Il cardinale Amato parla delle tre canonizzazioni equipollenti.
(Nicola Gori) A poco più di tre settimane dalla canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, Papa Francesco procede ad altre tre canonizzazioni equipollenti dopo quelle di Angela da Foligno (9 ottobre 2013) e di Pietro Favre (17 dicembre 2013). Tra i decreti promulgati oggi spiccano infatti i nomi di Francesco de Laval (1623-1708), primo vescovo di Québec, di Giuseppe de Anchieta (1534-1597), missionario gesuita originario delle isole Canarie, e di Maria del-l’Incarnazione (1599-1672), orsolina francese, che il Pontefice iscrive nel catalogo dei santi estendendone il culto alla Chiesa universale. Ne abbiamo parlato con il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi.
Perché e cosa significano queste canonizzazioni equipollenti?
Conviene ricordare che già il 22 giugno 1980 Giovanni Paolo II aveva proclamato beati cinque servi e serve di Dio, protagonisti dell’evangelizzazione nelle Americhe: tra questi, oltre a Francesco de Laval, Giuseppe de Anchieta e Maria dell’Incarnazione, vi erano il terziario francescano Pedro de San José de Betancur (1626-1667), originario delle Canarie e missionario in Guatemala, nonché fondatore dei Fratelli Betlemiti, e la giovane nativa americana, Kateri Tekakwitha (1656-1680), di etnia irochese-mohawk-algonchina. Si tratta di un gruppo esemplare di battezzati, che manifestano la molteplicità delle vocazioni nella Chiesa: un vescovo, due religiosi, una religiosa e una laica. Tutti hanno dato con il loro esempio e il loro apostolato un contributo incomparabile all’evangelizzazione americana.
Due di loro sono già stati formalmente canonizzati: Pedro de San José de Betancur, il 30 luglio 2002, da Giovanni Paolo II, e Kateri Tekakwitha, il 21 ottobre 2012, da Benedetto XVI. Perché per gli altri tre si procede ora alla canonizzazione equipollente, che, per dirla in modo semplice, sembra omettere la considerazione del miracolo?
In realtà Papa Francesco, venendo incontro ai desideri e alle molte petizioni di vescovi e fedeli americani, che sognavano di vedere canonizzati gli altri tre beati, ha proceduto alla loro canonizzazione in modo equipollente. Tale canonizzazione non è arbitraria ma ben motivata. Essa, infatti, può aver luogo solo quando si verificano tre precise condizioni: possesso antico del culto, costante e comune attestazione di storici degni di fede sulle virtù o sul martirio e ininterrotta fama di prodigi. È questa la dottrina plurisecolare della Chiesa, ben teorizzata da Papa Benedetto XIV nella sua famosa opera sulla beatificazione dei servi di Dio e sulla canonizzazione dei beati. In questi casi — è ancora dottrina di Benedetto XIV — il Sommo Pontefice, di sua autorità, può procedere alla canonizzazione equipollente, cioè all’estensione del culto alla Chiesa universale, tramite la recita dell’ufficio divino e la celebrazione della messa, senza alcuna sentenza formale definitiva, senza aver premesso alcun processo giuridico e senza compiere le consuete cerimonie proprie di ogni canonizzazione. Come si vede, la fama dei miracoli non è affatto assente da questa canonizzazione, che ricompone il quintetto dei santi testimoni dell’evangelizzazione americana, quasi a evidenziare che ogni evangelizzazione, antica e nuova, ha come premessa e sorgente indispensabile la santità di una vita virtuosa.
Di Giuseppe de Anchieta ha parlato Papa Francesco l’estate scorsa a Rio de Janeiro. Che cosa ci può dire della sua figura?
Durante il viaggio in occasione della giornata mondiale della gioventù il Pontefice, parlando ai giovani, disse che il missionario gesuita aveva appena diciannove anni quando partì per il Brasile. Aggiunse anche che lo strumento migliore per evangelizzare i giovani è un altro giovane. Comunque l’Anchieta fu uomo di grande cultura, insegnante, negoziatore di pace, direttore spirituale, benefattore dei poveri e degli ammalati. Svolse una intensa attività missionaria tra le tribù indigene dell’entroterra, incontrandole e convertendole. Fu anche scrittore prolifico. Scrisse grammatiche in alcune lingue locali (tupi e guaraní), catechismi, prediche, canti, poesie, drammi religiosi, promuovendo un’autentica evangelizzazione inculturata. Ma soprattutto fu un apostolo di straordinaria vita interiore e di genuina santità.
