lunedì 14 aprile 2014

"È in gioco l'uomo"


Il Cardinale Caffarra: "È in gioco l'uomo"
di Lorenzo Bertocchi

A volte basta poco per cambiare le cose. All'ospedale S. Orsola di Bologna sono state fondamentali 19 ore, 4 minuti e 19 secondi. Quelli che ha vissuto su questa terra Giacomo, attimi di vita che hanno cambiato le cose.
Ora al S. Orsola si parla di “Percorso Giacomo”, un protocollo che vuole essere messo in pratica dal reparto di neonatologia per prendersi cura di quei bambini speciali che, come Giacomo, nascono e sono condannati a vivere pochi minuti. Il piccolo Giacomo, su cui pendeva una spietata diagnosi di anancefalia, è nato ed è stato accolto tra le braccia di mamma e papà, e dai suoi due fratelli. È stato con loro un tempo che può apparire insignificante e che, invece, è tempo pieno e denso. Questa esperienza ha messo d'accordo tutti al reparto sul fatto che bisognava fare qualcosa per affrontare queste situazioni.
Il ginecologo aveva detto a mamma Natascia, che aveva già affrontato la stessa situazione undici anni fa: “Non faccia la pazzia dell'altra volta.” In prima battuta Natascia aveva anche pensato di mollare, poi con l'appoggio del marito ha deciso di fare come undici anni fa con Michela. In mezzo un dialogo con il Cardinale Caffarra.
In un'intervista rilasciata a Massimo Pandolfi del Resto del Carlino, Natascia ha detto che è andata dal Cardinale per fargli tre domande: 1) il bimbo non ha il cervello. E' vita?; 2) è la seconda volta che capita. Non sarà un disegno del diavolo?; 3) dov'è adesso Michela? E dove andrà Giacomo?
Il Cardinale non si è tirato indietro e non ha preso scorciatoie. E ha dato rispote. La prima: è un bambino vero, e soprattutto è tuo figlio. Seconda: è un dono di Dio, perché il Diavolo non può dare e togliere la vita. Può solo allontanarti dalla verità ed è quello che sta cercando di fare. Terza: Michela è tra le braccia di Dio, ci andrà anche Giacomo.
Ma – dice Natascia – il Cardinale è andato oltre «mi ha preso le mani, me le ha strette forte e mi ha detto: io sarò sempre con te. Vai ogni giorno a San Luca, chiedi alla Madonna di aiutarti a correre come ti viene chiesto, ora non ce la fai perchè sei troppo lacerata. Ma chiedi aiuto! Chiedi, chiedi».
E così si è arrivati fino a quelle 19 ore, 4 minuti e 19 secondi, tutta la vita di Giacomo che su mamma Natascia “hanno inciso di più di 40 anni della mia vita”.
Di fronte alla recente sentenza della Consulta, che di fatto ha cancellato la Legge 40 aprendo il far west dei bambini in provetta, Caffarra non poteva che intervenire. Lo ha fatto con un comunicato dal titolo inequivocabile, “Perchè non posso tacere”.
Per chi conosce l'Arcivescovo di Bologna sa che la sua sofferenza, e anche la sua insofferenza, sono autentiche e ben fondate. Per quanto i detrattori si ostinino, le sue non sono considerazioni di carattere confessionale. Lo aveva già detto l'estate scorso rivolgendosi al sindaco di Bologna: si stanno mettendo in discussione delle evidenze che “a doverle spiegare vien da piangere”.
Nel comunicato pubblicato nell'inserto di Avvenire Bologna 7 Caffarra si riferisce non solo alla sentenza sulla fecondazione eterologa, ma anche a quella del tribunale di Grosseto che ha imposto l'iscrizione all'anagrafe di un matrimonio fra due uomini, e la decisione di un giudice di assolvere una coppia che era ricorsa alla pratica del cosiddetto “utero in affitto” in India per avere un figlio.
"Non è di condotte ciò di cui stiamo discutendo. - ha scritto l'Arcivescovo di Bologna - È la persona umana come tale che è in pericolo, poiché si stanno ridefinendo artificialmente i vissuti umani fondamentali: il rapporto uomo- donna; la maternità e la paternità; la dignità e i diritti del bambino. Sono in questione le relazioni fondamentali che strutturano la persona umana".
Sono temi da lui ben conosciuti, non a caso il Beato Giovanni Paolo II lo volle come primo preside dell'Istituto di studi su matrimonio e famiglia. E il caso di Giacomo dimostra concretamente come il Cardinale si metta in gioco fino in fondo, nel concreto.
"Non mi interessa l'aspetto etico della cosa, e non è di temi etici che parlo - avverte Caffarra. Purtroppo la questione è molto più profonda. E' una questione antropologica".


