ed Eva ai quali aveva dato il potere di "camminare anche sui serpenti". Li manda come messaggeri del Paradiso, immagine e somiglianza di Colui che li invia, primizie che recano il profumo del nuovo Adamo, segni credibili della vita pensata da Dio per ogni uomo, l'intimità semplice e beata radicata nell'obbedienza dell'amore.
Accogliamo dunque la Chiesa che ci viene a "chiamare" con i suoi apostoli: possiamo specchiarci in loro, perché sono l’immagine del cittadino celeste che Dio vuol plasmare in ciascuno di noi. Giungono oggi i pastori e i catechisti, i genitori e i fratelli che, inermi dinanzi alla nostra libertà, bussano alle nostre vite per consegnarci le chiavi della casa da cui siamo stati cacciati, dalla quale siamo scappati.
Le loro parole, i loro segni, la loro stessa figura ci annunciano il destino per il quale siamo stati creati. Giungono come angeli, i cherubini che avevano chiuso e difeso le porte del Paradiso ci recano oggi l'annuncio che attendiamo da sempre: "Non è qui, è risorto!". Sulla soglia della tomba gli angeli ci testimoniano il prodigio capace di cambiare la nostra vita: Cristo è risorto, la sua obbedienza ha distrutto il male ed il maligno, ispiratore dell'inganno che ci ha fatto perdere il Paradiso. E’ rovesciata la pietra che ci ha precluso il passo all'amore, al perdono, all'offerta della vita, all'obbedienza; la pietra del sepolcro non tornerà a rapirci la vita, per sempre. 
Certo siamo liberi, e possiamo rifiutare l'annuncio, per rimanere polvere da scuotere da sotto i sandali, come facevano i giudei rientrando da un viaggio in territorio pagano, per significare di non avere niente a che fare con il mondo "impuro" dei gentili. 
La conseguenza di chi si chiude all'annuncio del Vangelo, infatti, è proprio quella di restare fuori dal Paradiso, dal Regno di Dio che si è avvicinato attraverso gli apostoli, e continuare la misera vita offerta dal mondo schiavo della corruzione e della morte.
Ma no, ascolta la predicazione che "scaccia i demoni" dal cuore. Offri la tua schiavitù e i tuoi peccati al potere di Cristo che è affidato alla Chiesa; confessa al Signore il male che hai nel cuore, sarai sanato "dall'olio" del suo Spirito, soffio di Vita eterna che farà nascere in te un'attitudine nuova verso la storia e le persone, la stessa vita degli apostoli in te, inviato a tutti come ambasciatore del Paradiso ritrovato.
Cristo risorto, infatti, è il Nuovo Adamo che cerca proprio te, la sua Eva perduta, per abbracciarla e riaccompagnarla nell'intimità. E' Lui che bussa, proprio ora. Corri, vai ad aprirgli, vedrai meraviglie insperate.

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Commento di Enzo Bianchi
Quando un profeta è rifiutato a casa sua, dai suoi, dalla sua gente (cf. Mc 6,4), può solo andarsene e cercare altri uditori. Hanno fatto così i profeti dell’Antico Testamento, andando addirittura a soggiornare tra i gojim, le genti non ebree, e rivolgendo loro la parola e l’azione portatrice di bene (si pensi solo a Elia e ad Eliseo; cf., rispettivamente, 1Re 17 e 2Re 5). Lo stesso Gesù non può fare altro, perché comunque la sua missione di “essere voce” della parola di Dio deve essere adempiuta puntualmente, secondo la vocazione ricevuta.
Rifiutato e contestato dai suoi a Nazaret, Gesù percorre i villaggi d’intorno per predicare la buona notizia (cf. Mc 6,6) in modo instancabile, ma a un certo momento decide di allargare questo suo “servizio della parola” anche ai Dodici, alla sua comunità. Per quali motivi? Certamente per coinvolgerli nella sua missione, in modo che siano capaci un giorno di proseguirla da soli; ma anche per prendersi un po’ di tempo in cui non operare, restare in disparte e così poter pensare e rileggere ciò che egli desta con il suo parlare e il suo operare. Per questo li invia in missione nei villaggi della Galilea, con il compito di annunciare il messaggio da lui inaugurato: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete alla buona notizia” (Mc 1,15). Li manda “a due a due”, perché neppure la missione può essere individuale, ma deve sempre essere svolta all’insegna della condivisione, della corresponsabilità, dell’aiuto e della vigilanza reciproca. In particolare, per gli inviati essere in due significa affidarsi alla dimensione della condivisione di tutto ciò che si fa e si ha, perché si condivide tutto ciò che si è in riferimento all’unico mandante, il Signore Gesù Cristo.
Ma se la regola della missione è la condivisione, la comunione visibile, da sperimentarsi e manifestare nel quotidiano, lo stile della missione è molto esigente. Il messaggio, infatti, non è isolato da chi lo dona e dal suo modo di vivere. Come d’altronde sarebbe possibile trasmettere un messaggio, una parola che non è vissuta da chi la pronuncia? Quale autorevolezza avrebbe una parola detta e predicata, anche con abile arte oratoria, se non trovasse coerenza di vita in chi la proclama? L’autorevolezza di un profeta – riconosciuta a Gesù fin dagli inizi della sua vita pubblica (cf. Mc 1,22.27) – dipende dalla sua coerenza tra ciò che dice e ciò che vive: solo così è affidabile, altrimenti proprio chi predica diventa un inciampo, uno scandalo per l’ascoltatore. In questo caso sarebbe meglio tacere e di-missionare, cioè dimettersi dalla missione!
