Il sinodo dei vescovi nel pensiero di Joseph Ratzinger.
Di seguito il testo dell’intervento che il cardinale prefetto della Congregazione per la dottrina della fede tiene nel pomeriggio di martedì 29 aprile a Roma, all’Istituto patristico Augustinianum, per la presentazione del libro Joseph Ratzinger Benedetto XVI e il Sinodo dei Vescovi (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2014, pagine 549, euro 34) curato dall’arcivescovo Nikola Eterović, già segretario generale del Sinodo dei Vescovi e oggi nunzio apostolico a Berlino. Il volume riunisce tutti gli interventi del cardinale Ratzinger e di Benedetto XVI nel corso di venti assemblee sinodali (1977-2012).
*(Gerhard Ludwing Muller) L’insegnamento di Benedetto XVI costituisce un prezioso patrimonio per la Chiesa, che non può essere archiviato con la fine del suo Pontificato.
Si tratta di una ricchezza dottrinale, la quale, se da una parte è già universalmente conosciuta e stimata, dall’altra attende ancora di essere scoperta nella sua pienezza e profondità. Tale dottrina, infatti, nasce da un’intelligenza e da un cuore che sono protesi a valorizzare e servire la vita della Chiesa, guidati da un grande amore per la verità.
Come più volte ci ha ricordato Papa Francesco, sempre la vita precede la dottrina: prius vita quam doctrina, vita enim ducit ad scientiam veritatis (Tommaso d’Aquino, Commentarius in Matthaeum, V). E tuttavia la dottrina, lungi dall’opporsi alla vita e alla prassi, ha esattamente lo scopo di custodire i contenuti e l’identità che la vita ci dona, per evitare che ogni realtà decisiva per l’uomo anneghi nel mare dell’indistinto e del provvisorio, o sia strumentalizzata dalla mera utilità o dagli interessi di parte.
La verità, infatti, che — alla fine — è Gesù Cristo (cfr. Giovanni 14, 6), possiede un carattere vitale che mira ad avvincere la libertà umana e a offrirle strade sicure, per impedirle di disimpegnarsi o di ridursi a utensile per strategie non all’altezza dei suoi alti ideali.
Il libro dell’arcivescovo Nikola Eterović, a sua volta, offre alla nostra riflessione l’occasione di concentrarsi su quel prezioso strumento che è il sinodo dei vescovi. Come egli ci ricorda nell’introduzione generale al volume, Benedetto XVI ha assimilato tale organismo a un «dinamismo permanente» con cui si può rinnovare nella Chiesa la grazia della Pentecoste. Questa constatazione — commenta Eterović — nasce dalla stessa esperienza vissuta da Joseph Ratzinger nella sua partecipazione ai lavori del sinodo dei vescovi.
La Pentecoste è infatti il luogo e l’orizzonte permanente della genesi ecclesiale, in cui si evidenziano i suoi tratti costitutivi. Ad esempio, proprio a Pentecoste, con facilità si può cogliere la natura apostolica della Chiesa: la Chiesa nasce a Pentecoste come collegio degli apostoli radunato in unità intorno a Pietro e a Maria. Proprio a Pentecoste la Chiesa parla già tutte le lingue e si può sorprendere la sua natura peculiarmente universale e cattolica, che precede ogni particolarismo (cfr. Congregazione per la dottrina della fede, Communionis notio, n. 9). Proprio a Pentecoste si può cogliere poi la perenne origine “dall’alto” della Chiesa, che è garanzia della oggettiva santità, della vita nuova che essa veicola. Quest’ultimo fatto ci rivela anche che la compagine ecclesiale, proprio perché la sua origine è teologica, non è una realtà che possiamo organizzare o manipolare a nostro piacimento, come si potrebbe fare con un qualsiasi organismo di origine umana.
Fin dalla Pentecoste, dunque, la Chiesa emerge con tutte le sue note peculiari che risplendono nella loro originaria pienezza e bellezza: unità, apostolicità, cattolicità e santità. E a motivo di questa sua originaria e inalienabile identità, la Chiesa ha una sua propria costituzione e un suo scopo, stabili e permanenti, che non si dona da sé. È per questo che tutti gli strumenti di cui essa stessa si può pure dotare, per realizzare quegli scopi che le indica il suo Signore e fondatore, sono tanto pertinenti ed adeguati a essa, quanto sono in grado di manifestare e attuare fedelmente i suoi elementi costitutivi, senza dimenticarne alcuno.
