mercoledì 2 aprile 2014
"Come potete credere voi, che prendete gloria gli uni dagli altri?"
Come i "Giudei" anche noi abbiamo paura di non essere, e scorrere sui giorni come i titoli di coda di un film che nessuno legge mai. Bisogna assolutamente escogitare qualcosa per essere protagonisti e conquistarsi un ruolo. Ma tutto quello che ci agita per cercare di essere è pura vana-gloria: "Chi cede a questa vanità autoreferenziale in fondo nasconde una miseria molto grande" (Card. J. Bergoglio). La Quaresima che ci accompagna alla Verità, ci aiuta a scoprire che, come tra i Giudei, anche nelle nostre famiglie, come negli uffici, nei gruppi di amici, in parrocchia, tutti "cerchiamo gloria gli uni dagli altri". Le nostre relazioni sono come quei sistemi di allarme costituiti da una serie di elementi che inviano tra di loro raggi infrarossi, formando così una barriera invisibile. Appena il segnale tra le parti viene interrotto scatta l'allarme. Così, quando i fallimenti dolorosi interrompono bruscamente la trama di gesti, parole e atteggiamenti ipocriti che ci lega invisibilmente agli altri, scattano le liti piene d'ira e rancori che sembra ne stessimo facendo scorta da anni. Proprio queste rivelano la trama di menzogne con cui ci siamo avvicinati agli altri, non per donarci, ma cercando in loro dei "testimoni" a nostro favore, qualcuno che ci dicesse che esistiamo, che siamo importanti, che valiamo. Ma, anche se ottenute, si tratta di false testimonianze, tutte carnali, lacci che danno gloria per riceverne. Senza l'amore di Dio dentro, unica consistenza che dia valore alla vita, senza il suo amore a testimoniare l'unicità di ciascuno di noi, tutto è vanità: "Aveva ben ragione san Girolamo di paragonare la vanagloria all’ombra. Difatti l’ombra segue dovunque il corpo, ne misura persino i passi... Lo stesso fa la vanagloria, segue dovunque la virtù. Invano cercherebbe il corpo fuggire la sua ombra, questa sempre e dovunque la segue e le va appresso" (Padre Pio da Petralcina). La vanagloria è un'ombra di morte, il ripiegamento orgoglioso su se stessi che impedisce la fede: "E come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo?". Non può credere chi cerca dagli altri, dalla loro stima e dal loro consenso, la gloria - il peso, il valore, la consistenza della propria esistenza, secondo l'etimologia del termine greco dóxa e di quello ebraico "kavod". Grava su di lui la maledizione descritta dal profeta Geremia: "Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, e pone nella carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore dal Signore. Sarà come un tamerisco nella steppa; non vedrà venire il bene, dimorerà in luoghi aridi nel deserto, in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere" (Ger. 17, 5 ss). Due amici che fondano la propria relazione sulla vanagloria si ritroveranno con odio e invidia; così due sposi, o due fidanzati, se cercano nell'altro la felicità che dia senso alla loro vita, non avranno che gelosia e rancore. Soprattutto, chi pone la sua gloria nella carne "non vedrà venire il bene", non riconoscerà Gesù negli eventi e nelle persone; non lo vedrà nelle "opere" da Lui compiute, e per questo "non potrà credere in Colui che lo ha inviato". Nelle situazioni difficili, nelle prove della vita, quando l'amico mostrerà la sua debolezza, quando lo sposo tradirà le attese, quando la fidanzata entrerà in crisi, non saprà discernere oltre la sofferenza della carne la chiamata di Dio a donarsi, e fuggirà nascondendosi nell'inganno delle passioni, per sperimentarvi la morte. La vanagloria, infatti, chiude la porta al Messia e la apre ai falsi profeti che vengono "nel proprio nome"; rifiutiamo cioè Cristo che, "nel nome del Padre", ci offre gratuitamente il suo amore perché abbiamo accolto chi, per carpire gloria per se stesso, ci adula gonfiando il nostro uomo vecchio: "L’«io» al