Compie cinquant’anni la comunità fondata da Jean Vanier.
Dalla Francia in tutto il mondo. Fondata nel 1964 in Francia, la comunità L’Arche si è rapidamente diffusa in Canada, India, Costa d’Avorio, Honduras e poi in tutto il mondo, aprendosi a culture, lingue e realtà sociali e religiose differenti. Oggi è una realtà ecumenica e interreligiosa presente in trentacinque nazioni con centoquarantasei comunità: case e laboratori dove i disabili mentali sono considerati citoyens à part entière, nella convinzione che anch’essi possano e debbano trovare il loro giusto ruolo nella società.
(Giovanni Zavatta) «Troppo a lungo ci hanno riempito la testa con il Dio onnipotente ma apparentemente incapace di sentire le grida di tutti i poveri.
Dio non impartisce ordini a noi uomini. Vuole donare la sua presenza, che crea piacere, persino giubilo direi. Sta a noi uomini adoperarci per la giustizia, dare pane agli affamati, accogliere i senzatetto. Non è colpa di Dio se esistono tutte queste divisioni e sofferenze; lui ci ha dato un’intelligenza, un cuore, una mente». È una delle pagine più intense del carteggio tra Jean Vanier, fondatore della comunità L’Arche e del movimento Foi et Lumière, e Julia Kristeva, docente di linguistica e semiologia all’Università di Parigi ma soprattutto psicanalista e scrittrice, esponente di spicco dello strutturalismo francese. Un cattolico e una non credente, madre di David, disabile per una patologia neurologica: la corrispondenza ha dato vita nel 2011 al bel libro Il loro sguardo buca le nostre ombre (pubblicato in Italia da Donzelli editore, con prefazione del cardinale Gianfranco Ravasi). È un dialogo intenso sull’handicap e la paura del diverso, dove si scopre «il Dio vulnerabile, un Dio angosciato, il suo corpo ricoperto di piaghe nel cuore dell’universo». Vanier, in una delle lettere, scritte fra il giugno 2009 e l’agosto 2010, chiede di fermare «la corsa verso gli onori, verso l’efficienza, verso l’eccellenza», di aprire «i nostri cuori ai deboli che gridano», di rivolgerci al Dio umile «nascosto nella regione più profonda e intima dei nostri cuori». È la voce interiore della coscienza, che «ci lega a tutti gli altri uomini» e attraverso la quale «facciamo parte della grande famiglia umana».
Il 1°, il 2 e il 3 maggio, a Paray-le-Monial, in Borgogna, duemila membri de L’Arche tra disabili, volontari, dipendenti, amici e benefattori daranno inizio alle celebrazioni per il cinquantesimo anniversario di fondazione. Era infatti il 1964 quando Jean Vanier, allora insegnante di filosofia in Canada, si trasferisce in Francia, a Trosly-Breuil, nel dipartimento dell’Oise, acquista una piccola casa e ci va a vivere con Philippe e Raphaël, affetti da deficit intellettivo. La “chiamata” l’aveva ricevuta l’anno prima quando era andato a trovare padre Thomas Philippe, suo ex insegnante, diventato cappellano di una casa di accoglienza per disabili mentali a Trosly-Breuil. Vanier venne a contatto con la sofferenza, il disprezzo, l’umiliazione legati all’handicap, ma anche con la solidarietà: è lì che è cominciata l’avventura dell’Arca, oggi una realtà multiforme composta da centoquarantasei centri in trentacinque Paesi. Le comunità dell’Arca, ognuna costituita da case e laboratori, operano per ridare ai disabili la loro dignità nella convinzione — si legge nel sito del Pontificio Consiglio per i laici — che una società non potrà mai essere veramente umana se non consente ai più deboli di trovarvi il proprio posto. Lì «uomini e donne sposati e non, appartenenti a Paesi, tradizioni cristiane, religioni e contesti culturali diversi, condividono la vita con disabili, anch’essi di provenienza e credi differenti. Accogliendo in loro Gesù, danno a questi “piccoli” una famiglia con relazioni affettive stabili. La realtà ecumenica e interconfessionale che caratterizza l’Arche Internationale viene vissuta come opportunità per approfondire la propria fede nel rispetto delle altre tradizioni religiose».
Vivere con i più fragili permette di aprirsi a valori prima ignorati, ha detto, parlando di Vanier e de L’Arche, l’arcivescovo presidente della Conferenza episcopale francese, Georges Pontier, alla recente assemblea plenaria: l’umanizzazione della società «viene dalla compassione, dalla condivisione della vita, dal toccare e dal lasciarsi toccare, dall’umiltà e dal servizio».
L’appuntamento di Paray-le-Monial — concluso da una cerimonia interreligiosa, da un incontro ecumenico e da una messa celebrata da dieci vescovi — sarà solo la prima delle iniziative previste per il giubileo dei 50 anni. Ogni comunità è invitata a muoversi, a lasciare la propria residenza abituale e a mettersi in marcia, con qualsiasi mezzo, verso un’altra comunità, per dare testimonianza della cultura dell’incontro, base della loro fondazione. Tra maggio e luglio ci saranno almeno trentadue “feste” , tante quante sono le comunità de L’Arche in Francia. E il 27 settembre, a Parigi, una marcia dal Louvre a place de la République chiuderà le celebrazioni.
«È veramente il Papa dell’incontro — ha dichiarato Jean Vanier dopo l’udienza da Francesco il 21 marzo scorso — nel senso profondo di vedere l’altro come un essere umano, senza giudicarlo ma solo per incontrarlo. Ci insegna che l’incontro non vuol dire convertire le persone, dire loro delle cose, ma vedere l’altro come Gesù lo vede, ossia con uno sguardo di tenerezza, di benevolenza, di amore».
L'Osservatore Romano,