Se è vero ciò, si comprende perché, a differenza di altre istituzioni politiche o sociali, ciò che riguarda il governo della Chiesa non attiene principalmente a una tecnica di gestione o di distribuzione del potere, come ci ricorda anche il cardinale Ratzinger nel suo intervento all’Assemblea generale straordinaria del sinodo nel 1985 (cfr. pp. 119ss).
A volte, a uno sguardo superficiale, una prassi di governo plasmata secondo modelli essenzialmente politici sembrerebbe facilitare di molto le cose, e chi è avvezzo all’uso del potere, tende spesso a inclinare in questa direzione, magari inconsapevolmente. In tal modo, tuttavia, non saremmo fedeli alla natura stessa di ciò che Dio ha voluto realizzare con la Chiesa e alla sua origine “dall’alto”. Questo fatto richiede allora di usare una estrema cautela nel modulare ogni istituzione ecclesiale.
A questo livello, l’immagine di Cristo Buon Pastore è insuperabile. Governare nella Chiesa è anzitutto esercitare il potere di accogliere e di offrire agli uomini la vita buona che viene da Dio e di custodire con ogni mezzo questa vita: è il compito di “pascere il gregge”.
«Gesù è il Pastore Supremo della Chiesa ed è nel suo nome e mandato che noi abbiamo la cura di custodire il suo gregge con piena disponibilità, fino al dono totale delle nostre esistenze», richiama Benedetto XVI nel suo Discorso ai membri dell’undicesimo Consiglio ordinario del sinodo dei vescovi (cfr. p. 517).
A differenza dei normali pastori, Gesù Cristo non vive sulle spalle del gregge e non si nutre di esso, ma egli stesso «ci nutre con la sua carne e il suo sangue» (p. 516). È perciò all’immagine di Cristo pastore che il vescovo deve conformarsi, configurando nella sua esistenza ecclesiale l’immagine di Cristo stesso. Questa è l’insistenza e la prospettiva del magistero ecclesiale, che possiamo rinvenire tanto nell’insegnamento di Benedetto XVI quanto in quello di Papa Francesco, il quale sottolinea in continuazione questo punto.
Proprio Gesù buon pastore ha generato la Chiesa, come sua sposa e suo corpo, quale ambito della comunione: comunione di Dio con gli uomini e comunione degli uomini fra loro. La communio struttura infatti la Chiesa a ogni livello, ne rappresenta l’origine permanente, il metodo sempre attuale e lo scopo verso cui è sempre attratta, come in un continuo esodo dal suo status quo.
Questa è anche la prospettiva nella quale siamo invitati a guardare al sinodo dei vescovi. Ogni sua strutturazione è chiamata a porsi al servizio di Cristo Buon pastore e della comunione che egli non smette di donare. Ogni attuazione sinodale è dunque chiamata a far risplendere nel mondo l’origine “dall’alto” della Chiesa e tutte le sue note nella loro peculiare identità e bellezza.
Il sinodo, infatti, ha lo scopo precipuo di «favorire una stretta unione fra il Romano Pontefice e i Vescovi», come afferma il codice di diritto canonico al canone 342. Anzi, esso raggiunge il suo scopo quando rende tale unione «più evidente e più efficace» (Regolamento del Sinodo, Proemio). L’unità dell’episcopato è infatti uno dei segni e dei tratti indelebili che costituiscono la Chiesa e ne manifestano la natura comunionale.
