venerdì 25 aprile 2014

Pellegrini verso la verità



L’eredità di John Henry Newman negli insegnamenti di Giovanni Paolo II. 

(Graziano Borgonovo) Newman fece fin da giovane l’esperienza che coscienza e verità si appartengono, si sostengono e s’illuminano a vicenda, che l’obbedienza alla coscienza conduce all’obbedienza alla verità. La coscienza, attratta dalla verità, fu per Newman la via verso la conoscenza del Dio vivo. «Poche persone hanno sostenuto i pieni diritti della coscienza come ha fatto lui» scrisse Giovanni Paolo II di John Henry Newman in una lettera del 18 giugno 1990 indirizzata all’arcivescovo di Birmingham.

«Pochi scrittori hanno perorato in modo tanto persuasivo la causa della sua autorità e libertà, eppure egli non ha mai permesso che la minima traccia di soggettività o relativismo inquinasse il suo insegnamento».
Vediamo dunque come Giovanni Paolo II recepì l’insegnamento e il percorso di vita di John Henry Newman, in lui davvero un tutt’uno, proprio come in Karol Wojtyła, sì da farne un indubbio testimone da subito da tutti riconosciuto. Lo faremo individuando alcune parole chiave.
La prima è verità. Nel 1990 Giovanni Paolo II si rivolse con un discorso ai partecipanti al simposio organizzato dalla famiglia spirituale L’Opera e dall’International Centre of Newman Friends, per commemorare il primo centenario della morte del cardinale inglese. «Il tema del vostro simposio “John Henry Newman amante della Verità”, sottolinea la ragione principale per cui la vita e gli scritti di Newman continuano ad attirare. La sua è stata una continua ricerca di quella verità, che sola può rendere l’uomo libero (cfr. Giovanni, 8, 32)». La lunga vita di Newman ce lo mostra in effetti come un ardente discepolo della verità: «Il mio desiderio è stato quello di avere la Verità come amica più cara, e nessun nemico eccetto l’errore» (The Via Media). Quello di Newman è stato un pellegrinaggio verso la verità: «Sin dal momento della sua prima “grazia di conversione”, all’età di quindici anni, non ha mai perso il senso della presenza di Dio, il suo rispetto per la verità rivelata e la sua sete di santità di vita» (Discorso del 27 aprile 1990). «Il desiderio di verità lo ha condotto a cercare una voce che gli parlasse con l’autorità del Cristo vivente», ponendosi così come esempio a ciascuno per «non accontentarsi di una risposta parziale al grande mistero che è l’uomo», e coltivando invece con costanza «l’onestà intellettuale e il coraggio morale di accettare la luce della verità, quali che siano i sacrifici personali che ciò comporti» (Lettera del 18 giugno 1990).
Coscienza è la seconda parola chiave. Se la verità è ciò che precede e stimola il desiderio di colui che conosce e agisce, la coscienza è il mezzo per acquisire la verità, da parte di colui che, conoscendo, agisce e, agendo, conosce.
Da questo punto di vista si capisce perché «il pellegrinaggio intellettuale e spirituale di Newman è stata la risposta più ardente a una luce interiore di cui egli sembrava sempre consapevole», quella «Luce gentile» che «la coscienza proietta su tutti gli impulsi e gli sforzi della vita» (Discorso del 27 aprile). Nella lettera enciclica Veritatis splendor, Giovanni Paolo II, riferendosi esplicitamente a Newman, scrive: «Se esiste il diritto di essere rispettati nel proprio cammino di ricerca della verità, esiste ancor prima l’obbligo morale grave per ciascuno di cercare la verità e di aderirvi una volta conosciuta. In tal senso il cardinale John Henry Newman, eminente assertore dei diritti della coscienza, affermava con decisione: “La coscienza ha dei diritti perché ha dei doveri”» (n. 34).
