martedì 1 aprile 2014

Tema: Che cosa insegna Leopardi all’uomo di oggi?

leopardi

In un mondo in cui sembrano dominare l’homo oeconomicus, che pensa a soddisfare i suoi bisogni e i piaceri, e l’homo technologicus, che provvede a fare e a realizzare sempre meglio, Leopardi riporta in primo piano l’unico uomo che sia veramente tale, che non sia bestia e gregge. Quell’homo religiosus con le sue domande sulla vita e sul destino, che permangono oggi come un tempo con tutta la loro urgenza di risposta e che riecheggiano con potenza nei versi del Canto notturno quando il poeta si rivolge alla Luna: «Ove tende/ Questo vagar mio breve,/ Il tuo corso immortale? […] Che fa l’aria infinita, e quel profondo/ Infinito sereno? […] E io che sono?».
Nella società dove comandano i bisogni, Leopardi chiarisce il vero e originario desiderio dell’uomo (di felicità, di amore e di bellezza) e ci parla di un cuore che è capacità di Infinito, proprio come se fosse un contenitore che non può mai essere colmato da beni terreni finiti.
Ciò che occorre davvero al lettore di Leopardi è un cuore aperto e che domandi la vita. Solo un cuore che palpiti e che percepisca l’abisso di vita che provava Leopardi può cogliere il vero valore della sua opera. Leopardi, come pochi altri, riesce a ricordarci la vera statura dell’uomo e la grandezza del suo desiderio.
Leopardi ha intuito che per l’uomo l’unica e autentica possibilità di letizia è quella di incontrare la bellezza con la «b» maiuscola, cioè l’Ideale. Lo vediamo nella poesia «Alla sua donna». L’unica speranza è quella di percorrere un sentiero nuovo, diverso da quelli fino ad allora percorsi e di incontrarla, così come spesso Leopardi sperava da giovane. Questa bellezza è quanto di più grande l’uomo possa immaginare in terra: è la Bellezza con la «b» maiuscola, l’Ideale. Se qualcuno la amasse, la sua vita sarebbe più felice, sarebbe come quella che nel cielo «india», cioè porta a Dio; se l’amasse, l’uomo cercherebbe la virtù, la bontà. Leopardi sembra avvertire l’urgenza di Dio e lo invoca, lo sfida a epifanizzarsi: è un grido umanissimo (perché Dio non ti riveli?) che si tramuta in preghiera  o in invocazione (Dio rivelati).
Potremmo allora chiederci quale fosse il rapporto di Leopardi con il cristianesimo. Ad un certo punto della sua vita il poeta afferma che le sue idee si completano con il cristianesimo, che può spiegare quella parte della «natura delle cose» che nel suo sistema resta «oscura e difficile», ad esempio l’origine dell’uomo e la facilità dell’uomo a decadere e a «perdere il suo stato primitivo»  (peccato originale). Chiunque leggesse queste pagine della miscellanea del Recanatese rimarrebbe stupito nel cogliere come lo scrittore, ad un certo punto della sua vita, avvertisse l’estrema ragionevolezza del cristianesimo, la sua capacità di fornire ragioni adeguate ai perché dell’esistenza e al Mistero delle cose. «Il Cristianesimo spiega chiaramente perché la ragione e il sapere corruttori dell’uomo siano in lui così facili a prevalere, giacché attribuisce la cagione originale e radicale della corruzione al peccato, il quale introdusse lo squilibrio fra la ragione sua e la natura sua […]. Ora, secondo lo stesso Cristianesimo, era certamente meglio che l’uomo non peccasse: ed egli sarebbe rimasto più perfetto e più buono non peccando, e non corrompendosi, e questo gli era destinato primordialmente. Eppure Iddio permise che peccasse». Per Leopardi il cristianesimo rimane un fatto intellettuale, il Recanatese ne coglie la ragionevolezza, ma il giudizio della ragione non è supportato dalla efficacia della affettività e dell’esperienza. Leopardi, così, prenderà ben presto le distanze da quel  cristianesimo della madre per cui sarebbe meglio non vivere che peccare.
Di questo allontanamento e delle ragioni abbiamo testimonianza già nel settembre del 1821 nella prosa dello Zibaldone: «Il Cristiano fugge il mondo per non peccare in se stesso o contro se stesso, cioè contro Dio […]. Che vantaggio può venire alla società, e come può ella sussistere, se l’individuo perfetto non deve far altro che fuggir le cose per non peccare? Impiegar la vita in preservarsi dalla vita? Altrettanto varrebbe il non vivere. La vita viene ad essere come un male, come una colpa, come una cosa dannosa, di cui bisogna usare il meno che si possa, compiangendo la necessità di usarne, e desiderando esserne presto sgravato».