Il Papa e i vescovi, cum Petro et sub Petro, rendono attuale con la loro comunione il collegio apostolico. Come Pietro e i dodici costituiscono il volto della Chiesa delle origini, così il Successore di Pietro e il collegio episcopale ne sono l’attuazione di sempre. Recita infatti la costituzione Lumen gentium al n. 22: «Come san Pietro e gli altri apostoli costituiscono, per volontà del Signore, un unico collegio apostolico, similmente il romano Pontefice, successore di Pietro, e i vescovi, successori degli apostoli, sono uniti tra loro». Se da una parte il Papa è «il principio e il fondamento perpetuo e visibile dell’unità di fede e di comunione» (n. 18) per la Chiesa universale, dall’altra i vescovi lo sono per le Chiese particolari (cfr. n. 23).
Il munus episcopale di Pietro e quello degli apostoli sono i due elementi di diritto divino che strutturano la Chiesa e ne sono i cardini irrinunciabili all’interno dell’unità di tutto l’episcopato. Entrambi sono elementi costitutivi dell’ecclesialità e dell’unità ecclesiale, unità ed ecclesialità che, se ne sono prive, ne rimangono inevitabilmente ferite. «Perciò, “quando la Chiesa Cattolica afferma che la funzione del Vescovo di Roma risponde alla volontà di Cristo, essa non separa questa funzione dalla missione affidata all’insieme dei Vescovi, anch’essi “vicari e legati di Cristo” (Lumen gentium, n. 27). Il vescovo di Roma appartiene al loro collegio ed essi sono i suoi fratelli nel ministero. Si deve anche affermare, reciprocamente, che la collegialità episcopale non si contrappone all’esercizio personale del primato né lo deve relativizzare» (Congregazione per la dottrina della fede, Considerazioni. Il primato del successore di Pietro nel mistero della Chiesa, n. 5).
Nello stesso tempo il concilio Vaticano II ci ricorda che «il collegio o corpo episcopale non ha però autorità, se non lo si concepisce unito al Pontefice romano, successore di Pietro, quale suo capo (...). Infatti il Romano Pontefice, in forza del suo Ufficio, cioè di Vicario di Cristo e Pastore di tutta la Chiesa, ha su questa una potestà piena, suprema e universale, che può sempre esercitare liberamente. D’altra parte, l’ordine dei vescovi, il quale succede al collegio degli apostoli nel magistero e nel governo pastorale, anzi, nel quale si perpetua il corpo apostolico, è anch’esso insieme col suo capo il romano Pontefice, e mai senza questo capo, il soggetto di una suprema e piena potestà su tutta la Chiesa sebbene tale potestà non possa essere esercitata se non col consenso del romano Pontefice» (Lumen gentium, 22).
Questa è la comprensione cattolica della Chiesa come hierarchica communio.
A servizio di questa visione comunionale si pone dunque il sinodo dei vescovi. Proprio per il fatto che è chiamato a manifestare sempre meglio «lo spirito di comunione che unisce i Vescovi con il Romano Pontefice e i Vescovi tra di loro» (Regolamento del Sinodo, Proemio), esso non ha una funzione sostitutiva o surrogativa né del Papa né del Collegio dei vescovi. Collegio che non può ritenersi tale se non è compreso nella sua interezza, poiché esso ha la funzione di rendere sempre più efficace, intensa e concreta la communio dei vescovi col Papa e dei vescovi fra loro.
Perciò il sinodo ha una funzione che mira non tanto a frapporsi fra i soggetti che vi sono implicati — Papa e vescovi — fungendo da intermediario o da raccordo indiretto, bensì di avvicinarli e di favorirne più direttamente l’unità.
In tal senso, si comprende perché il sinodo abbia essenzialmente e normalmente una funzione consultiva e non anzitutto deliberativa. I luoghi della deliberazione consistono infatti negli elementi costitutivi dell’unità ecclesiale — nel primato petrino e in quello apostolico — del Papa, del collegio col Papa e dei singoli vescovi.
E ciò sempre nell’ampio orizzonte dell’unità di fede e comunione ecclesiale, alla cui tutela e servizio è posto in primis il ministero del Successore di Pietro. La qual cosa si evidenzia particolarmente a proposito del sinodo: esso «è un evento in cui si rende particolarmente evidente che il Successore di Pietro, nell’adempimento del suo ufficio, è sempre congiunto nella comunione con gli altri Vescovi e con tutta la Chiesa» (Pastores gregis, n. 58).