Il suo è anche il grido di un apostolo: Perchè Dio si è fatto uomo? Perché è morto crocefisso?» si chiede l’arcivescovo. «Non c’è che una risposta: perché ha amato perdutamente l’uomo». Dunque «ogni volta che ferisci l’uomo, che lo depredi della sua umanità, tu ferisci il Dio-uomo. Ecco perché non ho potuto tacere. Perché non sia resa vana la Croce di Cristo».

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Vegliare per la ragione

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di Andreas Hofer
Il pericolo consiste in questo: che l’intelletto umano è libero di distruggersi.
(G.K. Chesterton)
Esistono strategie precise per avvelenare il confronto di idee. Ha imparato a conoscerle bene chi, prendendo parte alla più recente veglia veronese delle Sentinelle in piedi, si è trovato a fronteggiare la marea montante di insulti, urla, frizzi e lazzi d’ogni genere elargiti con prodigalità da uno sparuto ma chiassoso drappello di militanti LGBT.
Dopo averli visti all’opera, viene quasi naturale pensare ai falsi ragionamenti che Aristotele vedeva legati all’uso delle parole. Sono le cosiddette «fallacie semantiche»: pseudo argomenti modulati sull’ambiguità e sull’equivoco, la materia prima dei sofisti d’ogni tempo.
La fallacia semantica mette in circolazione una falsa moneta simbolica: consiste nel celare una non-verità facendosi scudo dei differenti significati di una stessa parola. Gli esempi potrebbero essere innumerevoli: una sola parola, “calcio” ad esempio, può significare tanto l’elemento chimico quanto il gioco; “capo” può indicare sia la testa che il datore di lavoro.
«Zeitalter der Sophisten – unsre Zeit» («L’età dei sofisti: il nostro tempo»). La nostra è l’epoca della sofistica trionfante, scriveva nella primavera del 1870 l’insospettabile Friedrich Nietzsche. [1] E infatti è saturo, il nostro dibattito pubblico, di argomenti fondati sul sistematico avvelenamento della verità. [2] Non si sottraggono certo al campionario delle verità avvelenate anche le principali parole-talismano («riconoscimento», «diritto di cittadinanza») utilizzate dai partigiani del matrimonio omosessuale per sostanziare le proprie rivendicazioni.
Nel suo saggio Le mariage gay Thibaud Collin ha evidenziato l’abilità dialettica con cui il movimento gay ha saputo guadagnarsi il consenso dell’opinione pubblica volgendo a proprio favore l’ambivalenza semantica della moderna «politica del riconoscimento».
Charles Taylor, acuto indagatore del multiculturalismo, distingue infatti due accezioni contrastanti del termine «riconoscimento». Alla medesima espressione (recognition, nell’originale inglese) fanno riferimento tanto una accezione di stampo universalistico, che relega nella sfera privata le identità particolari a profitto dell’uguaglianza di diritti e doveri del cittadino, quanto una seconda accezione di matrice identitaria che, in contrasto con la prima, riflette la sollecitudine moderna per l’«autenticità» mettendo in rilievo le unicità delle singole identità. [3]
L’uso pubblico della fallacia dell’equivocazione propizia così surrettiziamente lo slittamento semantico – che al tempo stesso è un trasbordo ideologico – da «cittadino» a «gay», identificando formalmente queste due realtà. «È certamente lo stesso individuo che può essere gay e cittadino francese – osserva Collin –, ma volersi appoggiare sul fatto di essere cittadino (che in quanto tale ha diritti uguali a quelli di tutti gli altri cittadini) per reclamare dei diritti in quanto gay significa passare al secondo senso della parola riconoscimento, centrato su una identità (particolare e minoritaria) che si cerca di far accettare all’insieme del corpo sociale». [4]
Ma esistono anche altre tattiche per infestare il campo argomentativo.
1. Attivazione di «frames». Vi sono espressioni che evocano concetti, predispongono orientamenti politico-ideologici. Alcune espressioni sono tipicamente “progressiste”, altre sono tipicamente “conservatrici”, e via dicendo. Nell’atto di usare una espressione come «non siamo nel medioevo!» si attiva un quadro ideologico tipicamente progressista in cui ogni difesa dei valori tradizionali risulta debole, impacciata, già perdente in linea di principio perché rinserrata nel recinto semantico dell’oscurantismo (che, si sa, per definizione è cattolico).
I frames sono, pertanto, i quadri ideologici che plasmano un linguaggio politico. Sono strutture (frame, in inglese) di concetti legati tra loro da significati ben precisi. Danno luogo, scrive D’Agostini, a una sorta di «preorientamento del giudizio» in senso positivo o negativo.