Invece, non è un ragionamento, ma un incontro che decide dell’esistenza: un affetto e un abbraccio, non un discorso o una morale! Già qualche anno prima Leopardi scriveva nello Zibaldone: «La perfezione della ragione consiste in conoscere la sua propria insufficienza a felicitarci». E poi: «La ragione non può essere perfetta se non è relativa all’altra vita (è la ragione al suo apice che si apre alla fede, spalanca la sua finestra sul Mistero) [...]. Un ritorno della ragione, non ragionato, ma solamente volontario, non può esser che vano, instabile e passeggero, come quello de’ moderni filosofi sensibili, che, cercando a più potere di riprendere le illusioni perdute, ci riescono, al più, momentaneamente, e del resto passano la vita nella freddezza, indifferenza e morte. Dopo la cognizione pertanto, non possiamo tornare alle illusioni, cioè ripersuadercene, se non conoscendo che son vere. Ma non son vere se non rispetto a Dio e a un’altra vita (tutto è effimero e passeggero a meno che non sia salvato da qualcosa di infinito, da Qualcuno che promette che ogni capello del nostro capo è contato ed è salvato). Rispetto a Dio ch’è la virtù, la bellezza ecc. personificata (qui sta parlando della cara beltà del canto «Alla sua donna»), la virtù sostanza e non fantasma […]. Rispetto a un’altra vita, dove la speranza sarà realizzata, la virtù e l’eroismo premiato, […] dove insomma le illusioni non saranno più illusioni ma realtà. Dunque la perfezion della ragione (tanto rispetto a questa come all’altra vita, perché ho mostrato che la perfezione rispetto a questa vita dipende dalla perfezione rispetto all’altra) consiste formalmente nella cognizione di un altro mondo. In questa cognizione dunque consiste la perfezione e quindi  la felicità dell’uomo corrotto. Dunque l’uomo corrotto non poteva essere perfezionato né felicitato se non dalla rivelazione, ossia dalla Religione».
E ancora: «L’esperienza conferma che l’uomo qual è ridotto, non può essere felice sodamente e durevolmente (quanto può esserlo quaggiù) se non in uno stato (ma veramente) religioso, cioè che dia un corpo e una verità alle illusioni, senza le quali non c’è felicità, ma ch’essendo conosciute dalla ragione, non possono più parer vere all’uomo, come paiono agli altri viventi, se non per la relazione e il fondamento e la realtà che si suppongono avere in un’altra vita». Ciò che dà consistenza alle cose è solo la persuasione di un’altra vita»; «dunque bisogna che la religione ci persuada». Leopardi afferma che occorre una fede ragionevole, ben fondata sulla ragione, che conosca le ragioni adeguate per cui avere fiducia, bisogna sapere perché credere. Molte sono le domande che sorgono da questi estratti dello Zibaldone: come avere quella cognizione dell’altro mondo di cui parla il poeta? Come essere persuasi e credere  davvero?
Non può essere un discorso a persuaderci, non può essere un ragionamento, deve accadere Qualcosa di cui poter fare esperienza. Nella vastissima produzione del Recanatese, però, non ci imbattiamo mai nella lettura di testi che ci testimonino l’avventura dell’incontro. Esso è solo sospirato, vagheggiato come in un sogno oppure descritto come qualcosa che sta per accadere come nel «Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez».
Se Leopardi si sia aperto alla conversione in punto di morte rimane un mistero insondabile, ma credibile. Nella Chiesa Annunziata a Fonseca di Napoli troviamo l’atto di morte che recita: «A 15 giugno 1837 Don Giacomo Leopardi conte figlio di Don Monaldo e Adelaide Antici, di anni 38, munito dei Santissimi Sacramenti, a’ 14 detto mese, sepolto id. Deceduto Vico Pero n. 2». Non è possibile né opportuno sintetizzare qui ai fini del nostro discorso il dibattito aperto dagli studiosi sulla conclusione della vita di Leopardi. 
Giovanni Fighera
Tempi

*

Perché a scuola si insegna che Leopardi era solo un pessimista?


