Paolo VI, il concilio e l’apertura del dialogo con gli ebrei.
Da Roncalli a Bergoglio. Anticipiamo stralci dell’intervento che il cardinale presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani tiene nel pomeriggio del 28 aprile a Roma, presso la Comunità di Sant’Egidio, nell’ambito del convegno «Da Giovanni XXIII a Francesco: ebrei e cristiani in dialogo».
(Kurt Koch) «Il popolo ebraico in tutto il mondo si ricorderà sempre degli anni del pontificato di Papa Paolo VI come dell’inizio di una nuova epoca per le relazioni cattoliche-ebraiche». Queste parole si leggono in un necrologio ebraico pubblicato a seguito della morte di Montini.
Non dobbiamo però dimenticare che le relazioni ebraico-cattoliche ebbero la loro svolta iniziale già ai tempi del santo Papa Giovanni XXIII, il quale non solo aveva conosciuto di persona — durante i primi anni del suo servizio diplomatico — il tragico destino degli ebrei sotto il regime del terrore del Terzo Reich, ma era anche convinto della necessità di impostare su nuove basi il rapporto della Chiesa cattolica con l’ebraismo. Per questo, nel settembre del 1960, aveva incaricato l’allora segretariato per l’Unità dei cristiani di preparare una dichiarazione sul popolo ebraico per l’assemblea conciliare. Il grande merito di Paolo VI è stato dunque quello di aver raccolto con coerenza gli impulsi innovatori lanciati da Giovanni XXIII, approfondendoli dal punto di vista teologico e conferendo loro nuovi accenti.
Montini fu il primo Papa dei tempi moderni a lasciare il Vaticano e il primo viaggio del suo pontificato fu nel 1964 in Israele, certo non casualmente. Una visita che ebbe luogo in condizioni molto diverse rispetto a quelle in cui si svolgerà quella di Papa Francesco nel maggio prossimo. All’epoca, tra i luoghi che Paolo VI voleva visitare ve ne erano solo pochi che si trovavano sotto la giurisdizione d’Israele. I luoghi sacri di Gerusalemme e Betlemme erano ancora sotto l’autorità della Giordania. Inoltre la Santa Sede non aveva ancora riconosciuto lo Stato d’Israele e non aveva ancora con esso relazioni diplomatiche. Per non essere strumentalizzato da nessuna delle parti, Paolo VI si sforzò di evitare una presa di posizione politica e di sottolineare insistentemente il carattere religioso del suo pellegrinaggio.
L’occasione del viaggio era l’incontro tra il Papa e il Patriarca Athenagoras di Costantinopoli. Eppure, se è vero che tale incontro è diventato il catalizzatore delle relazioni tra ortodossi e cattolici e, in un certo senso, dell’ecumenismo in generale, è anche vero che la visita in Israele di Paolo VI ha dato avvio a nuovi e proficui sviluppi nelle relazioni tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo. Un segno particolarmente eloquente fu l’incontro con le autorità dello Stato di Israele, quando Montini si rivolse agli ebrei usando la definizione di «figli del popolo dell’alleanza», intendendo così che l’alleanza di Dio con il popolo ebraico è tuttora valida. Il Papa fece riferimento inoltre ai padri della Bibbia, Abramo, Isacco e Giacobbe, per evidenziare le comuni radici della fede cristiana nella religione ebraica.
Per Paolo VI le relazioni tra la Santa Sede e lo Stato d’Israele non erano una questione meramente politica, ma erano strettamente legate a un nuovo concetto teologico del rapporto tra ebrei e cattolici. Per questo il viaggio in Israele è stato definito una «pietra miliare sul cammino verso un mutato rapporto tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo». È stato inoltre rilevato uno sviluppo logico che parte dal pellegrinaggio del 1964, passa attraverso la Dichiarazione conciliare Nostra aetate e giunge all’istituzione di relazioni formali diplomatiche tra la Santa Sede e Israele con l’accordo del 1993.
Guardando al passato, si può addirittura dire che la nuova politica nei confronti di Israele della Santa Sede è inimmaginabile senza la nuova teologia nei confronti di Israele promossa da Papa Paolo VI.
