lunedì 28 aprile 2014

Così si fa


c
di Costanza Miriano
Va bene, lo confesso, se non fosse stato per la mia amica, io in piazza per la canonizzazione dei due Papi non ci sarei andata. Non mi sarei alzata alle quattro, non sarei arrivata in via della Conciliazione alle cinque, non avrei percorso tunnel e strade e marciapiedi intasati, non mi sarei lasciata pressare da orde di persone incontrollabili e sinceramente anche un po’ inquietanti (e se ora, esattamente ora, dovessi andare di corsa da uno dei miei figli che è caduto e ha battuto la testa?), non avrei fatto file spiaccicata contro transenne, non avrei rischiato un malore come tanti. Sarei rimasta a casa con i miei figli, a fare la mamma e la moglie, certa che non sarei stata meno fedele alla Chiesa né meno devota al Papato se fossi mancata.
Ma la devo ringraziare, la mia amica, per una serie di motivi. Intanto per la lezione che mi ha dato lei, che ha sistemato a casa tre figlie, si è caricata quattro borse (hai presente viaggiare con un bambino di nove mesi?), un passeggino, il suddetto bambino, che ha dei problemi di salute, ha preso un treno, è venuta a (non) dormire a casa mia e si è fatta una faticata incredibile lunga nove ore in piazza solo per dire con la sua presenza e il suo consegnarsi… beh, per dire cosa lo sa lei, io so che la mia amica ha una gran fede, se non si è fermata al primo ostacolo, e neanche al secondo o al terzo, ma ha scoperchiato il tetto per calare il lettuccio con il suo bambino.
E ieri ho visto davvero centinaia di migliaia di tettucci scoperchiati, da persone – quanti milioni fossero non l’ho capito – vecchi, bambini, sani, malati, giovani che hanno passato la notte in bianco, dormito per terra, sentito freddo e fame, fatto lunghe file senza sapere se e dove sarebbero arrivati, dopo avere pagato e organizzato lunghi viaggi. Mi sono chiesta perché lo facessero, io che abito a cinque chilometri dalla Basilica di San Pietro, io che non sarei andata se non per accompagnare un’amica, e che peraltro avevo un pass, e che a un certo punto comunque sono tornata a casa.
Non sono mai stata una da manifestazioni di piazza, sono sempre cauta con l’emotività, ho sempre pensato che fosse meglio andare davanti al Santissimo ad adorarlo, piuttosto che in piazza tra la folla, dove magari invece è difficile concentrarsi, pregare, stare alla presenza di Dio. Eppure. Eppure l’emotività non può essere tutto, ma noi siamo anche questo. Abbiamo bisogno, noi uomini fatti anche di corpo, abbiamo bisogno di tutto, di segni, di gesti concreti, di presenza, di esserci.
Ieri ho visto la fede vera. Gente, anzi, non gente, fratelli di una stessa famiglia, la Chiesa, disposta a soffrire, stancarsi, spendere, sacrificarsi, pur di essere presente con il corpo e il cuore alla celebrazione. Ognuno con la sua domanda da fare, con il suo grazie da dire, con il suo nodo da sciogliere. Essere lì per tante persone ha significato dire “sono disposto a giocarmi tutto perché tu, Signore, sia veramente il Signore della mia vita. Di questa mia giornata, di questa mia notte in bianco, della sete e della fame e del sonno”.
Questi fratelli mi hanno dato davvero una lezione. E tra di loro prima di tutto la mia amica pellegrina da lontano, e l’altra meravigliosa amica che si è fatta carico di lei, che le ha organizzato il viaggio e che l’ha riportata sana e salva a casa. Tutto senza neanche conoscerla, solo per amore di Cristo. Perché così si fa nella Chiesa.