Nel primo mese di scuola della quinta superiore la maggior parte degli studenti in Italia studia uno dei massimi poeti di sempre: Giacomo Leopardi. Quando si presenta la figura di Leopardi nelle classi, bisogna fin da subito sfrondare i pregiudizi a cui i ragazzi sembrano essere affezionati quando si parla dello scrittore, pregiudizi preconfezionati da tanta letteratura, da tanti «intellettuali che sanno», da molti professori che si accontentano del giudizio altrui su un autore, senza cercare di incontrarlo con il proprio cuore, come si incontra qualcuno che si aspetta da gran tempo. Ecco allora che dopo alcune lezioni incentrate sulla natura della domanda di felicità espressa in maniera geniale dal poeta, i ragazzi iniziano  a riscontrare una corrispondenza tra il desiderio espresso nelle pagine del Recanatese e il proprio cuore e ad avvertire una dissonanza tra quanto hanno sentito o letto e la parola che più incombe in maniera immeritata su tutta la produzione leopardiana: la parola pessimismo.
Questa parola è come una frana  che cade dal monte sul bel paesino che è a valle, portando distruzione e rovina in tutto ciò che incontra, non lasciando altro che devastazione cosicché della bellezza che c’era prima in quel luogo nulla più rimane. Lo stesso accade per qualsiasi autore che venga bollato di «pessimista», nel gergo dei ragazzi «lo sfigato»: l’espressione all’istante incenerisce  la bontà delle intuizioni e del pensiero e cancella la bellezza della poesia. Le semplificazioni riducono la complessità dell’animo, le domande del cuore.
Si tratterà, allora, di scoprire se non sia più adeguato il termine realismo per gran parte dell’esplorazione umana compiuta da Leopardi sul cuore dell’uomo. Se di fronte a tante pagine dello Zibaldone, i ragazzi sentono una vicinanza, una sintonia, un calore, la percezione che quanto loro avevano nel cuore è stato espresso in maniera più lucida, chiara (perché il genio esprime meglio di noi ciò che noi sentiamo vero, ma non riusciremmo a tradurre in immagini, parole, musica), sarà il segno  che sul piano della descrizione e rappresentazione dell’animo umano Leopardi ha raggiunto un livello di semplicità (nel senso di non doppiezza e falsità) e, nel contempo, profondità rari, se non unici. Se, poi, molte sue conclusioni sono similari a quelle di un libro veterotestamentario come il Qoelet o a quelle di un autore cattolico come il Manzoni significherà pure che c’è grande sintonia tra la visione antropologica giudaico – cristiana e quella leopardiana, almeno nelle premesse e nell’impostazione del problema.
Anche nell’ultima fatica di Pietro Citati intitolata Leopardi edita da Mondadori si legge che nel cuore della giovinezza del Genio recanatese «un sistema di malattie si impadronisce del suo organismo […]; il sentimento, l’entusiasmo si dileguano; l’infelicità umana è irrimediabile. Non gli resta che sopportare». La tradizione critica vuole che Leopardi in maniera scettica e titanica abbia combattuto contro la natura, mai arrendendosi, ma si sia arreso al desiderio di felicità.
Centinaia di lettere indirizzate agli amici, ai familiari, alle donne da lui amate, agli intellettuali costituiscono il romanzo autobiografico di Leopardi e rivelano un cuore che palpita, che prova grandi affetti, che desidera in maniera instancabile la felicità. La lettura delle epistole scagionerebbe l’autore una volta per tutte dalle malevole accuse di misantropia da cui dovette difendersi in vita e che gli furono mosse anche dopo morte. Il cuore del corpus epistolare è il desiderio di vivo affetto, l’entusiasmo per le persone che si accompagna alla ricerca di rapporti che siano di totale condivisione dell’anima, la perenne ricerca di una felicità che non sia banale, ma completa.