Questo fatto ci aiuta anche a comprendere perché il sinodo dei vescovi da un lato non può essere assimilato a un «Concilio permanente» — perciò il codice di diritto canonico, al canone 342, dice che «il Sinodo dei vescovi (...) si riunisce in tempi determinati»; né, dall’altro, può sostituire il concilio ecumenico.
E anche perché il Sinodo, per sua natura, non può divenire un organismo stabile di governo della Chiesa, retto da principi simili a quelli che regolano molte democrazie o istituzioni politiche.
A testimonianza di ciò, va rilevato come non la maggioranza, bensì il consensus tendente all’unanimità è infatti in Ecclesia il criterio fondamentale con cui si prendono decisioni tanto nel Sinodo come in ogni altra eminente assemblea ecclesiale. L’unanimità è infatti il criterio ecclesiale di una verifica, svolta alla luce della fede, nonché garanzia e sigillo dell’azione dello Spirito, «anima dell’unica Chiesa di Cristo» (Pastores gregis, n. 58), della bontà e verità delle decisioni ecclesiali. Senza azione e guida dello Spirito non sarebbe possibile accedere alla Verità, verso cui il Paraclito ha sempre una funzione oggettivante in vista di una fedele benché creativa continuità della Tradizione ecclesiale.
Se così non fosse, non la verità e la fede, bensì la politica e le lobbies dominerebbero la genesi delle decisioni ecclesiali e, di conseguenza, anche il vissuto della Chiesa tutta ne sarebbe ferito.
Proprio a tutela di ciò si pongono le esigenze esposte sopra, il cui unico scopo è consentire ancora oggi all’amore di Cristo, di Colui che è Pastor aeternus, di intervenire nella formazione delle più importanti decisioni nella Chiesa, poiché est amoris officium pascere dominicum gregem (Agostino, In Iohannis Evangelium, PL 35, colonna 1967).
Un raggio di questo amore di Gesù per il suo gregge ce lo ha fatto intravedere Eterović, collazionando questi contributi di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI ai diversi sinodi cui ha avuto modo di intervenire, dapprima come vescovo, poi come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e infine come Papa.
L’Amore «è l’essenza stessa di Dio», scrive Benedetto XVI (cfr. p. 516). Questo Amore «interessa ogni uomo e tutto l’uomo» e ci spinge a proclamare «senza timori e reticenze, mai cedendo ai condizionamenti del mondo» (ibidem) la Verità di Cristo e il suo vangelo di salvezza. Verità e Amore sono indissolubili, così come indissolubili sono i munera di Cristo maestro e Cristo pastore. A servizio di questo connubio di Verità e Amore sono posti ogni istituzione, ogni compito e potere, ogni carisma nella Chiesa.
L'Osservatore Romano
Come più volte ci ha ricordato Papa Francesco, sempre la vita precede la dottrina: prius vita quam doctrina, vita enim ducit ad scientiam veritatis (Tommaso d’Aquino, Commentarius in Matthaeum, V). E tuttavia la dottrina, lungi dall’opporsi alla vita e alla prassi, ha esattamente lo scopo di custodire i contenuti e l’identità che la vita ci dona, per evitare che ogni realtà decisiva per l’uomo anneghi nel mare dell’indistinto e del provvisorio, o sia strumentalizzata dalla mera utilità o dagli interessi di parte.
La verità, infatti, che — alla fine — è Gesù Cristo (cfr. Giovanni 14, 6), possiede un carattere vitale che mira ad avvincere la libertà umana e a offrirle strade sicure, per impedirle di disimpegnarsi o di ridursi a utensile per strategie non all’altezza dei suoi alti ideali.
Il libro dell’arcivescovo Nikola Eterović, a sua volta, offre alla nostra riflessione l’occasione di concentrarsi su quel prezioso strumento che è il sinodo dei vescovi. Come egli ci ricorda nell’introduzione generale al volume, Benedetto XVI ha assimilato tale organismo a un «dinamismo permanente» con cui si può rinnovare nella Chiesa la grazia della Pentecoste. Questa constatazione — commenta Eterović — nasce dalla stessa esperienza vissuta da Joseph Ratzinger nella sua partecipazione ai lavori del sinodo dei vescovi.