Al Canada appartengono invece gli altri due santi. Chi era Francesco de Laval?
Apparteneva a una delle più antiche e nobili famiglie di Francia. Nominato da Papa Alessandro VII vicario apostolico della Nouvelle France, come allora si chiamava il Canada, fu il primo vescovo a raggiungere il Nord America. Per trent’anni esercitò un fecondo ministero pastorale per organizzare la Chiesa cattolica in un Paese ancora in stato di missione, svolgendo una straordinaria attività apostolica e missionaria, sia a favore dei pochi francesi ivi residenti sia soprattutto a favore dei nativi americani. Difese questi ultimi dall’alcol e dallo sfruttamento di cui erano oggetto da parte dei mercanti di pelli. Favorì la loro istruzione, difese il loro lavoro, promosse la loro dignità umana. La sua attività pastorale e missionaria si estendeva dal Canada fino alle regioni meridionali a nord del Messico, con l’erezione di parrocchie e seminari per la formazione del clero.
E l’orsolina Santa Maria dell’Incarnazione?
Marie Guyart — questo è il suo nome di battesimo — a diciotto anni si sposò e poi ebbe un figlio. Morto il marito, si rifiutò di passare a seconde nozze. Invitata dalla sorella, iniziò a lavorare nel commercio, accorgendosi di avere grandi doti manageriali e amministrative. Non le mancava un po’ di civetteria femminile. Nel segreto coltivava, però, il sogno di una vita interamente consacrata al Signore, anche perché iniziò ad avere straordinarie esperienze mistiche. Abbandonò così una certa eleganza nel vestire ed emise il voto di castità perfetta. Si può chiamare questa una prima conversione: dalla vanità alla semplicità e al raccoglimento. Particolarmente frequenti erano le visioni della Trinità, che la portarono a maturare una vita di unione col Signore in convento. Così entrò tra le orsoline di Tours e questa è la seconda conversione della sua vita, alla quale ne seguì una terza, quando ella decise, sentendosi chiamata da Dio, di recarsi come missionaria in Canada, dove si impegnò in particolare nella istruzione e formazione cristiana delle giovani indigene. Questo suo lodevole apostolato le procurò l’appellativo di apostola e madre spirituale della Chiesa canadese.
Qual è stato il suo contributo alla costruzione della società canadese?
Nel 2008, anno del quarto centenario della città di Québec, le celebrazioni hanno offerto l’occasione di sottolineare l’apporto anche civile dei fondatori religiosi, tra i quali un posto privilegiato occupò Maria dell’Incarnazione. Ella contribuì all’edificazione di una Chiesa e di una società in un nuovo mondo dalle condizioni difficili, dove tutto era da inventare per assicurare la sopravvivenza. Inoltre ebbe un ruolo considerevole nell’incontro con le popolazioni autoctone, accogliendo incondizionatamente le giovani amerindiane e le loro famiglie. Ne studiò le lingue, scrisse il primo dizionario urone-francese, compose preghiere in urone e algonchino, preparò opere di metodologia missionaria per consorelle e sacerdoti per una corretta opera di evangelizzazione inculturata.
Si tratta comunque di santi, che, almeno in Europa, non sono molto noti.
La fama dei tre nuovi santi è ancora oggi viva e diffusa. Limitandomi, ora, a Maria dell’Incarnazione, si può affermare che, oltre a una grande devozione popolare legata alla sua santità (i pellegrini alla sua tomba nel monastero delle orsoline di Québec sono decine di migliaia ogni anno), la sua figura e la sua opera sono state celebrate da film, opere teatrali e molti mezzi di comunicazione. Nel film intitolato Folle de Dieu (2008), di Jean-Daniel Lafond, era protagonista Marie Tifo, una delle attrici canadesi più note. Dalla pellicola è stato tratto uno spettacolo teatrale, con la stessa Marie Tifo, che sulle prime era titubante nell’accettare il ruolo della santa. Però, dopo il grande successo dell’opera, in cartellone sia in Canada sia in alcune città francesi l’attrice ha parlato con entusiasmo di questa donna fuori del comune.