*

L’amico che tutte vorremmo

di Costanza Miriano
Quando Karol Wojtyla diventò Papa io avevo sette anni, ma l’età della ragione era di là da venire. Prima, prima che arrivasse la ragione, le balle sulla parità io e le mie coetanee ce le siamo bevute tutte. “Uomini e donne sono uguali, bisogna competere sugli stessi campi, niente ci è precluso, e anche se un giorno diventeremo mamme non saremo certo tenute a scegliere, e che diamine”.
Ma non è tutta colpa mia. Che ne sapevo della vita, di come siamo fatti, di cosa davvero significhi il fatto che “maschio e femmina li creò, a sua immagine”? A mio discapito, signori della corte, vorrei ricordare che a una adolescente degli anni ’80 bastava accendere Videomusic (ve la ricordate?) per vedere maschi alla David Bowie con una messa in piega che neanche mia zia, femmine androgine o all’altro estremo aggressivamente sessuate come Madonna. Spero che la corte la ritenga un’attenuante per quei miei guanti di pizzo nero che rimarranno negli annali dei capi di abbigliamento più inspiegabili della fine del secolo scorso.
Erano anni in cui noi donne pensavamo di saperla lunga. Noi, o meglio le nostre sorelle maggiori avevano rovesciato il maschilismo più becero ed egoista, conquistandoci il diritto al voto (le nostre nonne) e altri importanti passi in avanti. Nel rovesciare la logica del dominio, però, le donne l’hanno fatta propria, per quanto capovolta. A ben vedere, l’emancipazione femminile non è stata che un’applicazione della logica maschile del dominio, dall’altra parte. Io non voglio più esserti assoggettata, ma invece di esserti un’alleata, un aiuto, una compagnia leale e di uguale dignità, voglio finalmente imporre la mia voce fino a coprire la tua.
Ma di voci veramente diverse, in quegli anni, ne rimase una, alta, forte, sola. In una Chiesa quasi schiacciata, spaventata, un giovane vescovo divenne Papa, ed esordì nel suo luminoso pontificato invitando tutto il mondo a non avere paura, perché Cristo è il centro del cosmo e della storia. Lui, il Papa, per primo non ha avuto paura di proporre un modello esigente e alto alle donne e agli uomini. Non ha fatto sconti sulla Evangelium vitae, non ha aperto le porte al mondo sulla contraccezione (tanto meno sull’aborto, è ovvio), sul sesso fuori dal matrimonio. Non è sceso sul piano delle femministe, delle loro rivendicazioni, ma ha invitato loro, le donne, a salire più in alto, a non deprezzarsi, a non svendersi per così poco: una sessualità libera in cambio di una sterminata solitudine, dell’infecondità, della perdita di identità, dell’infelicità.
La Mulieris Dignitatem l’ho ricevuta nel 1989 per Natale. Non ricordo chi mi abbia fatto questo caritatevole dono, forse la mia amica Daniela. A quel punto avevo 19 anni, e della lettera apostolica mi innamorai, letteralmente. Come resistere a quella chiamata a un amore alto, sublime, tra l’uomo e la donna, figura dell’amore trinitario? Dio ha qualità anche femminili, perché la sua immagine è nell’uomo E ANCHE nella donna. Maschio e femmina, a sua immagine. Una scintilla di Dio è in entrambi, ma “la donna non può tendere ad appropriarsi delle caratteristiche maschili, contro la sua propria originalità femminile”.
Attraverso le donne che Gesù incontra nel vangelo, e ancor più attraverso Maria, Wojtyla parla dello specifico femminile. E qui, sulla maternità, scrive parole commoventi sullo speciale debito che il mondo ha verso la donna, per la sua disposizione personale al dono. La donna si ritrova dandosi, “mediante un dono sincero di sé”, dice il Papa, mostrando una conoscenza acutissima della mente femminile, che ha “una speciale comunione col mistero della vita”. Per questa speciale chiamata a dare amore “la donna rappresenta un valore particolare come persona umana”.
Quante sofferenze avrebbe potuto risparmiare a tante, tantissime donne che conosco la lettura e l’accoglienza della Mulieris Dignitatem. Purtroppo se ne propongo la lettura alle mie amiche, a ancor più se gliela avessi proposta quando avevamo 19 anni, me l’avrebbero tirata in testa (fortuna che è leggera).
Gli stessi concetti sei anni dopo animano la Lettera alle donne, scritta per la conferenza di Pechino: la donna, come dice la Genesi, è un aiuto dell’uomo. Un aiuto, scrive il Papa, non unilaterale ma reciproco.
Si vede proprio che Giovanni Paolo II sul mistero del matrimonio ci si è rotto la testa, e già da quando, giovane sacerdote, seguiva gruppi di coppie. Allora la teologia considerava la vocazione alla vita coniugale “non un ostacolo” alla perfezione. Invece la via che tracciava lui per le sue famiglie era la via della santità più alta. Non dire ti amo, diceva ai fidanzati, ma partecipo con te dell’amore di Dio, chiarendo subito che nel matrimonio cristiano gli sposi sono tre, lui, lei e Dio. E’ lui l’unico che può indurci a dire una cosa così rischiosa e impensabile come “finché morte non ci separi”, e anche ad avere almeno una vaga speranza di mantenere fede alla parola data.
E grazie a questa fedeltà, allo starci, al rimanere sulla croce del qui e ora (che davvero può essere una croce) nella famiglia, sotto gli occhi di Dio, si rinnova la faccia della terra. Un programmino niente male.
Wojtyla ha avuto anche una carissima amica, una donna, Wanda Poltawska, come lei ha raccontato nel Diario di un’amicizia Lei era una donna sconvolta dall’esperienza dei lager. Wojtyla, da giovane sacerdote incontrato “per caso” in un confessionale, la aiutò a dire ancora una volta sì alla vita, alla sua vocazione di donna e poi di sposa. Con lei, che lo chiamava fratello, tante volte si confrontò. Lei, che reclusa in un lager aveva visto bambini appena partoriti buttati vivi nei forni, e che faticò a liberarsi da quell’orrore, ha dedicato tutta la sua vita a difendere la famiglia e la vita nascente, e quest’impegno i due amici lo condivisero combattendo strenuamente, lei come medico psichiatra, dal suo consultorio in Polonia, lui dalla cattedra di Roma. Ma anche da Papa trovava il tempo per stare vicino alla sua amica carissima, tanto segnata dalla crudeltà nazista, leggendo le sue meditazioni spirituali, correggendole, annotandole a margine, facendole da padre spirituale, mostrando di conoscere la complicata mente femminile come pochi uomini. Io personalmente, che gli uomini non li capisco e avrei bisogno di un traduttore per farmi capire da loro, un amico così lo avrei voluto proprio ma proprio tanto.