domenica 20 aprile 2014

La vera fedeltà è all'Inatteso


Pasqua: una gioia per tutti
Avvenire, 20 aprile 2014
ENZO BIANCHI
A Pasqua i cristiani sono nella gioia: celebrano la risurrezione del loro Signore, la vittoria della vita sulla morte. Ma questa gioia è destinata solo a loro? La vicenda di Gesù di Nazareth non ha nulla da dire a chi non lo riconosce come figlio di Dio, a chi non crede che un uomo possa essere richiamato dalle tenebre della morte alla luce di una vita senza fine?
A chi appartiene dunque questa gioia pasquale? Se rileggiamo il percorso umano di Gesù così come lo narrano i vangeli, ci possiamo rendere conto che in primo luogo è a Gesù stesso che appartiene la gioia. È lui che si rallegra della vita trascorsa tra la Galilea e la Giudea, di quell’esistenza dapprima nel nascondimento e poi nella vita comune itinerante con un gruppo di discepoli e alcune donne, nella predicazione pubblica, nel passare facendo il bene e narrando, raccontando Dio così come egli è: misericordioso e grande nell’amore.
È Gesù che gioisce per aver inaugurato con il prendersi cura dell’altro il prevalere della vita sui lacci del male e della morte, per aver aperto all’umanità la strada verso la condizione di “figli della luce e figli del giorno”. È lui che si è rallegrato di entrare nelle vicende quotidiane delle persone che incontrava per portarvi la pace, il perdono, la riconciliazione. È ancora Gesù che si è compiaciuto di assumere la condizione e il linguaggio umano, di aver riconosciuto la fede-fiducia di tante persone anonime e semplici, di aver saputo destare l’ardore nei cuori, di aver illuminato lo sguardo di chi non si era mai sentito riconosciuto e di aver indotto le vittime della violenza umana ad alzare il capo per scorgere l’imminenza della liberazione.
È di Gesù la gioia di una vita spesa per gli altri, in armonia con la creazione, godendo della familiarità con gli uccelli del cielo e i gigli dei campi. Ed è sua la gioia segreta di essere stato consolazione e nutrimento per gli affamati e assetati di pane come di senso e di conforto. Ma questa gioia di Gesù, una gioia piena che “nessuno potrà rapire” dal cuore dei discepoli, è anche la gioia, ancora oggi, di tutti quelli che nelle loro vite conoscono la sofferenza, di quanti sperano che il cielo non sia chiuso sopra di loro e che le loro esistenze possano conoscere una rinascita, di quanti attendono chi liberi il mondo da ogni violenza, estingua la fame, renda libertà ai prigionieri e la giustizia agli oppressi, conceda il ritorno ai lontani da casa, la salute ai malati, la forza agli anziani, la consolazione ai morenti.
È infatti l’umanità intera, anche quanti non conoscono né Dio né il suo disegno, che ospita in cuore il senso dell’eternità e si chiede cosa sperare. E sono in particolare i sofferenti, le vittime della storia che cercano a fatica, a volte per strade tortuose, una risposta ai perché di tante ingiustizie: sono loro a sapere, proprio per il loro assurdo patire, che “liberazione non è se non dalla morte” e dalle sue energie che tutto ammorbano. In questo senso allora la gioia di Pasqua è anche gioia dei credenti: una gioia non esclusiva né escludente, una gioia non privilegio di pochi, ma una gioia gratuitamente ricevuta dal loro Signore Gesù e poi gratuitamente condivisa con i fratelli e le sorelle in umanità, in particolare con gli ultimi, i poveri, i dimenticati.
È la gioia del sapere che attraverso le proprie vite fragili e contraddittorie, attraverso il proprio operare spesso incoerente, attraverso il farsi prossimo che la buona notizia della risurrezione può non solo raggiungere tutti, ma coinvolgerli in una capacità di sguardo nuovo sulle vicende umane, in una contemplazione delle meraviglie di Dio che, nonostante tutto, continuano ad accadere nella storia. In questa luce pasquale i cristiani ritrovano lo sguardo che scruta l’invisibile e coglie all’interno delle vicende quotidiane una promessa di vita che non muore.
Allora riconoscono la presenza del Vivente all’interno di una tomba, la presenza della parola fatta carne all’interno della Scrittura, la presenza di un corpo offerto come pane condiviso, la presenza dell’amore che non viene meno neanche quando si scatena la violenza di cui gli uomini sono capaci. Se è vero che non può essere “svuotata” la croce, è vero anche che non può essere svuotata la risurrezione di Gesù. Solo la fede, solo un evento di rivelazione può far accedere a questa convinzione che ormai la morte è vinta e dunque non siamo più schiavi di una paura della morte, né la nostra vita è più alienata da questa paura.
Ma ciò che la risurrezione significa può essere una sfida per tutti, cristiani o no: nella risurrezione, infatti, si afferma che l’amore vissuto fedelmente e in modo autentico – un amore di cui ogni persona è capace – è l’unica arma che abbiamo contro la violenza e la morte, è l’unica realtà che possiamo vivere per vincere la morte. Il mondo attende ancora oggi cristiani che sappiano narrare questa buona notizia, che con la loro vita svelino che “il solo e vero peccato è rimanere insensibili alla risurrezione”, come esclamava Isacco il Siro, che sappiano cantare a tutti e per tutti: “Non temete, non abbiate paura, non provate angoscia! Cristo è risorto e vi precede!”.
Sì, Pasqua è annuncio, anche contro ogni malvagia evidenza, che non vi è più alcuna situazione umana senza sbocco, condannata alla tenebre: la risurrezione del Signore spinge il cristiano a render conto della propria speranza nella salvezza universale, a pregare affrettando la venuta del Regno, ad attendere il giorno radioso in cui le lacrime di tutti i sofferenti saranno asciugate. Non la chiesa soltanto, ma l’umanità tutta, la creazione intera è destinataria delle energie che sgorgano incessantemente da quel sepolcro vuoto. La Pasqua apre per tutti l’orizzonte della vita piena, abitata dall’amore: possa questo grido di vita risuonare al più presto anche là dove le potenze di morte continuano a sferrare i loro micidiali attacchi. Davvero la gioia della Pasqua è gioia per tutti!
 Enzo Bianchi