C’è un filo comune che lega queste figure?
I tre santi sono ancora oggi testimoni coerenti e audaci di Cristo «il solo santo». C’è urgenza di apostoli coraggiosi del Vangelo. Nella loro comune vocazione missionaria c’è la traccia della fede immensa di Abramo e di Maria nell’obbedire a Dio e alla sua parola. Questo abbandono alla divina provvidenza fece fruttificare le loro opere, che proprio per questo divennero opere di Dio: opera Dei. I santi sono strumenti docili ma indispensabili perché Dio compia le sue meraviglie.
L'Osservatore Romano
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Il poema scritto sulla sabbia
(Montse Girbau) È stato missionario in Brasile, dove ha fondato la città di San Paolo, ma anche poeta, letterato, drammaturgo, linguista, tanto da essere considerato uno dei padri nobili della cultura del Paese. È il gesuita Giuseppe de Anchieta, grande evangelizzatore del Brasile e strenuo difensore dei diritti delle popolazioni indigene.
Nacque il 19 marzo 1534 a San Cristóbal de la Laguna, nell’isola di Tenerife. Suo padre, Juan de Anchieta, era un basco originario di Urrestilla, Azpeitia, terra di sant’Ignazio di Loyola, con la cui famiglia era imparentato. Sua madre, Mencia Díaz de Clavijo, era nativa di Las Palmas e discendente della nobiltà canaria.
Nacque il 19 marzo 1534 a San Cristóbal de la Laguna, nell’isola di Tenerife. Suo padre, Juan de Anchieta, era un basco originario di Urrestilla, Azpeitia, terra di sant’Ignazio di Loyola, con la cui famiglia era imparentato. Sua madre, Mencia Díaz de Clavijo, era nativa di Las Palmas e discendente della nobiltà canaria.
Nel 1548 Giuseppe de Anchieta e suo fratello si recarono in Portogallo per studiare all’università di Coimbra, retta dai gesuiti, una delle università più prestigiose del-l’epoca. Nel 1550 il provinciale del Portogallo, Simón Rodrígues, uno dei primi compagni di sant’Ignazio, lo ammise nella Compagnia di Gesù. Anchieta, animato dalle lettere che Francesco Saverio inviava dall’India, decise di diventare missionario.
Terminò il noviziato all’età di 19 anni e, malgrado i suoi problemi di salute, venne destinato alle missioni del Brasile. Il 13 luglio 1553 giunse nel porto di Bahia. Iniziò così per lui una vita apostolica straordinaria e intensa, che condivise in gran parte con il gesuita Manuel de Nóbrega, provinciale del Brasile, a cui fu legato da profonda amicizia.
La sua prima destinazione fu São Vicente, dove viveva la maggior parte dei gesuiti del Brasile. Durante il percorso l’imbarcazione su cui viaggiavano subì dei danni, per cui dovettero rifugiarsi sulla terraferma. Qui entrarono in contatto con gli indios e il giovane gesuita approfittò del tempo necessario alla riparazione della nave per imparare la lingua tupi. In quei giorni di sosta obbligata, mentre si abituava anche a cibarsi dei prodotti locali, dedicò tutte le sue energie all’apprendimento della lingua e dei costumi delle popolazioni indigene, cosa che sarà fondamentale per la successiva opera in Brasile.
Il 25 gennaio 1554 fece parte del gruppo di portoghesi che a Piratininga fondarono l’attuale metropoli di San Paolo. Lì Giuseppe de Anchieta costruì una maloca, una casa tradizionale comunitaria destinata a essere un centro missionario, che divenne un luogo di assistenza e di accoglienza per gli indigeni. In essa apprendevano il mestiere di falegnami e di artigiani, mentre i bambini imparavano a leggere e a scrivere. Da parte sua, Anchieta apprese dagli indigeni tecniche curative, nozioni di botanica e le proprietà delle piante, che iniziò a utilizzare sia per fini medici sia per ottenere fibre per la fabbricazione di calzature e di oggetti artigianali. Incoraggiò anche la costruzione di case di fango e mattoni.