Con il suo viaggio in Terra Santa, Montini si era prefissato senza dubbio lo scopo di impostare su nuove basi il dialogo con l’ebraismo, di intensificarlo e di preparare la strada alle posizioni religiose e teologiche che il concilio avrebbe dovuto prendere. I primi frutti del nuovo approccio teologico all’ebraismo possono essere rintracciati nella sua prima enciclica, Ecclesiam suam del 6 agosto 1964, in cui inscrive il dialogo all’interno del programma della Chiesa cattolica: «La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio». Secondo la sua visione, il dialogo deve svilupparsi in tre cerchi concentrici: innanzitutto con tutti gli uomini, poi con i credenti e infine con i fratelli cristiani separati. Nel secondo cerchio, il Papa dà rilievo soprattutto agli ebrei: «Alludiamo ai figli, degni del nostro affettuoso rispetto, del popolo ebraico, fedeli alla religione che noi diciamo dell’Antico Testamento».
Con queste parole il Papa non ha soltanto voluto esprimere il fatto che i dialoghi della Chiesa cattolica con i cristiani divisi, con gli ebrei e con i non cristiani sono strettamente legati; ma intendeva ancora più chiaramente sottolineare che il dialogo ecumenico con i fratelli separati e quello con gli ebrei sono inscindibili.
Questa convinzione, Paolo VI la confermò con particolare forza conferendole anche una forma istituzionale nel 1974, quando, il 22 ottobre, fondò una Commissione autonoma per i rapporti religiosi con l’ebraismo, associandola non al Segretariato per il dialogo interreligioso, istituito verso la fine del Concilio, ma al Segretariato per l’unità del cristiani.
Su questo sfondo teologico, non sorprende che la nuova visione delle relazioni tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo agli occhi di Paolo VI abbia potuto trovare accesso anche nella liturgia. Come già aveva fatto Giovanni XXIII in maniera inattesa durante la liturgia del Venerdì santo del 1959, quando aveva disposto che dalla preghiera per gli ebrei venisse tolto l’aggettivo «perfidi», così Paolo VI introdusse una nuova formula di quella preghiera, che ne attenua sia il contenuto sia il tono. Con tale formula è stato possibile superare un grande ostacolo nel dialogo ebraico-cristiano.
Questi orientamenti hanno spianato il terreno alla promulgazione, da parte di Paolo VI, della Dichiarazione sul rapporto tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo, del concilio Vaticano II.
Il processo era iniziato quando Giovanni XXIII, il 18 settembre 1960, aveva affidato al cardinale Augustin Bea, responsabile del Segretariato per l’unità dei cristiani, l’incarico di preparare una dichiarazione sul popolo ebraico. All’epoca il Papa non poteva immaginare la portata che avrebbe avuto in seguito tale incarico. I problemi risiedevano non tanto nel campo teologico quanto in quello politico. Ciò spiega la complessa storia del testo di questa dichiarazione, che originariamente era stata concepita come documento autonomo, ma che poi fu integrata in varie fasi nel Decreto sull’ecumenismo, anch’esso in via di preparazione, e nella Dichiarazione sulla libertà religiosa. Poi si decise di inserire il testo come quarto articolo nel più ampio quadro della Dichiarazione conciliare «sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane», che reca il titolo di Nostra aetate.
La Nostra aetate fu approvata dal concilio durante la sua ultima sessione, il 28 ottobre 1965, con il 96 per cento dei voti. Per la prima volta nella storia un concilio ecumenico si è espresso in modo così esplicito e positivo circa le relazioni della Chiesa cattolica con l’ebraismo. Non solo. Il Vaticano II non si è occupato soltanto di prospettive meramente pragmatiche, ma ha considerato la questione delle relazioni ebraico-cristiane in un orizzonte teologico, sulla base di solidi fondamenti biblici. In terzo luogo, va notato che questa nuova visione del rapporto tra cristianesimo ed ebraismo ha trovato espressione anche in importanti Costituzioni del concilio. Così, ad esempio, la Lumen gentium evidenzia il fatto che Israele continua a essere il popolo eletto di Dio e che la Chiesa cristiana proviene da questo popolo. Analogamente la Dei verbum espone la stessa convinzione nel contesto della teologia della rivelazione.
L’articolo 4 di Nostra aetate è considerato giustamente il documento fondante, la Magna charta, del dialogo ebraico-cattolico, e ha segnato un nuovo punto di partenza fondamentale nelle relazioni tra il cristianesimo e l’ebraismo. Quanto Paolo VI abbia contribuito a tutto questo emerge anche dal fatto che, l’anno stesso in cui fu istituita la Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, venne stilato e pubblicato, con l’approvazione esplicita del Papa, il documento «Linee guida e orientamenti per l’applicazione della Dichiarazione Conciliare Nostra aetate n. 4», nel quale è contenuto un ampio programma per il riavvicinamento ebraico-cristiano.