Particolarmente significativa è una lettera che Leopardi indirizza all’amico belga A. Jacopssen il 23 giugno 1823. Ne riportiamo, qui, una buona parte. Essa ben testimonia il cuore di Leopardi e il nucleo delle domande vive che lo animano:
«[…] Senza dubbio, mio caro amico, bisognerebbe o non vivere proprio o sempre sentire, sempre amare, sempre sperare. La sensibilità sarebbe il più prezioso di tutti i doni, se lo si potesse far valere, o se ci fosse a questo mondo qualche oggetto a cui applicarlo. […] In verità, mio caro amico, la gente non conosce affatto il proprio reale interesse. Io converrò, se si vuole, che la virtù, come tutto ciò che è bello e tutto ciò che è grande, non sia che un’illusione. Ma se questa illusione fosse comune, se tutti gli uomini credessero di potere e volessero essere virtuosi,  se fossero compassionevoli, caritatevoli, generosi, magnanimi, pieni d’entusiasmo; in una parola, se tutti fossero sensibili (giacché io non faccio alcuna differenza tra la sensibilità e quello che si chiama virtù), non si sarebbe forse più felici? […] Nell’amore, tutte le gioie che provano le animi volgari, non valgono il piacere che dà un solo istante di rapimento e d’emozione profonda. Ma come far sì che questo sentimento sia duraturo, o che si rinnovi spesso nella vita?  dove trovare un cuore che gli corrisponda? In più d’una occasione  io ho espressamente evitato per qualche  giorno di  incontrare l’oggetto che mi aveva  affascinato in un sogno delizioso. Io sapevo che quel fascino sarebbe svanito accostandosi alla realtà. Tuttavia io pensavo sempre a   quell’oggetto, ma non lo consideravo per quel che era; lo contemplavo nella mia immaginazione, tale quale mi era apparso nel sogno. Era una follia? Son io romantico? Voi giudicherete. […] Che cos’è dunque la felicità, mio caro amico? e se la felicità non esiste, che cos’è dunque la vita? Io non ne so nulla; vi amo, vi amerò sempre così teneramente, così fortemente come ho altre volte amato quei dolci oggetti che la mia immaginazione si compiaceva di creare, quei sogni nei quali voi fate consistere una parte della felicità. In effetti non spetta che all’immaginazione di procurare all’uomo la sola specie di felicità positiva di cui egli sia capace. È vera saggezza cercare questa felicità nell’ideale, come voi fate. Quanto a me, io rimpiango il tempo in cui mi era concesso ricercarla, e vedo »»con una sorta di sgomento che la mia immaginazione sta diventando sterile, e mi rifiuta tutto quel soccorso che mi offriva in passato.[…]»
Colpisce il tono affettuoso che anima il testo, caratteristico delle lettere in cui Leopardi si rivolge ad amici con cui condivide profondamente pensieri, esperienze di vita, aspettative e domande  sull’esistenza. Jacopssen è ripetutamente apostrofato proprio con il termine «amico», colui che ha «confidenza» con l’altro e  conosce «i segreti di un cuore»che è oggetto di «devozione» e del «più vivo attaccamento». Appare interessante il fatto che l’amicizia è così richiamata proprio in una lettera in cui Leopardi mette a tema la domanda di felicità che alberga nel cuore dell’uomo. Il poeta descrive la grandezza dell’attesa dell’animo umano e, nel contempo, l’esperienza del deserto, dell’inutilità e dell’inanità del tutto, del vuoto dell’esistenza, della vanitas vanitatum di cui parla il libro di Qoelet. Le cose appaiono sempre insufficienti e inadeguate alla capacità dell’animo. La consapevolezza del proprio desiderio, della precarietà del proprio essere e della finitudine dei beni non si traduce, però, in cinismo o in scetticismo, ma in domanda. Così Leopardi chiede all’amico Jacopssen: «Che cos’è, dunque, la felicità? E se la felicità non esiste che cos’è dunque la vita?». Non è finta modestia o falsa umiltà, presente spesso in molti intellettuali o in tanti uomini di cultura, ma desiderio autentico di attingere una possibile risposta dall’esperienza di un amico. La domanda più vera e connaturata al cuore dell’uomo riguarda la felicità, ma l’uomo può sostituirla con l’ambizione e la pretesa di essere buono o di essere sempre migliore in un titanismo che non dà sollievo all’umana arsura  oppure la rimpiazza con altre domande che riducono la statura della domanda di felicità o con risposte preconfezionate, in un atteggiamento da «bruto» dantesco o da «gregge» leopardiano. Nessuno sforzo umano può riuscire a colmare quel desiderio di infinito che sentiamo nel cuore né tanto meno può giungere a cogliere da solo la natura di quell’infinito a cui l’uomo anela.
Per questo l’atteggiamento del cuore che emerge in questa lettera potrebbe preludere alla conversione. Leopardi, infatti, si rende conto che è vera saggezza cercare la felicità nell’Ideale e ha nostalgia dell’epoca in cui ancora perseguiva ciò. Il Recanatese riconosce che l’amico affronta la questione con «ragionevolezza e profondità».