Riuscì in breve tempo ad essere padrone della lingua indigena. Scrisse anche la prima grammatica della lingua tupi, che fu poi utilizzata dai suoi compagni. Questa grande opera fece di lui un “missionario di missionari”. Gli vengono attribuite anche la creazione e la traduzione di tre catechismi e di altre opere sulla realtà del Brasile e dei popoli indigeni. Anchieta fu inoltre poeta e drammaturgo, e scrisse in latino, spagnolo, portoghese e tupi. L’Accademia brasiliana delle lettere e l’Istituto storico e geografico brasiliano lo annoverano tra le grandi figure della cultura del Paese.
Nell’aprile del 1563, insieme al provinciale gesuita Manuel de Nóbrega, intraprese una spedizione per preservare la pace con la federazione degli indios tamoios. Nóbrega e Anchieta si addentrarono nel territorio degli indios e si presentarono a Iperui, dove viveva il più importante cacicco tamoio, Caoquira. Tra i tamoios i due compagni gesuiti vissero un’esperienza fatta di sforzi, di dialogo, di pericoli e di minacce, di apprendimento e di santità. Tutti i loro tentativi fallirono, ma Anchieta si guadagnò l’ammirazione e l’amicizia di alcuni dei cacicchi più importanti. E durante la sua permanenza fra i tamoios nacque il Poema a la Virgen, scritto sulla sabbia della spiaggia e da lui stesso memorizzato. Fu uno dei più agguerriti capi indigeni, Cuñanbebe, a riportarlo a São Vicente dopo diversi mesi di prigionia.
Poco dopo si trasferì nella baia di Guanabara dove i francesi, alleati dei tamoios, resistevano all’attacco dei portoghesi. Durante le battaglie, assistette i feriti di entrambi i fronti.
Giuseppe de Anchieta si trasformò così in un difensore dei diritti degli aborigeni e dei meticci, e condannò la caccia agli indios e il mercato degli schiavi. Nel 1566 venne ordinato sacerdote e tornò a Rio, dove era già stata fondata la missione di San Sebastiano. Qui, insieme a Nóbrega, ormai anziano, fondò un collegio.
Nel 1577 fu nominato provinciale e per otto anni percorse varie volte l’immenso territorio del suo Paese. Una delle sue preoccupazioni principali era di assistere e aiutare i malati e i moribondi. Mentre era provinciale, inviò in Paraguay i primi missionari, nucleo originale delle famose reducciones.
Morì il 9 giugno 1597 a Reritinga, che oggi ha assunto il nome di Anchieta proprio in suo onore. Il popolo e la Chiesa in Brasile lo hanno sempre considerato il loro grande evangelizzatore. Il 22 giugno 1980 è stato beatificato da Giovanni Paolo II.
Terminò il noviziato all’età di 19 anni e, malgrado i suoi problemi di salute, venne destinato alle missioni del Brasile. Il 13 luglio 1553 giunse nel porto di Bahia. Iniziò così per lui una vita apostolica straordinaria e intensa, che condivise in gran parte con il gesuita Manuel de Nóbrega, provinciale del Brasile, a cui fu legato da profonda amicizia.
La sua prima destinazione fu São Vicente, dove viveva la maggior parte dei gesuiti del Brasile. Durante il percorso l’imbarcazione su cui viaggiavano subì dei danni, per cui dovettero rifugiarsi sulla terraferma. Qui entrarono in contatto con gli indios e il giovane gesuita approfittò del tempo necessario alla riparazione della nave per imparare la lingua tupi. In quei giorni di sosta obbligata, mentre si abituava anche a cibarsi dei prodotti locali, dedicò tutte le sue energie all’apprendimento della lingua e dei costumi delle popolazioni indigene, cosa che sarà fondamentale per la successiva opera in Brasile.
Il 25 gennaio 1554 fece parte del gruppo di portoghesi che a Piratininga fondarono l’attuale metropoli di San Paolo. Lì Giuseppe de Anchieta costruì una maloca, una casa tradizionale comunitaria destinata a essere un centro missionario, che divenne un luogo di assistenza e di accoglienza per gli indigeni. In essa apprendevano il mestiere di falegnami e di artigiani, mentre i bambini imparavano a leggere e a scrivere. Da parte sua, Anchieta apprese dagli indigeni tecniche curative, nozioni di botanica e le proprietà delle piante, che iniziò a utilizzare sia per fini medici sia per ottenere fibre per la fabbricazione di calzature e di oggetti artigianali. Incoraggiò anche la costruzione di case di fango e mattoni.
