martedì 22 aprile 2014

Sorprendenti questi gesuiti!



Borges e Bergoglio. 

Cinquant’anni dopo. Anticipiamo, nella traduzione dallo spagnolo di Francesca Casaliggi, l’articolo «Bergoglio e Borges cinquant’anni dopo. Una storia che risale al 1965» che sarà pubblicato nel blog di Alver Metalli «Terre d’America».
(Jorge Milia) È promettente la decisione del Pontificio consiglio della cultura di portare dal 26 al 29 di novembre a Buenos Aires il Cortile dei gentili. Un programma delineato da Benedetto XVI, poi continuato e potenziato dal Papa Francesco.

È promettente anche che la figura di Jorge Luis Borges sia il punto di partenza del prossimo appuntamento. Sebbene il nucleo fondamentale del Cortile dei gentili sia il dialogo, risulta degno di nota il fatto che la sua figura centrale sia quella del principale scrittore argentino, e una delle penne più significative della letteratura universale. Non sarebbe strano se questo nome fosse stato proposto — o imposto — dal Papa, due cose assai simili, in questa occasione: chi trascurerebbe una sua proposta?
Il fatto è che la figura di Borges, e soprattutto la sua opera, sono sempre state oggetto di rispetto e ammirazione da parte di Jorge Mario Bergoglio.
Una storia che risale al 1965 in cui quel giovane “maestrino” gesuita — che stava trascorrendo i suoi anni di docenza come professore di Letteratura nel liceo dell’Immacolata Concezione di Santa Fe — ebbe il coraggio di invitare lo scrittore per far lezione ai suoi alunni sulla letteratura argentina che si riferiva al gaucho. Un fatto che suona molto “racconto di Borges”, dato che il primo era uno sconosciuto studente gesuita e il secondo uno scrittore riconosciuto e ammirato dal mondo. Esserne stato testimone mi ha dato una visione un po’ speciale di quel rapporto e di ciascuna delle parti.
Conoscere Borges e poter parlare con lui a sedici anni è stata un’esperienza unica, incontrarlo otto anni dopo e chiedergli di quei giorni lontani che aveva trascorso a Santa Fe si tradusse in qualcosa di ineffabile, sia per la sua memoria prodigiosa, sia per la gratitudine a Bergoglio che gli aveva rivolto quell’insolito invito.
Conoscere Bergoglio come mio professore e poi stringere con lui questa amicizia speciale che perdura nel tempo è forse ancora più difficile da spiegare. Non sfuggo al fascino che muove le folle dietro al suo carisma in quanto Francesco. Però, anche se può sembrare antipatico, ciò che mi lega a lui è molto anteriore.
Non ho potuto superare l’idea che per la sua elezione a Papa io ho perso certi privilegi, come le sue chiamate telefoniche, o la conversazione franca tra amici. Ma, al di là di questo, mi sono assunto questa vicinanza come una responsabilità, quella di dare testimonianza in qualche modo di colui che ho conosciuto e con cui ho costruito un’amicizia che dura nel tempo. Forse per questo tale invito ha per me un significato speciale. Devo a Bergoglio l’aver conosciuto Borges, prima attraverso la sua opera, poi personalmente e più tardi di essere “prologato” da lui, di aver avuto una sua prefazione insieme ad altri sette compagni in un volumetto che si intitolò Racconti originali per insinuazione o proposta — chi gli avrebbe detto di no? — dello stesso scrittore. Una manciata di storie che lui aveva chiesto gli fossero lette e per le quali immaginò il destino di un libro.
L’insistenza del nostro professore di letteratura riguardo alla lettura dell’opera di Borges arrivava fino al finisterre della nostra pazienza giovanile, ma poi, una volta rotta la diga di coloro che cercavano di screditare la letteratura di Borges dicendo che era per iniziati, ciascuno si muoveva nel labirinto di storie e poemi, pieno di eroi mitologici e di piccoli personaggi dei sobborghi di Buenos Aires che forse, solo forse, avevano qualche aspetto degli eroi e che, come quelli raffigurati dalla mitologia o dalla storia, avevano anche le loro miserie. E così la nostra fantasia travolta dal genio ci fece immaginare di essere come “un soldato di Urbina”, Juan Iberra, il Caino di Buenos Aires che cantò in una milonga o quell’“Uomo dell’angolo rosa”.
Quando, anni dopo, incontrai casualmente Borges al tavolo di un caffè mentre firmava volumi delle sue opere complete — dicitura che secondo lui racchiudeva una certa menzogna, perché non era ancora morto e le opere complete, per essere tali, richiedevano l’espletamento di tale pratica — ed ebbi la temerarietà di presentarmi, salutarlo e spiegargli come e quando lo avevo conosciuto, Borges mi invitò a sedermi a bere un caffè, che secondo lui avrebbe pagato il libraio. Gli ricordai la sua visita al liceo dell’Immacolata e la sua prodigiosa memoria evocò dati precisi.
Fra tutto quello che disse, ciò che più lo affascinava era come quegli adolescenti — cioè noi — potevano aver letto tanta parte della sua opera. Un po’ scherzando e un po’ sul serio gli dissi che il responsabile era Bergoglio il quale ogni giorno ci perseguitava con le opere di Borges.
Si mise un po’ a ridere, strizzò gli occhi come ricordando qualcosa e disse più o meno: «Sono sorprendenti questi gesuiti! Hanno un non so che di inspiegabile, non è vero?» Io sono sicuro che il «non so che» di «questi gesuiti» si riferiva a Jorge Mario Bergoglio.
Non riesco a immaginarmi il Cortile dei gentili, forse lo idealizzo. Il suo nome mi spinge a fare congetture e l’idea che questa volta il protagonista sia Borges, me lo fa vedere lì seduto, non in un ambiente accademico, ma su una scalinata di pietra, in un cortile vero, circondato da gentili e fuori dal tempo. Come diceva lui della sua città: «Mi sembra un racconto che Buenos Aires abbia avuto inizio / la considero tanto eterna come l’acqua e l’aria». E anche Borges.
L'Osservatore Romano