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La patria della vita
I quattro che descrivono il suo passaggio sostengono che, morto, si sia rialzato dalla morte. È questo indubbiamente il punto di rottura in quella suggestiva storia d’Oriente. O ci si separa da lui su questo punto, e si fa di lui un sapiente come ce ne sono stati tanti altri, ma uno del passato, oppure lo si segue come uno che è vivo, che cammina alla testa di una immensa migrazione di uomini verso la vita, davanti a ricevere in faccia il vento, la morte, l’ingiuria, senza mai rallentare il passo.

I vangeli di Pasqua iniziano raccontando ciò che è accaduto alle donne in quell’alba piena di sorprese e di corse. La tomba, che avevano visto chiudere, è aperta e vuota. Lui non c’è. Manca il corpo del giustiziato. Ma questa assenza non basta a far credere.

È necessario un angelo a rimettere in moto il racconto: Non abbiate paura, non è qui (Mt 28,6). Che bello questo: non è qui! Perché Gesù va cercato fuori, altrove, è in giro per le strade, è il vivente. Il nostro è un Dio da cogliere nella vita. È dovunque, eccetto che fra le cose morte. È dentro i sogni di bellezza, in ogni scelta per un più grande amore, è dentro l’atto di generare, nei gesti di pace, negli abbracci degli amanti, nel grido vittorioso del bambino che nasce, nell’ultimo respiro del morente.

Vi precede in Galilea (Mt 28,7), là dove tutto era cominciato. Per dire: ogni strada del mondo è Galilea, e lui vi precede su ogni strada, con lui vivrete solo inizi. È il primo della lunga carovana dell’umanità incamminata verso la vita. Cercatelo con occhi attenti, occhi di Pasqua.

I pittori delle icone sono andati a cercarlo nel profondo delle cose. Rappresentano Gesù che abbatte e calpesta le porte della morte, che afferra Adamo per il polso, là dove si sente pulsare la vita e battere il cuore, ed Eva accorre, vestita tutta di rosso, vestita del sangue, del cuore, dell’amore, della carne dei suoi figli. Gesù afferra i primi per prenderci tutti dentro il suo risorgere. E la sua risurrezione non riposerà finché non abbia raggiunto l’ultimo ramo della creazione, non abbia rovesciato la pietra dell’ultima anima (Balthasar).

Gesù scende ancora nei sotterranei della storia, presso i dannati della terra, perché la terra ha i suoi dannati, nel fondo oscuro della storia e della materia, per darle energia ascensionale verso più luminosa vita. È disceso nel fondo del mio essere, nell’oscurità del cuore, nelle mie zone di durezza, di violenza e di sterilità, nelle profondità della materia e della persona, nella vittima e anche nel carnefice e ora è presente come forza di gravità celeste, come forza di attrazione verso l’alto, a mostrare che il carnefice non avrà ragione della sua vittima in eterno, che chi vive una vita come la sua ha in dono una vita indistruttibile.