La Pentecoste è infatti il luogo e l’orizzonte permanente della genesi ecclesiale, in cui si evidenziano i suoi tratti costitutivi. Ad esempio, proprio a Pentecoste, con facilità si può cogliere la natura apostolica della Chiesa: la Chiesa nasce a Pentecoste come collegio degli apostoli radunato in unità intorno a Pietro e a Maria. Proprio a Pentecoste la Chiesa parla già tutte le lingue e si può sorprendere la sua natura peculiarmente universale e cattolica, che precede ogni particolarismo (cfr. Congregazione per la dottrina della fede, Communionis notio, n. 9). Proprio a Pentecoste si può cogliere poi la perenne origine “dall’alto” della Chiesa, che è garanzia della oggettiva santità, della vita nuova che essa veicola. Quest’ultimo fatto ci rivela anche che la compagine ecclesiale, proprio perché la sua origine è teologica, non è una realtà che possiamo organizzare o manipolare a nostro piacimento, come si potrebbe fare con un qualsiasi organismo di origine umana.
Fin dalla Pentecoste, dunque, la Chiesa emerge con tutte le sue note peculiari che risplendono nella loro originaria pienezza e bellezza: unità, apostolicità, cattolicità e santità. E a motivo di questa sua originaria e inalienabile identità, la Chiesa ha una sua propria costituzione e un suo scopo, stabili e permanenti, che non si dona da sé. È per questo che tutti gli strumenti di cui essa stessa si può pure dotare, per realizzare quegli scopi che le indica il suo Signore e fondatore, sono tanto pertinenti ed adeguati a essa, quanto sono in grado di manifestare e attuare fedelmente i suoi elementi costitutivi, senza dimenticarne alcuno.
Se è vero ciò, si comprende perché, a differenza di altre istituzioni politiche o sociali, ciò che riguarda il governo della Chiesa non attiene principalmente a una tecnica di gestione o di distribuzione del potere, come ci ricorda anche il cardinale Ratzinger nel suo intervento all’Assemblea generale straordinaria del sinodo nel 1985 (cfr. pp. 119ss).
A volte, a uno sguardo superficiale, una prassi di governo plasmata secondo modelli essenzialmente politici sembrerebbe facilitare di molto le cose, e chi è avvezzo all’uso del potere, tende spesso a inclinare in questa direzione, magari inconsapevolmente. In tal modo, tuttavia, non saremmo fedeli alla natura stessa di ciò che Dio ha voluto realizzare con la Chiesa e alla sua origine “dall’alto”. Questo fatto richiede allora di usare una estrema cautela nel modulare ogni istituzione ecclesiale.
A questo livello, l’immagine di Cristo Buon Pastore è insuperabile. Governare nella Chiesa è anzitutto esercitare il potere di accogliere e di offrire agli uomini la vita buona che viene da Dio e di custodire con ogni mezzo questa vita: è il compito di “pascere il gregge”.
«Gesù è il Pastore Supremo della Chiesa ed è nel suo nome e mandato che noi abbiamo la cura di custodire il suo gregge con piena disponibilità, fino al dono totale delle nostre esistenze», richiama Benedetto XVI nel suo Discorso ai membri dell’undicesimo Consiglio ordinario del sinodo dei vescovi (cfr. p. 517).
A differenza dei normali pastori, Gesù Cristo non vive sulle spalle del gregge e non si nutre di esso, ma egli stesso «ci nutre con la sua carne e il suo sangue» (p. 516). È perciò all’immagine di Cristo pastore che il vescovo deve conformarsi, configurando nella sua esistenza ecclesiale l’immagine di Cristo stesso. Questa è l’insistenza e la prospettiva del magistero ecclesiale, che possiamo rinvenire tanto nell’insegnamento di Benedetto XVI quanto in quello di Papa Francesco, il quale sottolinea in continuazione questo punto.
Proprio Gesù buon pastore ha generato la Chiesa, come sua sposa e suo corpo, quale ambito della comunione: comunione di Dio con gli uomini e comunione degli uomini fra loro. La communio struttura infatti la Chiesa a ogni livello, ne rappresenta l’origine permanente, il metodo sempre attuale e lo scopo verso cui è sempre attratta, come in un continuo esodo dal suo status quo.
