giovedì 3 aprile 2014

Non è un libro di ricette



Le novità della Evangelii gaudium. 

Le radici. Pubblichiamo l’inizio e la conclusione di una relazione tenuta lo scorso 28 marzo a Roma, nella Pontificia università gregoriana, al convegno «Le radici di Papa Francesco. Il concilio Vaticano II in America latina». L’autore, teologo gesuita, è stato alunno di padre Bergoglio al collegio Máximo di San Miguel in Argentina.
(Humberto Miguel Yañez) Lo scopo della Evangelii gaudium di Papa Francesco è quello di invitare a «una nuova tappa evangelizzatrice» e di «indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni» (documento programmatico).

L’introduzione presenta i temi principali: la gioia dell’evangelizzazione, citando in primo luogo la esortazione apostolica Gaudete in domino e subito dopo la Evangelii nuntiandi, ambedue di Paolo VI, entrambe molto stimate da padre Bergoglio quando era provinciale e più tardi rettore del collegio Máximo di San Miguel. Non si tratta, però, della mera ripetizione di temi ormai trattati per ricordarli, ma di una reinterpretazione e di un approfondimento per andare avanti, per progredire nell’autocomprensione della Chiesa come una Chiesa la cui identità è, appunto, l’evangelizzazione.
Tutto questo viene espresso con un linguaggio originale: una «Chiesa in uscita». Infatti, se la Chiesa non evangelizza, non è più Chiesa; se un cristiano non evangelizza, non è più cristiano: «Invito a una nuova tappa dell’evangelizzazione» (Evangelii gaudium, 287).
In che senso inizia una nuova tappa dell’evangelizzazione? Occorre ricordare che il documento è, allo stesso tempo, un frutto del magistero latinoamericano che, in sei conferenze generali tenutesi dal 1955, anno in cui fu creato il Cela (Consiglio episcopale latinoamericano), ha steso cinque documenti. Tra questi, sono soprattutto Puebla e Aparecida a essere alla base della proposta di Papa Francesco. Questo magistero aveva assunto come metodo quello di «vedere-giudicare-agire» a contatto con le comunità, che venivano consultate prima del raduno dei vescovi. Costoro, dunque, partivano da un documento di lavoro che raccoglieva ciò che si rifletteva all’interno del popolo cristiano a diversi livelli: comunità, parrocchie, istituzioni educative e accademiche, conferenze episcopali. Il nostro documento è, dunque, il documento finale di un sinodo di vescovi sulla nuova evangelizzazione: noi latinoamericani non dimentichiamo le parole che Giovanni Paolo II disse a Puebla, quando chiese una evangelizzazione «nuova nelle sue forme, nei suoi metodi, nel suo ardore».
Aparecida, come conclusione della Conferenza dei vescovi dell’America latina e dei Caraibi, chiama a una «missione continentale». Sappiamo che il cardinale Bergoglio era il preside del comitato di redazione del documento: quanti di noi lo hanno conosciuto da rettore delle facoltà di filosofia e teologia o lo hanno visto fondare parrocchie, hanno sentito il suo invito a “uscire”, ad andare alle case, ai più poveri, per evangelizzare! A mio avviso, è proprio per questo motivo che il documento di Aparecida attira: perché trabocca di esperienza pastorale, di esperienza di Dio, di esperienza di essere Chiesa.
Esperienza sua personale in quanto pastore, ma non solo, perché chi ha la propria esperienza non si accontenta di essa, ma è alla ricerca delle esperienze degli altri. E perciò lo fa in uno stile profetico, perché «è necessaria una voce profetica» (Evangelii gaudium, 218). È un testo che interpella la Chiesa e il mondo di oggi, e — riprendendo le parole di Bergoglio rivolte ai religiosi — è un testo che vuole «risvegliare il mondo», ma anche la Chiesa stessa. Un testo che non fornisce “ricette”, ma che fa pensare. Un testo che interroga il cuore della Chiesa e la chiama a intraprendere la sua missione essenziale.
Evangelii gaudium: si tratta della gioia di esperimentare l’amore di Dio per ognuno di noi, il suo perdono e la sua tenerezza. Una gioia che trova le sue radici nella predicazione profetica dell’Antico Testamento soprattutto nei testi messianici dove si annuncia un nuovo futuro, e nel Nuovo Testamento nella figura di Maria come figura del povero — anawim: si veda il Magnificat — dove si annuncia il compimento delle promesse. E nella Chiesa nascente, come anche nell’ultima cena e nell’esperienza della Risurrezione, è l’atteggiamento con cui viene descritto l’evangelizzatore. Infatti, la figura del Risorto è presente dall’inizio della esortazione (20).
Vi è poi anche la distinzione tra evangelizzare e fare proselitismo. La Chiesa non cresce grazie al proselitismo, ma attraverso l’attrazione che genera la proclamazione del Vangelo, lo stile di vita cristiano, i valori che sono promossi da una autentica evangelizzazione della cultura e da una inculturazione del vangelo.
La novità della Evangelii gaudium sta nel fatto di collegare nel magistero pontificio l’evangelizzazione all’opzione preferenziale per i poveri. Non è una novità nella tradizione della Chiesa, ma piuttosto ripropone un tema biblico-patristico e lo attualizza nelle odierne circostanze storiche. Si evidenzia un dinamismo che parte dal Vangelo e sbocca e si compie nell’opzione preferenziale per i poveri. Questa non è un’aggiunta all’esperienza di fede cristiana, bensì è la sua coerente conseguenza, il suo ambito necessario per viverla in pienezza, e perciò, uno dei suoi test decisivi riguardo alla sua autenticità. Si tratta, infatti, di una categoria teologica assunta prima dal magistero latinoamericano da Medellín fino ad Aparecida, lungo un percorso in cui si è andata purificando da qualsiasi fraintendimento ideologico, e ha chiarito la sua radice biblica-teologica e la sua portata morale.
Occorre considerare il “povero” non soltanto nella sua carenza e negatività, ma anche nella sua potenzialità: la sua fede è il suo tesoro, il quale è disponibile a condividerlo. Papa Francesco ci invita — come già avevano fatto i vescovi latinoamericani a Santo Domingo — a udire il grido dei poveri, il grido dei miseri, di quelli che attendono di essere riconosciuti da fratelli nostri.
Non è la loro qualità morale ad attirare la nostra attenzione, ma la loro oggettiva situazione di svantaggio. L’irruzione del povero nelle nostre vite è quindi un dato che non possiamo negare nei nostri discernimenti personali, comunitari e sociali.
L'Osservatore Romano