Stante la condizione umana attuale, segnata dalle conseguenze del primo peccato, la coscienza si trova d’altronde di fatto indebolita e la possibilità dell’errore più facilmente s’insinua quanto più «le manca un’assistenza esterna: la coscienza ha bisogno di essere guidata e sostenuta; lasciata a se stessa, anche se, in un primo momento, si esprime secondo verità, tende in seguito a farsi incerta, ambigua e falsa» (Newman, Discourses addressed to Mixed Congregations). Lo splendore della verità, cui è per natura ordinata, le diviene esistenzialmente meno intenso.
Due cose perciò necessitano per rendere la coscienza vera, conformemente alla sua natura: un supplemento esterno di luce (la Rivelazione, la «Luce gentile») e un’educazione continua che ne consenta l’accoglienza. Ancora Giovanni Paolo II: «La luce interiore della coscienza mette una persona in contatto con la realtà di un Dio personale. In uno dei suoi libri egli [Newman] scrisse: “La mia natura sente la voce della coscienza come una persona. Quando le obbedisco, mi sento soddisfatto; quando le disobbedisco, provo un’afflizione — proprio come ciò che sento quando accontento o dispiaccio qualche amico caro (...). Un’eco implica una voce; una voce, qualcuno che parla. È colui che parla che io amo e venero” (Callista)» (Lettera del 18 giugno). È proprio questa la radice ultima della dignità inviolabile della coscienza: Colui che, attraverso di essa, parla e che, con l’obbedienza alla coscienza, si ritrova a essere amato.
La terza parola è santità. Il dramma interiore che segnò la lunga vita di Newman «ruotò intorno alla questione della santità e unione con Cristo. Il suo desiderio più ardente era di conoscere e fare la volontà di Dio. Per questo, in un tempo di intenso travaglio spirituale, prima di ritirarsi a pregare sulla sua decisione di entrare nella Chiesa Cattolica, egli chiese ai suoi parrocchiani di Littlemore: “Ricordatevi di lui nei giorni che verranno, anche se non ne sentirete parlare, e pregate per lui, perché egli sappia discernere in ogni cosa la volontà di Dio, e in ogni momento egli sia pronto a compierla”» (Discorso del 27 aprile).
Nella lettera all’arcivescovo di Birmingham del 22 gennaio 2001, Giovanni Paolo II riprende il medesimo tema della santità dal punto di vista del dolore e della croce: «Tutte le prove che conobbe invece di sminuirlo o distruggerlo paradossalmente confermarono la sua fede nel Dio che lo aveva chiamato e rafforzarono in lui la convinzione che Dio “non fa nulla invano”. Alla fine ciò che risplende in Newman è il mistero della Croce del Signore: fu il centro della sua missione, la verità assoluta che contemplava, la “luce gentile” che lo guidava».
Quarto punto, fede e ragione. La centralità della parola fede emerge con evidenza da quanto detto sulla santità. E trattandone in rapporto a Newman, è di fondamentale importanza cogliere come Giovanni Paolo II ne tratti sempre in rapporto alla ragione. Fede e ragione, dunque, un binomio inscindibile e vitale. Scrive nella lettera del 18 giugno 1990: «Seguendo la luce della sua coscienza, Newman ha percorso un itinerario di fede che ha descritto con forza e chiarezza nelle sue opere (...). Era una sua caratteristica essere fermamente fedele alla verità una volta afferrata, sempre pronto a sviluppare e approfondire la sua comprensione del deposito della fede». E nella lettera del 22 gennaio 2001: «Newman nacque in un’epoca travagliata non solo politicamente e militarmente, ma anche spiritualmente. Le vecchie certezze vacillavano e i credenti si trovavano di fronte alla minaccia del razionalismo da una parte e del fideismo dall’altra. Il razionalismo portò con sé il rifiuto sia dell’autorità sia della trascendenza, mentre il fideismo distolse le persone dalle sfide della storia e dai compiti terreni per generare in loro una dipendenza insana dall’autorità e dal soprannaturale. In quel mondo Newman giunse veramente a una sintesi eccezionale tra fede e ragione che per lui erano “come due ali sulle quali lo spirito umano raggiunge la contemplazione della verità”».