Questa è anche la prospettiva nella quale siamo invitati a guardare al sinodo dei vescovi. Ogni sua strutturazione è chiamata a porsi al servizio di Cristo Buon pastore e della comunione che egli non smette di donare. Ogni attuazione sinodale è dunque chiamata a far risplendere nel mondo l’origine “dall’alto” della Chiesa e tutte le sue note nella loro peculiare identità e bellezza.
Il sinodo, infatti, ha lo scopo precipuo di «favorire una stretta unione fra il Romano Pontefice e i Vescovi», come afferma il codice di diritto canonico al canone 342. Anzi, esso raggiunge il suo scopo quando rende tale unione «più evidente e più efficace» (Regolamento del Sinodo, Proemio). L’unità dell’episcopato è infatti uno dei segni e dei tratti indelebili che costituiscono la Chiesa e ne manifestano la natura comunionale.
Il Papa e i vescovi, cum Petro et sub Petro, rendono attuale con la loro comunione il collegio apostolico. Come Pietro e i dodici costituiscono il volto della Chiesa delle origini, così il Successore di Pietro e il collegio episcopale ne sono l’attuazione di sempre. Recita infatti la costituzione Lumen gentium al n. 22: «Come san Pietro e gli altri apostoli costituiscono, per volontà del Signore, un unico collegio apostolico, similmente il romano Pontefice, successore di Pietro, e i vescovi, successori degli apostoli, sono uniti tra loro». Se da una parte il Papa è «il principio e il fondamento perpetuo e visibile dell’unità di fede e di comunione» (n. 18) per la Chiesa universale, dall’altra i vescovi lo sono per le Chiese particolari (cfr. n. 23).
Il munus episcopale di Pietro e quello degli apostoli sono i due elementi di diritto divino che strutturano la Chiesa e ne sono i cardini irrinunciabili all’interno dell’unità di tutto l’episcopato. Entrambi sono elementi costitutivi dell’ecclesialità e dell’unità ecclesiale, unità ed ecclesialità che, se ne sono prive, ne rimangono inevitabilmente ferite. «Perciò, “quando la Chiesa Cattolica afferma che la funzione del Vescovo di Roma risponde alla volontà di Cristo, essa non separa questa funzione dalla missione affidata all’insieme dei Vescovi, anch’essi “vicari e legati di Cristo” (Lumen gentium, n. 27). Il vescovo di Roma appartiene al loro collegio ed essi sono i suoi fratelli nel ministero. Si deve anche affermare, reciprocamente, che la collegialità episcopale non si contrappone all’esercizio personale del primato né lo deve relativizzare» (Congregazione per la dottrina della fede, Considerazioni. Il primato del successore di Pietro nel mistero della Chiesa, n. 5).
Nello stesso tempo il concilio Vaticano II ci ricorda che «il collegio o corpo episcopale non ha però autorità, se non lo si concepisce unito al Pontefice romano, successore di Pietro, quale suo capo (...). Infatti il Romano Pontefice, in forza del suo Ufficio, cioè di Vicario di Cristo e Pastore di tutta la Chiesa, ha su questa una potestà piena, suprema e universale, che può sempre esercitare liberamente. D’altra parte, l’ordine dei vescovi, il quale succede al collegio degli apostoli nel magistero e nel governo pastorale, anzi, nel quale si perpetua il corpo apostolico, è anch’esso insieme col suo capo il romano Pontefice, e mai senza questo capo, il soggetto di una suprema e piena potestà su tutta la Chiesa sebbene tale potestà non possa essere esercitata se non col consenso del romano Pontefice» (Lumen gentium, 22).
Questa è la comprensione cattolica della Chiesa come hierarchica communio.
