Il comunismo sovietico e la distruzione della famiglia: il divorzio
La Russia, come tutti gli ex paesi comunisti, ha un tasso altissimo di divorzi, aborti e suicidi. Tre grandezze che vanno spesso insieme. Accadeva così durante il comunismo; le cose sono addirittura peggiorate, con la caduta del regime; oggi si sta assistendo ad una graduale persa di coscienza del fatto che se si continua così si muore (vedi politiche di Orban e Putin sulla famiglia e la vita, ma anche inversione lenta e graduale di tendenza tra la gente). Sembra che quanto a divorzi la Russia sia ancora tra i primi 10 paesi al mondo, con Ucraina e Bielorussia.
Interessante rivedere quanto accadde tra Lenin e Stalin, sul tema (mentre in Italia Pd e F.I. mandano avanti il divorzio breve, con appoggio dei grillini)
Uno dei concetti ribaditi dai padri del comunismo è che la liberazione generale che sarà garantita dalla nuova struttura economica riguarderà anche la famiglia, le donne e i bambini.
Il cristianesimo, accusano i marxisti-leninisti, disprezza la donna e la considera un essere inferiore destinato a procreare figli nel silenzio della casa. Invece nella futura società comunista la donna sarà anzitutto “lavoratrice”, operaia d’assalto con la camicia rossa e tanta grinta, e diverrà sempre più “simile all’uomo”.
Inoltre divorzio libero, aborto, anticoncezionali, nuova visione dei rapporti prematrimoniali, “libertà dai ceppi della legge, dalla procreazione” ecc., genereranno una società nuova, armoniosa, equilibrata, in cui tutti potranno trovare soddisfazione e la famiglia, finalmente “felice”, non sarà più il luogo dell’oppressione dell’uomo sulla donna.
Quest’ultima, come affermava Engels, non sarà più schiava nella “camera da letto” o “nella camera dei figli, nella cucina”.
Sarà libera, felice, realizzata. Scomparirà del tutto anche la prostituzione, perché verranno eliminate “le condizioni che la generano e l’alimentano”. Ciò avverrà, nella società comunista futura, tramite la scomparsa, oltre che dello Stato, anche di qualsiasi normativa atta a regolare il matrimonio, ridotto, come auspicava Engels, a “rapporti puramente privati, concernenti solo le persone che vi partecipano”. Che siano per il “libero amore”, magari anche di gruppo come nel film “Tre in uno scantinato”, per il sesso come mero bisogno fisiologico, secondo la teoria del “bicchier d’acqua”, o per una visione più moderata, per tutti i teorici del nuovo mondo comunista il divorzio libero, biasimato dai credenti, farà miracoli.
Fatto sta che nel 1917 il governo dell’URSS introduce nel Codice il divorzio sia per mutuo consenso, sia su richiesta di anche uno solo dei due congiunti. Per celebrare l’evento Lenin afferma: “La Repubblica dei soviet ha prima di tutto il compito di abolire ogni restrizione dei diritti della donna. Il procedimento giudiziario per il divorzio, questa vergogna borghese, fonte di avvilimento e di umiliazione, è stato completamente abolito dal potere sovietico. Da un anno esiste ormai una legislazione assolutamente libera sul divorzio”[1].
Il Codice del 1926 invece, accanto al matrimonio registrato, contempla anche il matrimonio di fatto, entrambi con lo stesso valore giuridico. Il divorzio è ancora più facilitato, può avvenire senza alcuna “formalità” ed essere unilaterale.
Si assiste così alla morte della famiglia “borghese”, nella quale, nella propaganda dei sovietici, non c’è amore ma puro interesse. Con quali conseguenze? La felicità promessa?
H. Chambre, nel suo “Il marxismo nell’Unione Sovietica”, ricorda che gli effetti di questa legislazione, e forse soprattutto della cultura che vi è dietro, sono l’instabilità della coppia coniugale, l’insicurezza dei fanciulli, l’aumento del numero dei figli per i quali la donna non percepisce pensione alimentare, l’incremento del disagio minorile…
A sua volta F. Navailh, in “Storia delle donne”, nota che tale “libertà degenera dando luogo ad effetti perversi. L’instabilità maritale e il rifiuto massiccio di figli sono due tratti caratteristici del tempo. Gli aborti si moltiplicano, la natalità cala in modo pauroso, gli abbandoni dei neonati sono frequenti. Gli orfanotrofi, sommersi, diventano dei veri mortori. Aumentano gli infanticidi e gli uxoricidi. Effettivamente i figli e le donne sono le prime vittime del nuovo ordine delle cose. L’aggravarsi delle condizioni delle donne (soprattutto in città) è evidente. I padri abbandonano o se ne vanno di casa, lasciando spesso una moglie priva di risorse. La procedura di divorzio mediante una semplice richiesta unilaterale incoraggia gli atteggiamenti più cinici…Gli assegni familiari sono anch’essi aleatori…”[2].
Si arriva così ad una esplosione della disgregazione familiare, 44,3% dei divorzi in città nel 1935, che spinge il governo ad imporre una forte retromarcia per impedire il crollo del paese. Insomma, il “sol dell’avvenire” tarda a spuntare, così in economia come nella vita affettiva.
Nel 1936, pur restando libero, il divorzio viene reso molto più difficile per le spese prescritte. Nel 1944 si arriva ad un’ulteriore virata: viene abolito il matrimonio de facto e solo quello registrato è ritenuto valido. La procedura è affidata ad un tribunale, il giornale locale ne deve dare annuncio, a pagamento, mentre il tribunale del popolo deve intraprendere un tentativo di conciliazione. Oltre a tutto ciò occorre pagare una cifra molto alta per presentare la domanda di divorzio e un’altra cifra notevole alla compilazione del certificato finale. Il divorzio diventa così, per molte categorie di persone, praticamente impossibile!
I giudici in generale sono chiamati a ostacolarlo in tutti i modi, a tentare il possibile e l’impossibile per la conciliazione e a tenere conto del grado di colpevolezza dei due coniugi. In svariati casi essi rifiutano il permesso anche a chi abbia seguito le lunghissime e talora proibitive procedure. Insomma, dal matrimonio senza alcuna formalità, puro affare di privati, si passa ad una quasi totale inversione di rotta: ancora una volta l’ideologia è sconfitta dalla realtà, e diventa necessario correre ai ripari. Nascono così la botteghe volte a limitare i divorzi.
Già nel maggio del 1936 la Pravda aveva spiegato che “la famiglia è la cosa più seria che esiste nella vita”. “Senza una famiglia salda e felice – si legge su “Autoistruzione politica”, organo del Comitato centrale del PCUS, nel 1962 – non vi può essere una felicità personale, né una retta educazione della nuova generazione. Ecco perché il programma del nostro partito dà una grande importanza ad un ulteriore rafforzamento della famiglia sovietica…”[3].
L’idea del “libero amore”, che i comunisti europei ed italiani abbracciano con forza proprio negli anni Sessanta e Settanta, è ormai lontana, l’utopia è sostituita con la realpolitik: non è tanto la famiglia in sé che interessa, quanto la disgregazione dello Stato che segue alla disgregazione della famiglia, che spaventa.
F. Agnoli
da: Novecento. Il secolo senza croce, SugarCo