venerdì 18 aprile 2014

Il prete secondo l’«Evangelii gaudium»




Esemplari nella gioia

(Celso Morga Iruzubieta, Arcivescovo segretario della Congregazione per il Clero)
Il sacerdozio cristiano non nasce dalla storia, né dall’evoluzione naturale del concetto di “mediazione” con la divinità presente in tutte le culture. Tuttavia, dobbiamo costatare che la vita e il ministero dei presbiteri si confrontano con le circostanze storiche e — pur rimanendo sempre identico — il sacerdozio cristiano si configura anche attraverso una valutazione evangelica dei “segni dei tempi”.
La vita e il ministero dei presbiteri si sviluppano sempre in un’ora storica concreta, carica di inedite risorse, ma anche di nuovi problemi. Tale considerazione è particolarmente importante quando parliamo di pastori del popolo di Dio.
Il pastore deve saper interpretare questi segni, con sapienza divina, alla luce della fede. La sua vita e ministero non si possono identificare con il “mondo” — con il modo di pensare e di vivere dell’epoca — smettendo di essere testimone di una realtà diversa, ma nemmeno ignorarla o non mostrare per essa nessun interesse, né molto meno disprezzarla come se tutto fosse negativo o peccaminoso. Come insegna il decreto Presbyterorum ordinis, i presbiteri vivono in mezzo agli altri uomini come in mezzo a fratelli, poiché sono presi tra di essi e costituiti per il loro bene in ciò che si riferisce a Dio. Così infatti ha vissuto il Signore Gesù, Figlio di Dio, uomo inviato dal Padre agli uomini. Penso sia stata profetica in proposito l’enciclica Ecclesiam suam (1964) di Papa Paolo VI quando afferma che questo immanente contatto della Chiesa, e quindi del presbitero, con la società temporale genera per essa una continua situazione problematica, oggetto di tanto impegno.
Il capitolo secondo dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium di Papa Francesco fa un’acuta diagnosi della situazione nella quale oggi ci tocca vivere e operare senza cadere nell’eccesso diagnostico, che non sempre è accompagnato da proposte risolutive e realmente applicabili. Stiamo vivendo come umanità una svolta storica, che ha il suo volto più appariscente nel progresso tecnico. Nei diversi campi della vita umana, questo progresso contribuisce a migliorare le condizioni di vita delle persone, in ambiti come la salute, l’educazione, le comunicazioni. Si può parlare veramente di una globalizzazione di tutta l’umanità spinta da questo progresso, anche «se non possiamo tuttavia dimenticare che la maggior parte degli uomini e delle donne del nostro tempo vivono una quotidiana precarietà, con conseguenze funeste» (Evangelii gaudium, 52). Tuttavia questo progresso materiale non ha portato a una maggiore felicità dell’uomo. Aumentano alcune patologie e il timore e la disperazione si impadroniscono del cuore di tante persone, persino nei cosiddetti Paesi ricchi. La gioia di vivere frequentemente si spegne e cresce il disorientamento e la confusione sul senso della vita umana che porta spesso all’ingiustizia, alla mancanza di rispetto verso il prossimo, che genera la violenza.
Il sistema economico attuale comporta non soltanto il fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione — senza eccettuare i bambini — ma di qualcosa di nuovo: l’esclusione. Gli esclusi non sono solo “sfruttati” ma anche rifiutati, “avanzi”. All’origine di tale fenomeno vi è una profonda crisi antropologica: la negazione del primato dell’essere umano, ridotto frequentemente a uno solo dei suoi bisogni; ovvero, il consumo.
Dal punto di vista culturale, anche se non possiamo tralasciare di valorizzare il sostrato cristiano di alcuni popoli, la tendenza generale sembra indirizzarsi verso una diffusa indifferenza relativista, connessa, in questi ultimi tempi, con la disillusione e la crisi delle ideologie verificatasi come reazione a tutto ciò che appare totalitario, ma che affonda le sue radici più lontano nel tempo, in un umanesimo pagano che si affacciò con forza nella storia dell’Occidente cristiano durante il rinascimento e che, attraverso l’illuminismo, si solidificò in quel fenomeno che chiamiamo comunemente “laicismo”. A queste sorgenti profonde della cultura dominante rispondono nella superficie le acque della valorizzazione di ciò che è esteriore, immediato, visibile, veloce, superficiale e provvisorio.
