giovedì 3 aprile 2014

"Ma costui sappiamo di dov’è; il Cristo invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia"



Quella delle Capanne era "la" festa, ricordava l'Alleanza e il tempo del deserto, le viscere nelle quali si è formato il popolo di Israele, il catecumenato dove ha imparato a conoscere Dio e se stesso: "…tutti i cittadini d’Israele dimoreranno in capanne, perché i vostri discendenti sappiano che io ho fatto dimorare in capanne gli Israeliti, quando li ho condotti fuori dal paese d’Egitto" (Lv 23:41). Al tempo di Gesù aveva fortissime connotazioni messianiche, profetizzando il tempo in cui “il mio popolo abiterà in una dimora di pace, in abitazioni tranquille, in luoghi sicuri” (Is 32:18). L'aria era pregna d'attesa. La schiavitù e l'asservimento a Roma erano divenuti impossibili. La Festa cadeva in settembre al culmine del raccolto; per facilitare la raccolta, si rimaneva nei campi per tutta la settimana invece di ritornare a casa, abitando nella capanne costruite per l’occasione, anche in ricordo dei quarant'anni nel deserto. Accanto all'attesa, Israele celebrava dunque il compimento, che si apriva di nuovo all'attesa della nuova stagione. La speranza, infatti, non era un chiudere gli occhi sognando un futuro diverso, ma si radicava nella propria esperienza. Le capanne erano il segno di una promessa che iniziava a compiersi, il raccolto di un anno preludeva a quello del prossimo. La Festa delle Capanne era la celebrazione della fedeltà di Diola luce che illumina il cammino, l'acqua che disseta e dona la vita dove non c'è, Alleanza gratuita che sigilla un'elezione irrevocabile, misericordia che sostiene i passi incerti. Per questo era chiamata anche Festa della gioia; essa seguiva la grande espiazione di Kippur, l'esperienza del perdono che rigenera la comunità nella comunione fondata sulla gratuità della misericordia. Gesù giunge alla Festa di nascosto. Ed è un segno, perché Lui ne incarna il senso più profondo: la precarietà della capanna allude, infatti, alla sua carne, nella quale si cela la sua divinità. E' Figlio di Dio, ma lo è in una carne del tutto simile a quella dei suoi "fratelli". Gesù è lì per ridestare la loro memoria, perché i Giudei possano scendere al cuore di quello che stanno celebrando. Gesù è il compimento, e, nascosto tra la folla, celebra la festa con il Popolo, come si cela nella storia di ciascun uomo, perché possa scoprire, al fondo di ciò che vive ogni giorno, il compimento della propria vitaGesù è la gioia, perché in Lui la vita ha senso e compimento. Le capanne o tende rammentavano la promessa ricevuta, per ridestare la speranza e accogliere il compimento: "Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell'amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore" (Os. 2,21-22). San Giovanni descrive l’Incarnazione alludendo alla tenda: "E il Verbo si fece carne e costruì la sua “skēnē” (la sua tenda) in mezzo a noi". La tenda era il luogo dove riposarsi durante il raccolto e durante il cammino dell'esodo; così, paradossalmente, proprio la carne costituisce il luogo dove riposarsi e riprendere le forze, dove sostare. Ma essa è segnata dalla precarietà, è un'orma sul cammino, un memoriale, non è l'origine, non è il sostegno, non è ciò che dà senso e gioia alla vita, esattamente come non lo era il Tempio di Gerusalemme dove, non a caso, il Signore si trova ad insegnare. Fermarsi alla carne conduce ad ucciderla: una relazione che si ferma ad essa e non cammina verso il suo compimento, si risolve, inevitabilmente, in un voler possedere l'altro, in una conoscenza parziale attraverso la quale imprigionare e gestire, mentre la stolta architettura senza fondamento di affetti sregolati e passioni è destinata a franare. Come è accaduto ai  Giudei, che inciampano sulla tenda visibile, arrestandosi sulla soglia del mistero che il segno contiene e indica, e "decidono di arrestare" l'amore. Ai loro occhi, Gesù era troppo uomo, troppo "comprensibile"... Il Messia, invece, porrà termine a tutta questa incertezza, alla dura fatica della vita; finirà il tempo dell'attesa, smonteremo le capanne, metteremo radici e nulla più ci creerà problemi. E invece, nel bel mezzo di questa attesa che si fa concupiscenza, ecce homo, ecco l'uomo. Come tutti, debole, fragile e precario. Anche Lui in una capanna, la sua vita come quella di ciascuno di noi, in una barca in mezzo alle onde. Per questo non può essere il Messia: Nazaret, la Galilea, niente studi, niente lignaggio, neanche un sacerdote, un rabbino tra i parenti! Troppo umano, semplicemente