Riuscì in breve tempo ad essere padrone della lingua indigena. Scrisse anche la prima grammatica della lingua tupi, che fu poi utilizzata dai suoi compagni. Questa grande opera fece di lui un “missionario di missionari”. Gli vengono attribuite anche la creazione e la traduzione di tre catechismi e di altre opere sulla realtà del Brasile e dei popoli indigeni. Anchieta fu inoltre poeta e drammaturgo, e scrisse in latino, spagnolo, portoghese e tupi. L’Accademia brasiliana delle lettere e l’Istituto storico e geografico brasiliano lo annoverano tra le grandi figure della cultura del Paese.
Nell’aprile del 1563, insieme al provinciale gesuita Manuel de Nóbrega, intraprese una spedizione per preservare la pace con la federazione degli indios tamoios. Nóbrega e Anchieta si addentrarono nel territorio degli indios e si presentarono a Iperui, dove viveva il più importante cacicco tamoio, Caoquira. Tra i tamoios i due compagni gesuiti vissero un’esperienza fatta di sforzi, di dialogo, di pericoli e di minacce, di apprendimento e di santità. Tutti i loro tentativi fallirono, ma Anchieta si guadagnò l’ammirazione e l’amicizia di alcuni dei cacicchi più importanti. E durante la sua permanenza fra i tamoios nacque il Poema a la Virgen, scritto sulla sabbia della spiaggia e da lui stesso memorizzato. Fu uno dei più agguerriti capi indigeni, Cuñanbebe, a riportarlo a São Vicente dopo diversi mesi di prigionia.
Poco dopo si trasferì nella baia di Guanabara dove i francesi, alleati dei tamoios, resistevano all’attacco dei portoghesi. Durante le battaglie, assistette i feriti di entrambi i fronti.
Giuseppe de Anchieta si trasformò così in un difensore dei diritti degli aborigeni e dei meticci, e condannò la caccia agli indios e il mercato degli schiavi. Nel 1566 venne ordinato sacerdote e tornò a Rio, dove era già stata fondata la missione di San Sebastiano. Qui, insieme a Nóbrega, ormai anziano, fondò un collegio.
Nel 1577 fu nominato provinciale e per otto anni percorse varie volte l’immenso territorio del suo Paese. Una delle sue preoccupazioni principali era di assistere e aiutare i malati e i moribondi. Mentre era provinciale, inviò in Paraguay i primi missionari, nucleo originale delle famose reducciones.
Morì il 9 giugno 1597 a Reritinga, che oggi ha assunto il nome di Anchieta proprio in suo onore. Il popolo e la Chiesa in Brasile lo hanno sempre considerato il loro grande evangelizzatore. Il 22 giugno 1980 è stato beatificato da Giovanni Paolo II.
Maria dell’Incarnazione. Una casa in Canada
(Raymond Brodeur, Università Laval, Québec) Papa Francesco presenta Maria dell’Incarnazione come una apostola del nuovo mondo. Già nel 1980, in occasione della sua beatificazione, Giovanni Paolo II l’aveva definita «la madre della Chiesa canadese», spiegando: «Non solamente perché è stata storicamente la prima. Ma innanzitutto a causa dell’orientamento spirituale della sua vita e della sua azione.
È per questo che bisogna seguirla». Trecento anni prima, poco dopo la sua morte, era stata chiamata dal missionario Jean de Brébeuf e dal vescovo Bossuet la «Teresa del nuovo mondo». Siamo alla presenza di una donna la cui vita contemplativa, nutrita dalla frequentazione assidua della parola di Dio, è stata sempre all’origine delle sue azioni e delle sue opere, in ogni condizione di vita: come sposa, come madre, come vedova e come religiosa.
Maria dell’Incarnazione, al secolo Marie Guyart, nasce il 28 ottobre 1599 a Tours, in Francia. Figlia di Florent Guyart, maestro panettiere, e di Jeanne Michelet, ha un’infanzia felice in una famiglia profondamente cattolica. Come per gli altri fratelli e sorelle, i genitori si preoccupano che venga istruita e formata spiritualmente attraverso la preghiera e l’educazione religiosa.