Molti cristiani, battezzati e cresimati, influenzati da questa cultura circondante, «si sentono delusi e cessano di identificarsi con la tradizione cattolica», mentre «aumentano i genitori che non battezzano i figli e non insegnano loro a pregare e c’è un certo esodo verso altre comunità di fede» (Evangelii gaudium, 70) o che lasciano semplicemente di credere. È più o meno in questo contesto culturale e sociale, contrassegnato da un forte secolarismo, che si svolge la vita attuale della Chiesa come comunità credente ed è, in questo contesto, che è stata proposta a tutti nella Chiesa una «misura alta» della vita cristiana ordinaria, quella della santità. In tale contesto sociale e culturale, i presbiteri sono chiamati a vivere in profondità il loro ministero come testimoni di speranza e trascendenza, tenuto conto delle sempre più numerose e delicate esigenze di ordine non solo pastorale, ma anche sociale e culturale alle quali devono far fronte.
Il ministero pastorale, in quest’ora, in queste coordinate sociali e culturali globalizzate, è impresa affascinante ma ardua, sempre esposta all’incomprensione e all’emarginazione e, soprattutto oggi, alla stanchezza, alla sfiducia, all’isolamento e, qualche volta, alla solitudine. Ebbene, in quest’ora, la gioia del Vangelo, la speranza e la trascendenza aperta da Cristo devono essere una caratteristica costante della loro missione. Una società segnata dal progresso tecnologico contribuisce grandemente al benessere delle persone, può moltiplicare le occasioni di piacere, ma non potrà mai dare l’autentica gioia della quale l’essere umano ha bisogno. Nonostante ogni apparenza contraria, l’uomo rimane instancabilmente un affamato e un assetato di Dio. Papa Francesco insiste molto nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium in merito alla gioia dell’evangelizzazione, citando precisamente le esortazioni apostoliche di Paolo VI Gaudete in Domino ed Evangelii nuntiandi. Il pastore di una comunità cristiana oggi ha particolarmente la missione di consolare, di dare speranza, di dire a tutti che Dio c’è, che l’Amore esiste, poi ché lui stesso ha fatto esperienza della consolazione che Dio gli offre. Un pastore che evangelizza «non dovrebbe avere costantemente una faccia di funerale» (Evangelii gaudium, 10); deve recuperare e accrescere il fervore, «la dolce e confortante gioia di evangelizzare, anche quando occorre seminare nelle lacrime [...]. Possa il mondo del nostro tempo — che cerca ora nell’angoscia, ora nella speranza — ricevere la Buona Novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti e ansiosi, ma da ministri del Vangelo la cui vita irradi fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo» (Paolo VI, Evangelii nuntiandi).
Non si tratta di una gioia passeggera, superficiale, egoista, ma della gioia e la pace che il Signore ha lasciato in eredità a tutti i suoi fedeli e particolarmente ai suoi pastori, una volta per sempre poco prima della sua morte e risurrezione e che nessuno può mai toglierci, anche in mezzo alle persecuzioni. È una gioia piena di responsabilità pastorale, di vigilanza per il gregge. I testi del Nuovo Testamento, riferiti specificamente ai pastori delle prime comunità cristiane, insistono in questo dovere di vigilanza e responsabilità nei confronti del gregge. La Prima lettera di Pietro invita i presbiteri ad essere vigilanti sul gregge di Dio, di buona volontà. “Vigilare” e “pascere” sono due verbi che risultano praticamente ambivalenti, quasi sinonimi, nel linguaggio utilizzato da questi testi del Nuovo Testamento e nei primi scritti cristiani post-testamentari. Circa l’attività pastorale si accentua con particolare forza la cura vigilante per difendere il gregge da lupi rapaci «che non risparmieranno il gregge» (Atti degli apostoli, 20, 29). Si tratta in definitiva di custodire, aumentare e costruire l’unità del gregge. Fuori dell’unità non contano neppure i miracoli, come ha affermato sant’Agostino (cfr. Commento al Vangelo di Giovanni, Omelia 13).
Questo pascere il gregge, vigilando su di esso con ogni cura affinché nessuno lo disperda o lo rubi, affinché costantemente si accresca, implica l’“esemplarità”, la testimonianza del pastore. Reggere il popolo di Dio richiederà sempre di più esemplarità, santità di vita, affinché l’annunzio del Vangelo e la grazia amministrata non si convertano in motivo d’accusa per la causa del Vangelo stesso e d’imputazione per il pastore di fronte al Pastore sommo e unico. Le comunità cristiane saranno sempre più consapevoli che i loro pastori operano «in persona di» e questa consapevolezza nei pastori stessi dovrà renderli più umili e trasparenti a servizio della Chiesa: «vegliate su voi stessi e su tutto il gregge» (Atti degli apostoli, 20, 28).
L'Osservatore Romano