uomo. No. Conosciamo fin troppo bene quest'uomo. Non è di Lui che abbiamo bisogno, ma di forza, intelligenza, programmazione e tanti bei miracoli a risolvere le nostre sofferenze e porre fine alla precarietà. Un Messia come un distributore automatico di miracoli, ecco chi stiamo aspettiamo. E, nell'attesa, ci portiamo avanti il lavoro, aiutiamo Dio a fare il suo mestiere, secondo i nostri gusti e le nostre conoscenze, quelle apprese un giorno nel Giardino dinanzi all'albero della vita, sedotti dal serpente... Ci facciamo dio, idolatriamo la carne perché essa idolatri noi, e il Tempio destinato a Dio è trasformato in un mausoleo al nostro io: così con il coniuge, con i figli, i colleghi, gli amici; così con noi stessi. Crediamo di "conoscere da dove venga" chi ci è accanto, e, certamente, nell'ambito della carne, lo sappiamo. Ma non sappiamo riconoscere nel prossimo le sembianze del Figlio di Dio, perché serrati nella falsa certezza che non può incarnarsi in quella debolezza. Pensiamo che il Messia debba venire da chissà dove, da un carattere smussato, un corpo trasformato in quello di una modella, un amore da sogno, lavoro, denaro e salute; invece Egli bussa alla nostra porta attraverso la carne debole del marito, della moglie, del figlio, del contratto a termine, della salute malferma, della storia e delle persone che si avvicinano a noi. La Buona Notizia, infatti, è proprio la precarietà, rivelata nelle capanne, in un Servo che si fa ultimo, un Agnello che si fa macellare; in un Uomo che è Dio e rende divina ogni precarietà, che fa della vita, quella che oggi siamo chiamati a vivere, un prodigio. Ogni lacrima, ogni angoscia, ogni dubbio, ogni paura, ogni dolore, tutto è assunto dal Dio fatto uomo, trasfigurato e divinizzato. Lui, il Messia, scende nel nostro deserto per farne un Giardino come il paradisoper deporre la vita nella morte. Il Messia, Gesù, non cambia nulla, neanche una virgola delle nostre esistenze; le assume, le fa sue, le rende divine, le ricolma di Vita e le fa sante. Per questo siamo chiamati a vivere nelle capanne senza scendere dalla Croce di cui esse sono immagine e profezia, in una totale precarietà, stretti nell'intimità con il Signore. Così la relazione con il Signore diviene il modello per ogni relazione. Dimorare e camminare nella precarietà della capanna significa essere crocifissi con Cristo; concretamente, ciò si realizza vivendo ogni rapporto nella carne con gli occhi e il cuore fissi su Colui che essa nascondeContemplare nel prossimo il Mistero Pasquale del Signore, e così intercettare il prodigio in corso d'opera che, nella precarietà della tenda, sta costruendo una dimora per l'eternità. Guardare un figlio con questi occhi, come il Tempio che Dio ha scelto per sua dimora, il Santo dei Santi dove dispensare la Grazia del perdono... come cambierebbero le parole, gli sguardi, gli atteggiamenti... La bellezza della fidanzata, la simpatia dell'amico, la tenerezza dei figli, la fratellanza della comunità, sono i rami di palma, i Lulav, agitati durante la Festa delle Capanne. Ad essi sono legati due rami di salice ('aravà) e tre di mirto (hadàs); a questi si aggiunge un cedro (etròg). La palma dà un frutto dolce, ma senza profumo; il salice non ha né sapore né profumo; il mirto ha profumo ma non sapore; il cedro ha sapore e profumo. Le quattro specie di vegetali legati nel lulàv simboleggiano i quattro tipi di persone in cui si può riassumere il genere umano. Alcune sono sapienti e generose, altre sapienti ma non generose, altre generose ma non sapienti, altre ancora né sapienti né generose. Il lulav è la carne preparata per accogliere la natura divina, la debolezza che fa festa allo Spirito, la sposa della vita immortale che, l'arca e il roveto ardente che portano e difendono il destino celesteL'umanità, qualunque essa sia, innesca l'amore, come i due occhi splendidi di una ragazza muovono il cuore all'innamoramento. Ma occorre entrare in quegli occhi e scoprirvi il Mistero che essi trasmettono. Dimorare nello sguardo dell'amata, nelle sue parole, nei suoi sorrisi, anche nei suoi difetti, cercando e fissando il "più in là", l'altra riva che essi, spesso nascostamente, indicano. Per questo la Quaresima ci invita all'intimità con Cristo dove tutto questo è plausibile, si può sperimentare. Per imparare da Lui a conoscere il Padre, "sapere" anche noi "da dove veniamo", nella certezza che nulla è a caso, ma che in ogni evento è il Padre che "ci invia" a compiere la nostra missione, manifestare il suo amore che supera ogni limite e ogni aspettativa.