Nel documento si dà voce al grande apprezzamento nutrito da parte cristiana per l’ebraismo e si evidenzia la considerevole importanza che il dialogo riveste per la Chiesa stessa. Partendo dalla testimonianza della fede in Gesù Cristo, si tiene conto del carattere specifico del dialogo con l’ebraismo, si fa riferimento ai legami esistenti nella liturgia, si menzionano nuove possibilità sul cammino del riavvicinamento nel campo della dottrina, dell’insegnamento e della formazione e si propongono attività comuni in ambito sociale.
Paolo VI, inoltre, ha attribuito un ruolo importante anche ai colloqui personali con i rappresentanti dell’ebraismo, durante i quali egli ha sempre lanciato un invito ad approfondire le relazioni.
Ciò che Montini ha introdotto in maniera innovativa a fondamento del dialogo ebraico-cattolico è stato confermato e approfondito in vario modo dai Pontefici che si sono susseguiti dopo il Vaticano II. La svolta epocale nel rapporto tra ebrei e cristiani voluta da Paolo VI deve infatti continuamente fare i conti con nuove prove. Da un lato, il flagello dell’antisemitismo pare difficile da sradicare anche ai nostri giorni, così che la Chiesa cattolica ha sempre il dovere di scendere in campo contro questo temibile fenomeno come fedele alleata dell’ebraismo. Dall’altro lato, anche se le questioni teologiche fondamentali riguardanti il rapporto tra cristianesimo ed ebraismo sono state trattate per la prima volta, in maniera incoraggiante in Nostra aetate, sarebbe esagerato però affermare che sono già state risolte. Piuttosto esse richiedono un’ulteriore riflessione teologica, auspicabile anche da parte ebraica. Ciò vale soprattutto per la questione di come sia possibile conciliare la convinzione di fede, che noi cristiani abbiamo in comune con gli ebrei, secondo la quale l’alleanza stipulata da Dio con Israele non è mai stata rescissa ed è sempre valida, e la convinzione di fede cristiana imperniata sulla novità della nuova alleanza donataci in Gesù Cristo. In modo che ebrei e cristiani non si sentano lesi, ma accolti seriamente nelle loro rispettive convinzioni.
Questo necessario approfondimento teologico sarà sotto una buona stella se il dialogo ebraico-cristiano continuerà a essere portato avanti sulla base di quell’alleanza che Dio ha stretto con Abramo, che non è soltanto il padre di Israele, ma anche il padre della fede dei cristiani.
Coscienti di ciò, ci avviciniamo al viaggio che Papa Francesco compirà in Terra Santa cinquant’anni dopo quello in Israele di Paolo VI, e ci prepariamo al cinquantesimo anniversario della promulgazione della Nostra aetate.
L'Osservatore Romano
Montini fu il primo Papa dei tempi moderni a lasciare il Vaticano e il primo viaggio del suo pontificato fu nel 1964 in Israele, certo non casualmente. Una visita che ebbe luogo in condizioni molto diverse rispetto a quelle in cui si svolgerà quella di Papa Francesco nel maggio prossimo. All’epoca, tra i luoghi che Paolo VI voleva visitare ve ne erano solo pochi che si trovavano sotto la giurisdizione d’Israele. I luoghi sacri di Gerusalemme e Betlemme erano ancora sotto l’autorità della Giordania. Inoltre la Santa Sede non aveva ancora riconosciuto lo Stato d’Israele e non aveva ancora con esso relazioni diplomatiche. Per non essere strumentalizzato da nessuna delle parti, Paolo VI si sforzò di evitare una presa di posizione politica e di sottolineare insistentemente il carattere religioso del suo pellegrinaggio.
L’occasione del viaggio era l’incontro tra il Papa e il Patriarca Athenagoras di Costantinopoli. Eppure, se è vero che tale incontro è diventato il catalizzatore delle relazioni tra ortodossi e cattolici e, in un certo senso, dell’ecumenismo in generale, è anche vero che la visita in Israele di Paolo VI ha dato avvio a nuovi e proficui sviluppi nelle relazioni tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo. Un segno particolarmente eloquente fu l’incontro con le autorità dello Stato di Israele, quando Montini si rivolse agli ebrei usando la definizione di «figli del popolo dell’alleanza», intendendo così che l’alleanza di Dio con il popolo ebraico è tuttora valida. Il Papa fece riferimento inoltre ai padri della Bibbia, Abramo, Isacco e Giacobbe, per evidenziare le comuni radici della fede cristiana nella religione ebraica.