A sette anni, in sogno vede Gesù che la invita a seguirla e al quale confida il desiderio di donare tutta la sua vita. Sebbene, intorno ai quindici anni, desideri diventare religiosa, obbedisce alla volontà dei suoi genitori e sposa Claude Martin, con il quale ha un figlio, Claude. Sei mesi dopo, nell’autunno del 1619, resta vedova.
Nonostante sia ancora animata dal desiderio di abbracciare la vita religiosa, dedica tuttavia i primi anni della vedovanza a educare il figlio e mette a profitto i suoi talenti al servizio della sorella e del cognato nella loro impresa di trasporti. Occupa i suoi momenti liberi con la preghiera e la meditazione. In quegli anni riceve la grazia di esperienze mistiche di cui parla al suo direttore spirituale. L’unione mistica con lo sposo divino animerà il resto della sua esistenza.
Quando Claude compie dodici anni, lo affida alla sorella e ai padri gesuiti. Il 25 gennaio 1631 entra nel convento delle orsoline di Tours. Due anni dopo pronuncia i voti perpetui, prendendo il nome di Maria dell’Incarnazione. Per tre anni sarà incaricata di catechizzare le giovani novizie. Nel gennaio 1635 un rapimento mistico le apre il cuore e la mente alla sua vocazione particolare: «Ti ho fatto vedere il Canada; devi andare lì e costruire una casa a Gesù e a Maria». A quell’epoca, era quasi impensabile che una monaca di clausura lasciasse il proprio monastero per recarsi nel nuovo mondo.
Nel 1639 Maria dell’Incarnazione abbandona definitivamente il monastero di Tours per andare in Canada. Qui dedicherà 33 anni della sua vita alla missione. Fin dal suo arrivo, il 1° agosto, insieme con due compagne accoglie giovani amerindie affidate loro dai gesuiti affinché le istruiscano. Intraprendono rapidamente la costruzione del monastero delle orsoline e aprono una scuola per le ragazze amerindie e francesi. L’incontro con diversi popoli autoctoni la interpella profondamente. Si dedica con tenacia all’apprendimento delle loro lingue, redigendo dizionari, grammatiche e catechismi utili ai missionari e alle religiose. Ritiratasi dal mondo nel suo monastero, vi accoglie, fino alla sua morte, nel 1672, le ragazze autoctone e le loro famiglie, i missionari, i coloni, gli esploratori, i commercianti, gli stessi governanti e il vescovo di Québec, monsignor François de Laval.
La sua vita spirituale e le sue opere ci sono note grazie alle testimonianze dei suoi contemporanei e ai suoi scritti, che comprendono due autobiografie, alcune note personali, come i suoi colloqui catechetici, e un’abbondante corrispondenza con il figlio Claude, divenuto monaco benedettino nella comunità Saint-Maur. Quest’ultimo voleva sapere tutto ciò che sua madre viveva, sia sul piano materiale sia spirituale; e lei, consapevole della sofferenza che gli aveva causato lasciando il mondo per seguire la chiamata di Dio, era pronta a rispondere a ogni sua domanda. Desiderava, più di ogni altra cosa, aiutarlo a comprendere le vie di Dio che lei stessa aveva vissuto e scoperto seguendo la sua chiamata. Gli aveva chiesto di distruggere i suoi scritti dopo averli letti, ma, rendendosi conto del loro grande valore spirituale, teologico e storico, Claude decise di pubblicarli dopo la sua morte. Ancora oggi il contenuto e lo stile di quei testi, scritti in gran parte sotto forma di colloquio intimo, interpellano le donne e gli uomini nel loro desiderio di incontrare Dio e di contribuire a edificare un mondo migliore.
L'Osservatore Romano(Raymond Brodeur, Università Laval, Québec) Papa Francesco presenta Maria dell’Incarnazione come una apostola del nuovo mondo. Già nel 1980, in occasione della sua beatificazione, Giovanni Paolo II l’aveva definita «la madre della Chiesa canadese», spiegando: «Non solamente perché è stata storicamente la prima. Ma innanzitutto a causa dell’orientamento spirituale della sua vita e della sua azione.
È per questo che bisogna seguirla». Trecento anni prima, poco dopo la sua morte, era stata chiamata dal missionario Jean de Brébeuf e dal vescovo Bossuet la «Teresa del nuovo mondo». Siamo alla presenza di una donna la cui vita contemplativa, nutrita dalla frequentazione assidua della parola di Dio, è stata sempre all’origine delle sue azioni e delle sue opere, in ogni condizione di vita: come sposa, come madre, come vedova e come religiosa.