Pietro (1 Pt 3,18) definisce lo Spirito della risurrezione come «facitore di vita» (zoopoieteis). Ed è uno dei sensi più profondi, più belli e attuali della Pasqua: Cristo a Pasqua è «facitore di vita» per chi lo accoglie, per chi lo segue, per chi lo attende. Fare la vita, sua e nostra vocazione; produrre vita perché la vita non è un fatto, è un farsi continuo, un crescere, una dilatazione, un accrescimento inesausto di tre cose: libertà, coraggio e amore. Non esiste libertà senza coraggio, amore non c’è senza libertà. E queste tre cose, amore libertà e coraggio, sono la patria della vita autentica, sono quell’altrove, il “non qui” indicato dall’angelo a ogni mai arreso cercatore di Dio.

Ermes Ronchi (Avvenire)

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L’aspra salita di Abramo e di Isacco, le nostre prove

di Luigino Bruni

"Dopo aver disposto la legna e legato Isacco sull’altare, sopra la pira, Abramo gli assicurò le braccia, si rimboccò la veste e premette forte su di lui con le ginocchia. Iddio, seduto sul trono eccelso, vide come i loro due cuori diventavano uno solo, vide le lacrime di Abramo che cadevano su Isacco, e quelle di Isacco che cadevano sull’altare, inondato dal pianto di entrambi” (Louis Ginzberg, Le leggende degli ebrei, Vol. II).
Ogni figlio nasconde un mistero di gratuità. Anche Isacco,sebbene in un modo unico e straordinario: «Sara tua moglie ti partorirà un figlio» (17,19). Abramo «rise, dicendo in cuor suo …"Sara all’età di novant’anni potrà partorire?"» (17,17). Non poteva credere a una promessa che violasse le leggi della natura (che quella stessa Voce aveva dato al mondo e alla vita). Anche Sara rise alle querce di Mamrè: «Proprio adesso che sono vecchia dovrei provare piacere?» (18,12). E riderà anche Elohim quando dirà il nome del figlio: «Isacco> (17,19), Jishaq, cioè «(Dio) riderà».
Abramo e Sara sapevano che Isacco era tutto e solo dono di quella prima Voce. Tutto il resto lo scoprono mentre lo vivono. Siamo noi lettori e ri-lettori di questi testi che sappiamo della “prova” del Monte Moria, dell’angelo e dell’ariete. Non loro: Abramo, Isacco, i servitori, Sara, non sapevano che cosa sarebbe capitato loro nel passo successivo a quello che stavano facendo. Se non prendiamo sul serio l’umanità reale di quelle lontane narrazioni e dei loro protagonisti, finiamo inevitabilmente per considerarle belle favole edificanti o racconti etici, e così li svuotiamo di tutta la loro forza antropologica, sociale, spirituale. Prenderli sul serio significa allora seguire Abramo, ripetere con lui le sue esperienze, "ignoranti" come lui, offrire come lui un figlio e come lui ritrovarlo. Solo una lettura "incarnata" della Bibbia può sconfiggere le consolazioni ingannatrici e le ideologie. Così ci incamminiamo con fiducia dietro una voce verso una terra promessa senza sapere se e quando la raggiungeremo; abbiamo finalmente un figlio, e poi scopriamo di doverlo abbandonare nel deserto; riceviamo un altro figlio in dono e poi dobbiamo perderlo di nuovo; andiamo con Caino nei campi e lì siamo uccisi da un fratello; portiamo una croce verso il Golgota, siamo crocifissi, e restiamo senza fiato per la risurrezione.
«"Abramo, Abramo". Rispose: "Eccomi". Riprese: "Prendi il tuo figlio, il tuo diletto che ami, Isacco, e vai nel territorio di Moria, e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò”» (22,1-2). La Genesi non fa dire nessuna parola ad Abramo. Dice solo che partì «di buon mattino» (22,3), come era partito di «buon mattino» (21,14) per allontanare Ismaele e Agar nel deserto. E come in quel lontano giorno della sua prima chiamata a Ur dei Caldei, Abramo risponde ancora partendo, camminando dietro la voce. Abramo si mise in cammino verso il monte Moria con la stessa fede-fiducia con cui era partito verso la terra promessa. È fedele alla voce e a se stesso chi risponde mettendosi in cammino nelle albe e nelle notti della vita. La fede-fedeltà-fiducia sta nel credere che la voce che ti aveva promesso la felicità può essere la stessa voce che ti richiede il figlio che ti aveva donato.
Abramo, vecchio, riparte ancora, riconoscendo in quelle parole la stessa prima voce. E se vogliamo oggi farci ridonare un figlio, se vogliamo continuare una storia di salvezza, dobbiamo rivivere quel racconto camminando con e come Abramo. Almeno una volta nella vita.