Che cos’è questo Ideale a cui fa riferimento il poeta? Una risposta plausibile potrebbe già comparire nella lettera. Leopardi, infatti, dice chiaramente che la vita non può essere veramente tale senza l’esperienza di un grande amore. Quando uno ha sperimentato un grande amore, tutto il resto appare piccino. Dirà al riguardo il filosofo Romano Guardini: «Nell’esperienza di un grande amore tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito». Per questo, a detta di Leopardi, nella vita non bisogna perdersi in amori volgari, ma occorre ricercare l’amore vero, l’emozione profonda, quella che tocca il cuore. Perché la vita possa definirsi davvero tale deve essere caratterizzata dal «sempre amare, sempre sperare». L’uomo deve, perciò, trovare o imbattersi in qualcosa o qualcuno su cui riversare il proprio amore, che diventi così oggetto della propria sensibilità. In questo caso l’uomo vivrebbe con entusiasmo. Se l’uomo si abbandonasse all’entusiasmo, alla virtù, alla generosità, sarebbe più felice. Questa lettera è la prova più incontestabile che la domanda di felicità non è venuta meno in Leopardi anche nei momenti di maggiore sconforto.
All’età di venticinque anni Leopardi è già ben cosciente che il cuore dell’uomo è desiderio e capacità di Infinito, proprio come se fosse un contenitore che non può mai essere colmato da beni terreni finiti. Nello Zibaldone lo scrittore aveva usato l’immagine del cavallo: «Se tu desideri un cavallo, ti pare di desiderarlo come cavallo e come un tal piacere, ma in fatti lo desideri come un piacere astratto e illimitato. Quando giungi a possedere il cavallo, trovi un piacere necessariamente circoscritto e senti un vuoto nell’anima, perché quel desiderio che tu avevi effettivamente non resta pago».
Nei Pensieri, scritti più tardi, Leopardi descriverà questo desiderio di felicità infinita con il termine «noia». Essa è «in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani,… il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile della spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo umano e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose di insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e nobiltà, che si vegga della natura umana» (Pensieri, LXVIII).
Pochi mesi più tardi della lettera a Jacopssen, nel canto «Alla sua donna» scritto nel settembre del 1823, il grande amore verrà identificato con la Bellezza con la «B» maiuscola. Leopardi chiede alla bellezza, a quella bellezza che traluce dal paesaggio naturale o dall’etereo volto di una donna, dove abiti, dal momento che al presente è difficile afferrarla o vederla: forse nell’età dell’oro, in un mitico passato, o in un futuro di cui a noi non è dato godere? L’unica possibilità per il poeta è quella di percorrere un sentiero nuovo, diverso da quelli fino ad allora percorsi e di incontrarla, così come spesso Leopardi sperava da giovane. Questa bellezza è quanto di più grande l’uomo possa immaginare in terra: è la Bellezza con la «b» maiuscola, l’Ideale.
Se qualcuno la amasse, la sua vita sarebbe più felice, sarebbe come quella che nel cielo «india», cioè porta a Dio; se l’amasse, l’uomo cercherebbe la virtù, la bontà. Al poeta (più in generale all’uomo), privato della Bellezza, basterebbe anche solo conservarne l’immagine in mezzo agli affanni della vita quotidiana. L’ultima stanza è una preghiera rivolta alla Bellezza. Leopardi la apostrofa invocandola a ricevere, ad accogliere quest’inno, sia nel caso in cui viva nell’iperuranio come una delle idee platoniche, sia nel caso in cui viva nei cieli superiori, lontano da noi. È il desiderio che l’Ideale, il Bello, l’Infinito sia qui tra noi, possa essere esperienza «di qua dove son gli anni infausti e brevi». È la preghiera che il Bello si faccia carne, possa assumere forma umana.
In quel «Se dell’eterne idee/ L’una sei tu, cui di sensibil forma/ Sdegni l’eterno senno esser vestita» Leopardi sembra avvertire l’urgenza di Dio e lo invoca, lo sfida a epifanizzarsi: è un grido umanissimo (perché Dio non ti riveli?) che si tramuta in preghiera o in invocazione (Dio rivelati). «Questo d’ignoto amante inno ricevi»: mai professione d’amore fu più esplicita per il Bello, per quell’Infinito che solo può dar senso alle nostre giornate!
Giovanni Fighera

Tempi