Maria dell’Incarnazione, al secolo Marie Guyart, nasce il 28 ottobre 1599 a Tours, in Francia. Figlia di Florent Guyart, maestro panettiere, e di Jeanne Michelet, ha un’infanzia felice in una famiglia profondamente cattolica. Come per gli altri fratelli e sorelle, i genitori si preoccupano che venga istruita e formata spiritualmente attraverso la preghiera e l’educazione religiosa.
A sette anni, in sogno vede Gesù che la invita a seguirla e al quale confida il desiderio di donare tutta la sua vita. Sebbene, intorno ai quindici anni, desideri diventare religiosa, obbedisce alla volontà dei suoi genitori e sposa Claude Martin, con il quale ha un figlio, Claude. Sei mesi dopo, nell’autunno del 1619, resta vedova.
Nonostante sia ancora animata dal desiderio di abbracciare la vita religiosa, dedica tuttavia i primi anni della vedovanza a educare il figlio e mette a profitto i suoi talenti al servizio della sorella e del cognato nella loro impresa di trasporti. Occupa i suoi momenti liberi con la preghiera e la meditazione. In quegli anni riceve la grazia di esperienze mistiche di cui parla al suo direttore spirituale. L’unione mistica con lo sposo divino animerà il resto della sua esistenza.
Quando Claude compie dodici anni, lo affida alla sorella e ai padri gesuiti. Il 25 gennaio 1631 entra nel convento delle orsoline di Tours. Due anni dopo pronuncia i voti perpetui, prendendo il nome di Maria dell’Incarnazione. Per tre anni sarà incaricata di catechizzare le giovani novizie. Nel gennaio 1635 un rapimento mistico le apre il cuore e la mente alla sua vocazione particolare: «Ti ho fatto vedere il Canada; devi andare lì e costruire una casa a Gesù e a Maria». A quell’epoca, era quasi impensabile che una monaca di clausura lasciasse il proprio monastero per recarsi nel nuovo mondo.
Nel 1639 Maria dell’Incarnazione abbandona definitivamente il monastero di Tours per andare in Canada. Qui dedicherà 33 anni della sua vita alla missione. Fin dal suo arrivo, il 1° agosto, insieme con due compagne accoglie giovani amerindie affidate loro dai gesuiti affinché le istruiscano. Intraprendono rapidamente la costruzione del monastero delle orsoline e aprono una scuola per le ragazze amerindie e francesi. L’incontro con diversi popoli autoctoni la interpella profondamente. Si dedica con tenacia all’apprendimento delle loro lingue, redigendo dizionari, grammatiche e catechismi utili ai missionari e alle religiose. Ritiratasi dal mondo nel suo monastero, vi accoglie, fino alla sua morte, nel 1672, le ragazze autoctone e le loro famiglie, i missionari, i coloni, gli esploratori, i commercianti, gli stessi governanti e il vescovo di Québec, monsignor François de Laval.
La sua vita spirituale e le sue opere ci sono note grazie alle testimonianze dei suoi contemporanei e ai suoi scritti, che comprendono due autobiografie, alcune note personali, come i suoi colloqui catechetici, e un’abbondante corrispondenza con il figlio Claude, divenuto monaco benedettino nella comunità Saint-Maur. Quest’ultimo voleva sapere tutto ciò che sua madre viveva, sia sul piano materiale sia spirituale; e lei, consapevole della sofferenza che gli aveva causato lasciando il mondo per seguire la chiamata di Dio, era pronta a rispondere a ogni sua domanda. Desiderava, più di ogni altra cosa, aiutarlo a comprendere le vie di Dio che lei stessa aveva vissuto e scoperto seguendo la sua chiamata. Gli aveva chiesto di distruggere i suoi scritti dopo averli letti, ma, rendendosi conto del loro grande valore spirituale, teologico e storico, Claude decise di pubblicarli dopo la sua morte. Ancora oggi il contenuto e lo stile di quei testi, scritti in gran parte sotto forma di colloquio intimo, interpellano le donne e gli uomini nel loro desiderio di incontrare Dio e di contribuire a edificare un mondo migliore.