Rifà il viaggio salvifico di Abramo quell’imprenditoreGiulio, che dopo aver creduto nell’azienda di famiglia ereditata dai genitori, quando finalmente l’impresa iniziava a portare frutto e a intravvedersi giorni sereni, arriva una richiesta di una tangente da pagare per continuare il rapporto con il cliente più importante. Giulio non accetta, e mentre torna da quel colloquio indecente verso casa sa soltanto di avere ascoltato la voce dentro che gli diceva: «Meglio chiudere l’impresa che diventare corrotto e ingiusto». Non sa niente di più: è già molto, è sufficiente per continuare bene la salita del vivere, ma non sa nulla più di questo. Non sa di angeli che arriveranno, né che sta vivendo "soltanto" una prova.
Ripercorre la salita muta di Abramo quella baristaGiovanna, che aveva rilevato un locale in centro città, lo aveva liberato dalle slot per amore dei poveri della sua città e dei suoi bambini, perdendo così duemila euro al mese; e ora che con grande fatica il bar sta iniziando a funzionare, ecco che si presenta qualcuno a chiederle il pizzo. Giovanna dice di no, perché una voce le dice: «Meglio il negozio incendiato che perdere l’anima». Ascolta e conosce solo queste poche parole interiori, vuol vedere soltanto questa contabilità morale.
È amica di Abramo anche Annauna giovane mamma che, riavuta in dono la salute al termine di una lunga ed estenuante cura, alla visita di controllo scopre una recrudescenza della malattia: non si incattivisce con la vita, l’accoglie docile e tenace, e torna a casa senza sapere che cosa accadrà su quel monte che l’attende. In queste autentiche avventure dell’anima e dello spirito, l’angelo arriva, se arriva, solo quando si è fatto tutto senza sapere che sarebbe arrivato. Questi angeli non annunciano il loro arrivo.
La storia di Abramo ci dice che le cose impossibili e incredibili possono – non debbono – accadere se si sa arrivare fino all’ultima parola del discorso della nostra vita. Dopo, solo dopo, si scopre, ogni tanto, almeno una volta, che quella che sembrava l’ultima parola era soltanto la penultima. Ma prima di averla pronunciata non potevamo conoscerla, perché era la parola donata. Il valore etico e spirituale di chi cammina con e come Abramo sta nell’arrivare sul monte col figlio la legna e il fuoco, preparare l’altare, e poi prepararsi a "morire" col figlio su quello stesso altare.
Ma Abramo è compagno e alleato anche di tutti coloro ai quali l’angelo non è arrivato: il bambino non si è salvato, l’impresa è fallita, il bar è stato bruciato, la malattia ha vinto. Abramo ci ama con la sua fede forte e docile nel tratto di strada che va dalla tenda di Sara fino all’attimo prima di sentire la voce dell’angelo che ferma il pugnale. La voce dell’angelo non aggiunge nulla al valore della fede di Abramo, anche se ci svela molto della logica e della natura di Elohim. Se Abramo avesse saputo prima dell’angelo, la sua esperienza sarebbe stata una "fiction", il figlio ridonato non sarebbe stato premio alla sua fede, ma un povero incentivo per partire più spedito di buon mattino.
Chi nella vita ha avuto il dono di "morire" e di "risorgere" almeno una volta, ha imparato che la resurrezione arriva solo se si è saputo morire. Mentre viviamo i nostri inverni non sappiamo se e quando arriveranno le primavere. Siamo come quei popoli antichi che dopo ogni tramonto non sapevano se il sole sarebbe risorto al termine della notte. Anche dopo mille resurrezioni, nostre e degli altri, quando si intravvede di nuovo un monte e una salita ci si rimette in cammino "ignoranti" come la prima volta, sapendo soltanto di dover camminare. Neanche Dio, almeno il Dio biblico, poteva sapere se Abramo sarebbe arrivato fino al termine della salita e avrebbe preparato l’altare: lo ha scoperto, stupendosi e forse commuovendosi, soltanto mentre Abramo impugnava il coltello. È questo stupore che rende ogni attimo della vita irripetibile e unico, e che dà un immenso valore al tempo, alla storia, alla nostre libertà e responsabilità.
Non è stata la logica di Abramo quella sulla quale abbiamo costruito l’Europa, l’Occidente, la modernità, il capitalismo. Il dominio della tecnica, l’utilitarismo economico, i calcoli costi-benefici, sono figli di Ulisse, dei greci e poi dei moderni. Non di Abramo. Se però il mondo non muore, se le buone imprese e le famiglie continuano a fiorire, è perché anche Abramo è vivo in tanti, e forse una sua eco resiste in tutti. Ci sentiremmo più amati dalla vita e meno soli sui monti Moria dell’esistenza se fossimo più coscienti di essere figli di Abramo ogni volta che, ad ogni costo, restiamo fedeli fino alla fine a una voce, a una promessa, a un patto, alla nostra coscienza, alla parte migliore di noi. Raccontiamoci allora gli uni gli altri la storia del monte Moria, di Elohim, di Isacco, di Sara, dell’altare, dell’angelo, dell’ariete. Ma soprattutto non smettiamo mai di raccontarci di Abramo.