Per Paolo VI le relazioni tra la Santa Sede e lo Stato d’Israele non erano una questione meramente politica, ma erano strettamente legate a un nuovo concetto teologico del rapporto tra ebrei e cattolici. Per questo il viaggio in Israele è stato definito una «pietra miliare sul cammino verso un mutato rapporto tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo». È stato inoltre rilevato uno sviluppo logico che parte dal pellegrinaggio del 1964, passa attraverso la Dichiarazione conciliare Nostra aetate e giunge all’istituzione di relazioni formali diplomatiche tra la Santa Sede e Israele con l’accordo del 1993.
Guardando al passato, si può addirittura dire che la nuova politica nei confronti di Israele della Santa Sede è inimmaginabile senza la nuova teologia nei confronti di Israele promossa da Papa Paolo VI.
Con il suo viaggio in Terra Santa, Montini si era prefissato senza dubbio lo scopo di impostare su nuove basi il dialogo con l’ebraismo, di intensificarlo e di preparare la strada alle posizioni religiose e teologiche che il concilio avrebbe dovuto prendere. I primi frutti del nuovo approccio teologico all’ebraismo possono essere rintracciati nella sua prima enciclica, Ecclesiam suam del 6 agosto 1964, in cui inscrive il dialogo all’interno del programma della Chiesa cattolica: «La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio». Secondo la sua visione, il dialogo deve svilupparsi in tre cerchi concentrici: innanzitutto con tutti gli uomini, poi con i credenti e infine con i fratelli cristiani separati. Nel secondo cerchio, il Papa dà rilievo soprattutto agli ebrei: «Alludiamo ai figli, degni del nostro affettuoso rispetto, del popolo ebraico, fedeli alla religione che noi diciamo dell’Antico Testamento».
Con queste parole il Papa non ha soltanto voluto esprimere il fatto che i dialoghi della Chiesa cattolica con i cristiani divisi, con gli ebrei e con i non cristiani sono strettamente legati; ma intendeva ancora più chiaramente sottolineare che il dialogo ecumenico con i fratelli separati e quello con gli ebrei sono inscindibili.
Questa convinzione, Paolo VI la confermò con particolare forza conferendole anche una forma istituzionale nel 1974, quando, il 22 ottobre, fondò una Commissione autonoma per i rapporti religiosi con l’ebraismo, associandola non al Segretariato per il dialogo interreligioso, istituito verso la fine del Concilio, ma al Segretariato per l’unità del cristiani.
Su questo sfondo teologico, non sorprende che la nuova visione delle relazioni tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo agli occhi di Paolo VI abbia potuto trovare accesso anche nella liturgia. Come già aveva fatto Giovanni XXIII in maniera inattesa durante la liturgia del Venerdì santo del 1959, quando aveva disposto che dalla preghiera per gli ebrei venisse tolto l’aggettivo «perfidi», così Paolo VI introdusse una nuova formula di quella preghiera, che ne attenua sia il contenuto sia il tono. Con tale formula è stato possibile superare un grande ostacolo nel dialogo ebraico-cristiano.
Questi orientamenti hanno spianato il terreno alla promulgazione, da parte di Paolo VI, della Dichiarazione sul rapporto tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo, del concilio Vaticano II.
Il processo era iniziato quando Giovanni XXIII, il 18 settembre 1960, aveva affidato al cardinale Augustin Bea, responsabile del Segretariato per l’unità dei cristiani, l’incarico di preparare una dichiarazione sul popolo ebraico. All’epoca il Papa non poteva immaginare la portata che avrebbe avuto in seguito tale incarico. I problemi risiedevano non tanto nel campo teologico quanto in quello politico. Ciò spiega la complessa storia del testo di questa dichiarazione, che originariamente era stata concepita come documento autonomo, ma che poi fu integrata in varie fasi nel Decreto sull’ecumenismo, anch’esso in via di preparazione, e nella Dichiarazione sulla libertà religiosa. Poi si decise di inserire il testo come quarto articolo nel più ampio quadro della Dichiarazione conciliare «sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane», che reca il titolo di Nostra aetate.