A servizio di questa visione comunionale si pone dunque il sinodo dei vescovi. Proprio per il fatto che è chiamato a manifestare sempre meglio «lo spirito di comunione che unisce i Vescovi con il Romano Pontefice e i Vescovi tra di loro» (Regolamento del Sinodo, Proemio), esso non ha una funzione sostitutiva o surrogativa né del Papa né del Collegio dei vescovi. Collegio che non può ritenersi tale se non è compreso nella sua interezza, poiché esso ha la funzione di rendere sempre più efficace, intensa e concreta la communio dei vescovi col Papa e dei vescovi fra loro.
Perciò il sinodo ha una funzione che mira non tanto a frapporsi fra i soggetti che vi sono implicati — Papa e vescovi — fungendo da intermediario o da raccordo indiretto, bensì di avvicinarli e di favorirne più direttamente l’unità.
In tal senso, si comprende perché il sinodo abbia essenzialmente e normalmente una funzione consultiva e non anzitutto deliberativa. I luoghi della deliberazione consistono infatti negli elementi costitutivi dell’unità ecclesiale — nel primato petrino e in quello apostolico — del Papa, del collegio col Papa e dei singoli vescovi.
E ciò sempre nell’ampio orizzonte dell’unità di fede e comunione ecclesiale, alla cui tutela e servizio è posto in primis il ministero del Successore di Pietro. La qual cosa si evidenzia particolarmente a proposito del sinodo: esso «è un evento in cui si rende particolarmente evidente che il Successore di Pietro, nell’adempimento del suo ufficio, è sempre congiunto nella comunione con gli altri Vescovi e con tutta la Chiesa» (Pastores gregis, n. 58).
Questo fatto ci aiuta anche a comprendere perché il sinodo dei vescovi da un lato non può essere assimilato a un «Concilio permanente» — perciò il codice di diritto canonico, al canone 342, dice che «il Sinodo dei vescovi (...) si riunisce in tempi determinati»; né, dall’altro, può sostituire il concilio ecumenico.
E anche perché il Sinodo, per sua natura, non può divenire un organismo stabile di governo della Chiesa, retto da principi simili a quelli che regolano molte democrazie o istituzioni politiche.
A testimonianza di ciò, va rilevato come non la maggioranza, bensì il consensus tendente all’unanimità è infatti in Ecclesia il criterio fondamentale con cui si prendono decisioni tanto nel Sinodo come in ogni altra eminente assemblea ecclesiale. L’unanimità è infatti il criterio ecclesiale di una verifica, svolta alla luce della fede, nonché garanzia e sigillo dell’azione dello Spirito, «anima dell’unica Chiesa di Cristo» (Pastores gregis, n. 58), della bontà e verità delle decisioni ecclesiali. Senza azione e guida dello Spirito non sarebbe possibile accedere alla Verità, verso cui il Paraclito ha sempre una funzione oggettivante in vista di una fedele benché creativa continuità della Tradizione ecclesiale.
Se così non fosse, non la verità e la fede, bensì la politica e le lobbies dominerebbero la genesi delle decisioni ecclesiali e, di conseguenza, anche il vissuto della Chiesa tutta ne sarebbe ferito.
Proprio a tutela di ciò si pongono le esigenze esposte sopra, il cui unico scopo è consentire ancora oggi all’amore di Cristo, di Colui che è Pastor aeternus, di intervenire nella formazione delle più importanti decisioni nella Chiesa, poiché est amoris officium pascere dominicum gregem (Agostino, In Iohannis Evangelium, PL 35, colonna 1967).
Un raggio di questo amore di Gesù per il suo gregge ce lo ha fatto intravedere Eterović, collazionando questi contributi di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI ai diversi sinodi cui ha avuto modo di intervenire, dapprima come vescovo, poi come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e infine come Papa.
L’Amore «è l’essenza stessa di Dio», scrive Benedetto XVI (cfr. p. 516). Questo Amore «interessa ogni uomo e tutto l’uomo» e ci spinge a proclamare «senza timori e reticenze, mai cedendo ai condizionamenti del mondo» (ibidem) la Verità di Cristo e il suo vangelo di salvezza. Verità e Amore sono indissolubili, così come indissolubili sono i munera di Cristo maestro e Cristo pastore. A servizio di questo connubio di Verità e Amore sono posti ogni istituzione, ogni compito e potere, ogni carisma nella Chiesa.
L'Osservatore Romano