centro del mondo: si tratta del mio io superbo, che sa tutto. Se sono arrogante, se sono superbo, vorrei sempre piacere e se non ci riesco sono misero, sono infelice e devo sempre cercare questo piacere" (Benedetto XVI). Per non cedere alle lusinghe della superbia non basta "scrutare le Scritture"; certo, in esse possiamo avere la "vita eterna", ma occorre lasciarci giudicare dalla Parola, metterci sotto la sua luce e umiliarci per scoprire in essa la "testimonianza" di Cristo che giunge sino alla nostra storia e ci chiama per "andare a Lui e avere la vita". Invece, come i Giudei, "ci siamo rallegrati tante volte della luce di Giovanni Battista", ci ha scaldato la "lampada" della profezia che "arde" nella predicazione, ma è stato "per poco". Tutto bello e commovente, ma la carne tira di più... "Per poterci salvare" la Quaresima ci chiama a conversione: basta ipocrisie! Se non viviamo nell'intimità con Cristo, se non ci lasciamo abbracciare e stringere alla sua Croce come San Francesco, significa che non abbiamo "creduto davvero all'Inviato del Padre". Per giustificare la propria incredulità i Giudei si appellano a "Mosè" dei cui "scritti" si ritengono fedeli osservatori; ma Gesù smaschera questa pretesa perché, rifiutando Lui, dimostrano di non aver mai creduto alla Torah che di Lui parla e Lui profetizza. Mai si sono accostati alla Scrittura con amore, per ascoltarla e lasciarsi plasmare da essa. Ne hanno fatto occasione di "vanto", segno di distinzione, gloria di razza da esibire. Ma era una vernice, perché la Torah restava lettera senza mai divenire Spirito che dà la vita. Anche noi possiamo riempirci la bocca della Parola di Dio, esibire lignaggi di famiglie da sempre nella Chiesa, certificati di partecipazione a convegni, ritiri, messe e rosari, non ci servirà a nulla. Se "non vogliamo andare a Lui" per consegniargli sino in fondo la nostra vita significa che siamo ancora orfani, "non abbiamo mai udito la voce del Padre, né abbiamo visto il suo volto, e non abbiamo la sua parola che dimora in noi". Riconosciamolo, "non abbiamo in noi l'amore di Dio", non si vede in nessuno dei rapporti che abbiamo. Gesù lo "sa", e ci ama. Ci conosce e viene a salvarci, non a "prendere gloria dagli uomini"; in noi, infatti, cerca solo i peccati per perdonarli. Non ha bisogno di appoggi e considerazioni umane, perché la "testimonianza su di Lui" e sulla sua identità, non proviene dalla carne, ma dal Cielo e si manifesta in opere celesti. Ecco la Gloria autentica, il peso della vita: l'amore a chi ci è accanto, il perdono, la pazienza, scusare l'inescusabile, credere l'incredibile, lasciarsi togliere l'onore perché l'altro non lo perda. Amare il nemico, ecco la Gloria di Cristo, la sostanza divina della sua vita, l'intimità con il Padre che schiude il Cielo in ogni evento di morte. La stessa preparata per te e per me se "abbiamo accolto in noi il suo amore". La Gloria che viene da Dio ci libera dalla condanna di cercare la vita negli altri: che meraviglia un padre che non cerca gloria nel figlio perché vive in Dio! Non esigerà ma educherà, nel senso originale del termine: condurrà il figlio fuori dalla menzogna, per consegnarlo, libero, a Cristo. E così una moglie, un marito, colmi della Gloria di Dio, possono donarsi senza riserve. Chi ha l'amore di Dio può morire ogni giorno per amore, non fugge, vede il bene per sé e per gli altri anche nella Croce. Elisabetta della Trinità lo aveva compreso bene: "Il mio Sposo mi ha fatto capire che la mia vocazione in terra d’esilio è essere lode della sua Gloria". Per questo Elisabetta si gettò con fede e amore nel «folto della croce». Accettò tutto con il sorriso e l’abbandono alla volontà di Dio, diventando veramente “lode di gloria della Trinità”, un'anima "che adora sempre e, per così dire, è tutta trasformata nella lode e nell'amore, nella passione della gloria del suo Dio".