La Nostra aetate fu approvata dal concilio durante la sua ultima sessione, il 28 ottobre 1965, con il 96 per cento dei voti. Per la prima volta nella storia un concilio ecumenico si è espresso in modo così esplicito e positivo circa le relazioni della Chiesa cattolica con l’ebraismo. Non solo. Il Vaticano II non si è occupato soltanto di prospettive meramente pragmatiche, ma ha considerato la questione delle relazioni ebraico-cristiane in un orizzonte teologico, sulla base di solidi fondamenti biblici. In terzo luogo, va notato che questa nuova visione del rapporto tra cristianesimo ed ebraismo ha trovato espressione anche in importanti Costituzioni del concilio. Così, ad esempio, la Lumen gentium evidenzia il fatto che Israele continua a essere il popolo eletto di Dio e che la Chiesa cristiana proviene da questo popolo. Analogamente la Dei verbum espone la stessa convinzione nel contesto della teologia della rivelazione.
L’articolo 4 di Nostra aetate è considerato giustamente il documento fondante, la Magna charta, del dialogo ebraico-cattolico, e ha segnato un nuovo punto di partenza fondamentale nelle relazioni tra il cristianesimo e l’ebraismo. Quanto Paolo VI abbia contribuito a tutto questo emerge anche dal fatto che, l’anno stesso in cui fu istituita la Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, venne stilato e pubblicato, con l’approvazione esplicita del Papa, il documento «Linee guida e orientamenti per l’applicazione della Dichiarazione Conciliare Nostra aetate n. 4», nel quale è contenuto un ampio programma per il riavvicinamento ebraico-cristiano.
Nel documento si dà voce al grande apprezzamento nutrito da parte cristiana per l’ebraismo e si evidenzia la considerevole importanza che il dialogo riveste per la Chiesa stessa. Partendo dalla testimonianza della fede in Gesù Cristo, si tiene conto del carattere specifico del dialogo con l’ebraismo, si fa riferimento ai legami esistenti nella liturgia, si menzionano nuove possibilità sul cammino del riavvicinamento nel campo della dottrina, dell’insegnamento e della formazione e si propongono attività comuni in ambito sociale.
Paolo VI, inoltre, ha attribuito un ruolo importante anche ai colloqui personali con i rappresentanti dell’ebraismo, durante i quali egli ha sempre lanciato un invito ad approfondire le relazioni.
Ciò che Montini ha introdotto in maniera innovativa a fondamento del dialogo ebraico-cattolico è stato confermato e approfondito in vario modo dai Pontefici che si sono susseguiti dopo il Vaticano II. La svolta epocale nel rapporto tra ebrei e cristiani voluta da Paolo VI deve infatti continuamente fare i conti con nuove prove. Da un lato, il flagello dell’antisemitismo pare difficile da sradicare anche ai nostri giorni, così che la Chiesa cattolica ha sempre il dovere di scendere in campo contro questo temibile fenomeno come fedele alleata dell’ebraismo. Dall’altro lato, anche se le questioni teologiche fondamentali riguardanti il rapporto tra cristianesimo ed ebraismo sono state trattate per la prima volta, in maniera incoraggiante in Nostra aetate, sarebbe esagerato però affermare che sono già state risolte. Piuttosto esse richiedono un’ulteriore riflessione teologica, auspicabile anche da parte ebraica. Ciò vale soprattutto per la questione di come sia possibile conciliare la convinzione di fede, che noi cristiani abbiamo in comune con gli ebrei, secondo la quale l’alleanza stipulata da Dio con Israele non è mai stata rescissa ed è sempre valida, e la convinzione di fede cristiana imperniata sulla novità della nuova alleanza donataci in Gesù Cristo. In modo che ebrei e cristiani non si sentano lesi, ma accolti seriamente nelle loro rispettive convinzioni.
Questo necessario approfondimento teologico sarà sotto una buona stella se il dialogo ebraico-cristiano continuerà a essere portato avanti sulla base di quell’alleanza che Dio ha stretto con Abramo, che non è soltanto il padre di Israele, ma anche il padre della fede dei cristiani.
Coscienti di ciò, ci avviciniamo al viaggio che Papa Francesco compirà in Terra Santa cinquant’anni dopo quello in Israele di Paolo VI, e ci prepariamo al cinquantesimo anniversario della promulgazione della Nostra aetate.
L'Osservatore Romano