Per queste ragioni Gesù non si attarda sul contenuto del messaggio da predicare, non dà raccomandazioni di tipo dottrinale, mentre entra addirittura nei dettagli sul “come” devono mostrarsi gli inviati e gli annunciatori. Per Gesù la testimonianza della vita è più decisiva della testimonianza della parola, anche se questo non l’abbiamo ancora capito. In questi ultimi trent’anni, poi, abbiamo parlato e parlato di evangelizzazione, di nuova evangelizzazione, di missione – e non c’è convegno ecclesiale che non tratti di queste tematiche! –, mentre abbiamo dedicato poca attenzione al “come” si vive ciò che si predica. Sempre impegnati a cercare come si predica, fermandoci allo stile, al linguaggio, a elementi di comunicazione (quanti libri, articoli e riviste “pastorali” moltiplicati inutilmente!), sempre impegnati a cercare nuovi contenuti della parola, abbiamo trascurato la testimonianza della vita: e i risultati sono leggibili, sotto il segno della sterilità!
Attenzione però: Gesù non dà delle direttive perché le riproduciamo tali e quali. Prova ne sia il fatto che nei vangeli sinottici queste direttive mutano a seconda del luogo geografico, del clima e della cultura in cui i missionari sono immersi. Nessun idealismo romantico, nessun pauperismo leggendario, già troppo applicato al “somigliantissimo a Cristo” Francesco d’Assisi, ma uno stile che permetta di guardare non tanto a se stessi come a modelli che devono sfilare e attirare l’attenzione, bensì che facciano segno all’unico Signore, Gesù. È uno stile che deve esprimere innanzitutto decentramento: non dà testimonianza sul missionario, sulla sua vita, sul suo operare, sulla sua comunità, sul suo movimento, ma testimonia la gratuità del Vangelo, a gloria di Cristo. Uno stile che non si fida dei mezzi che possiede, ma anzi li riduce al minimo, affinché questi, con la loro forza, non oscurino la forza della parola del “Vangelo, potenza di Dio” (Rm 1,16). Uno stile che fa intravedere la volontà di spogliazione, di una missione alleggerita di troppi pesi e bagagli inutili, che vive di povertà come capacità di condivisione di ciò che si ha e di ciò che viene donato, in modo che non appaia come accumulo, riserva previdente, sicurezza. Uno stile che non confida nella propria parola seducente, che attrae e meraviglia ma non converte nessuno, perché soddisfa gli orecchi ma non penetra fino al cuore. Uno stile che accetta quella che forse è la prova più grande per il missionario: il fallimento. Tanta fatica, tanti sforzi, tanta dedizione, tanta convinzione,… e alla fine nulla: il fallimento. È ciò che Gesù ha provato nell’ora della passione: solo, abbandonato, senza più i discepoli e senza nessuno che si prendesse cura di lui. E se la Parola di Dio venuta nel mondo ha conosciuto rifiuto, opposizione e anche fallimento (cf. Gv 1,11), la parola del missionario predicatore potrebbe avere un esito diverso?
Proprio per questa consapevolezza, l’inviato sa che qua e là non sarà accettato ma respinto, così come altrove potrà avere successo. Non c’è da temere; rifiutati ci si rivolge ad altri, si va altrove e si scuote la polvere dai piedi per dire: “Ce ne andiamo, ma non vogliamo neanche portarci via la polvere che si è attaccata ai nostri piedi. Non vogliamo proprio nulla!”. E così si continua a predicare qua e là, fino ai confini del mondo, facendo sì che la chiesa nasca e rinasca sempre. E questo avviene se i cristiani sanno vivere, non se sanno predicare… Ciò che è determinante, oggi più che mai, non è un discorso, anche ben fatto, su Dio, che non interessa più a nessuno; non è la costruzione di una dottrina raffinata ed espressa ragionevolmente; non è uno sforzarsi di rendere cristiana la cultura, come molti si sono illusi.
No, ciò che è determinante è vivere, semplicemente vivere con lo stile di Gesù: semplicemente essere uomini come Gesù è stato uomo tra di noi, dando fiducia e mettendo speranza, aiutando gli uomini e le donne a camminare, a rialzarsi, a guarire dai loro mali, chiedendo a tutti di comprendere che solo l’amore salva. Così Gesù toglieva terreno al demonio (“cacciava i demoni”) e faceva regnare Dio su uomini e donne che grazie a lui conoscevano la straordinaria forza del ricominciare, del vivere e vivere ancora… Noi cristiani viviamo questo Vangelo oppure lo proclamiamo a parole senza renderci conto della nostra schizofrenia tra mente e vita? La vita cristiana è una vita umana conforme alla vita di Gesù, non una dottrina, non un’idea, non una spiritualità terapeutica, non una religione finalizzata alla cura del proprio io!