Un equilibrio straordinariamente armonico, dunque, determinato dall’amore appassionato per la verità. Proprio nell’enciclica Fides et ratio, Giovanni Paolo II addita come primo il nome di John Henry Newman quale emblema del «fecondo rapporto tra filosofia e parola di Dio», manifestato «nella ricerca coraggiosa condotta da pensatori più recenti», avendo evocato, prima dei contemporanei, niente meno che i padri della Chiesa antica e i grandi dottori medievali (n. 74).
Chiesa è la quinta parola chiave. Il mistero della Chiesa è sempre stato il grande amore della vita di Newman. I suoi scritti «delineano un quadro estremamente chiaro del suo incrollabile amore per la Chiesa quale incessante effusione dell’amore di Dio per l’uomo in ogni fase della storia». Dal suo cuore limpido sgorgava in modo naturale una preghiera come la seguente: «“Fa’ che io non dimentichi mai che Tu hai stabilito in terra un regno che è Tuo, che la Chiesa è opera Tua, da Te stabilita, il Tuo strumento; che noi siamo soggetti alle Tue regole, alle Tue leggi, al Tuo sguardo — che quando la Chiesa parla, sei Tu che parli. Fa’ che la conoscenza di questa meravigliosa verità non mi renda insensibile nei suoi confronti — fa’ che la debolezza dei Tuoi umani rappresentanti non mi faccia dimenticare che sei Tu che parli e agisci attraverso di loro”» (Discorso del 27 aprile).
Per questo suo amore personale pieno per la Chiesa, per l’unica Chiesa di Cristo — annota inoltre Giovanni Paolo II nella lettera del 18 giugno — «con la sua persona e con il suo lavoro, il cardinale Newman illumina il cammino ecumenico».
Ultimo punto, il cuore di Dio. Quando nel 1879 ricevette la porpora cardinalizia dalle mani di Leone XIII, Newman adottò come motto per il suo stemma cor ad cor loquitur. Celebrandone la messa di beatificazione al Cofton Park di Birmingham il 19 settembre 2010, Benedetto XVI così ne spiegò il senso: «Il motto del cardinale Newman, cor ad cor loquitur, “il cuore parla al cuore”, ci permette di penetrare nella sua comprensione della vita cristiana come chiamata alla santità, sperimentata come l’intenso desiderio del cuore umano di entrare in intima comunione con il Cuore di Dio».
«Newman ci rammenta che, quali uomini e donne creati a immagine e somiglianza di Dio — e qui Benedetto XVI si trovava a Londra in Hyde Park, durante la veglia di preghiera prima della beatificazione — siamo stati creati per conoscere la verità, per trovare in essa la nostra definitiva libertà e l’adempimento delle più profonde aspirazioni umane. In una parola, siamo stati pensati per conoscere Cristo, che è Lui stesso “la via, la verità e la vita” (Giovanni, 14, 6)». Per la sua tomba, Newman aveva scelto come epigrafe ex umbris et imaginibus in veritatem: era chiaro che alla fine del suo viaggio terreno fosse Cristo la verità che aveva trovato.
Celebrando le esequie di Giovanni Paolo II l’8 aprile 2005, il cardinale Ratzinger osservò che il defunto Pontefice «ha interpretato per noi il mistero pasquale come mistero della divina misericordia». Proprio come egli scrisse nel suo ultimo libro Memoria e identità: «Il limite imposto al male “è in definitiva la divina misericordia”».
Dio ha dato il suo Cuore a noi miseri, perché il nostro cuore fosse redento, da lui riempito e potesse così parlare fraternamente a quello di ogni uomo, colmo della stessa attesa. Cor ad cor loquitur.
L'Osservatore Romano