Un modo tipico di attivare un frame negativo è l’uso di formule definitorie ad alto contenuto evocativo. Di eccezionale violenza – e pericolosità – è il ricorso a termini come «fascista», «nazista», «omofobo». L’uso di espressioni che evocano di per sé implicazioni negative (reductio ad Hitlerum) è pratica corrente in ogni forma di terrorismo intellettuale.
Il procedimento è sempre il medesimo. Occorre innanzitutto imprimere nell’immaginario collettivo un archetipo del male, suscitare una “figura funesta” dal senso indefinito, dai contorni alquanto vaghi, elastici. A questo punto è sufficiente assimilare il proprio avversario a questo archetipo maligno. [5]
Spogliare il nemico della sua umanità per farne un simbolo astratto del male. Non sfuggirà la violenza immanente all’uso di certi frames negativi. Sempre l’annientamento simbolico dell’umanità del “nemico ideologico” ha preceduto il suo annientamento fisico. È grondato di sangue, questo habitus mentale capace di trasformare gli uomini in fiere. [6] Ciò basta a capire perché dietro ogni violenza verbale si stagli, in agguato, il profilo della “parola che uccide”.
2. Provocazione. Fa parte della famiglia delle fallacie «esecutive». Qui parliamo della violazione più o meno palese delle norme di comportamento che regolano ogni dibattito. Si tratta di un’azione di disturbo che riguarda, più che i contenuti o i significati delle parole, il contegno di chi le usa e partecipa al confronto dialettico.
Con la provocazione si vuol far degenerare la controversia spingendo l’avversario a perdere le staffe. Suscitarne la reazione violenta in maniera tale da minarne la credibilità. I modi per produrre questo effetto sono potenzialmente infiniti. A questo scopo certo sono di particolare efficacia le continue interruzioni, l’insolenza diretta o indiretta (verso cose, persone, storie, tradizioni, idee e teorie stimate dall’avversario).
Il provocatore che si serve della parola occisiva è mosso dalla volontà maligna di procurare una scissione interiore. Vuole aprire una piaga nell’intimo di quell’organo del senso morale che è la coscienza. È fondamentale sapere, tuttavia, che la provocazione è l’arma della disperazione, l’espediente ultimo, estremo, di chi sente vacillare le proprie convinzioni.
Occorre, pertanto, vegliare fino a quando la ragione non si desterà dal sonno, finché non desisterà dai propri sogni di distruzione. Le Sentinelle vegliano non per distruggere il presente o per restaurare il passato, ma per riconciliare in forme nuove l’ordine della madre e quello del padre. Vegliano silenziosamente, perché il silenzio è la matrice dell’individuazione, ciò che rende compatta la persona, esatta antitesi dell’umanità indifferenziata promossa dalla società dei consumi. Saper reggere lo sguardo ostile e la violenza verbale senza cadere nel tranello della provocazione è incarnare la tranquillitatis ordinis, sintesi di pace e verità. Equivale a una dimostrazione di forza e maturità. È questa la terra sana, solida, su cui edificare un futuro migliore per tutti.
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[2] È utile qui la rassegna di Franca D’Agostini, Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico, Bollati Boringhieri, Torino 2010.
[3] Cfr. Charles Taylor, Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, tr. it. Anabasi, Milano 1993.
[4] Thibaud Collin, Le mariage gay. Les enjeux d’une revendication, Eyrolles, Paris 2005, p. 35.
[5] «L’accusa – scrive Jean Sévillia – può essere esplicita o essere mossa con insinuazioni, spalancando la porta a un processo alle intenzioni: ogni oppositore può essere attaccato non sulla base di quel che pensa, ma sui pensieri che gli si attribuiscono. Il manicheismo ha delle conseguenze vincolanti, si fonda in ultima istanza su un’altra logica: la demonizzazione. Non è questione di discutere per convincere: si tratta di intimidire, di colpevolizzare, di squalificare». (Jean Sévillia, Le terrorisme intellectuel de 1945 à nos jours, Perrin, Paris 2000, p. 10)
[6] La connessione tra parola omicida e disumanizzazione è lumeggiata con particolare chiarezza nell’intervista rilasciata da Silveria Russo, ex militante di Prima Linea, a Sergio Zavoli. «Allora tutto era mediato dall’ideologia e quindi dal vedere le persone come simboli. Per me quel magistrato o un’altra persone che si decideva di sopprimere era un simbolo, non era una persona». (Sergio Zavoli, La notte della Repubblica, Mondadori, Milano 1995, p. 385)