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La gioia del sacerdote: povertà, fedeltà, obbedienza
di Massimo Introvigne

Ieri, giovedì 17 aprile 2014, Papa Francesco ha celebrato in mattinata la Messa Crismale in San Pietro, mentre nel tardo pomeriggio si è recato presso l’Opera Don Gnocchi per la Messa in coena Domini. Qui ha definito la lavanda dei piedi – un rito che il Pontefice ha voluto compiere quest’anno con dodici disabili – «un gesto di congedo» di Gesù, «l’eredità che ci lascia»: «essere servitori gli uni degli altri». Lavare i piedi è, ha spiegato Francesco, «un gesto simbolico: lo facevano gli schiavi, i servi ai commensali, alla gente che veniva a pranzo, a cena, perché in quel tempo le strada erano tutte di terra e quando entravano in casa era necessario lavarsi i piedi. E Gesù fa un gesto, un lavoro, un servizio di schiavo, di servo». Un gesto difficile da capire all’epoca, e forse non ovvio neppure oggi. Ma un gesto che attraversa i secoli e arriva fino a noi, perché «pensiamo all’amore che Gesù ci dice che dobbiamo avere per gli altri, e pensiamo anche come possiamo servirle meglio, le altre persone. Perché così Gesù ha voluto da noi».
Nella Messa Crismale, come già aveva fatto l’anno scorso, il Papa ha parlato del sacerdozio. Ha insistito sulla «gioia del sacerdote», che «è un bene prezioso non solo per lui ma anche per tutto il popolo fedele di Dio».
I sacerdoti, ha detto il Pontefice, sono «unti con olio di gioia per ungere con olio di gioia. La gioia sacerdotale ha la sua fonte nell’Amore del Padre», e ha il suo modello nella Madonna. «Il sacerdote è il più povero degli uomini se Gesù non lo arricchisce con la sua povertà, è il più inutile servo se Gesù non lo chiama amico, il più stolto degli uomini se Gesù non lo istruisce pazientemente come Pietro, il più indifeso dei cristiani se il Buon Pastore non lo fortifica in mezzo al gregge». Il sacerdozio è grande, eppure «nessuno è più piccolo di un sacerdote lasciato alle sue sole forze; perciò la nostra preghiera di difesa contro ogni insidia del Maligno è la preghiera di nostra Madre: sono sacerdote perché Lui ha guardato con bontà la mia piccolezza».
Il Papa ha elencato tre caratteristiche della gioia sacerdotale: «è una gioia che ci unge (non che ci rende untuosi, sontuosi e presuntuosi), è una gioia incorruttibile ed è una gioia missionaria che si irradia a tutti e attira tutti, cominciando alla rovescia: dai più lontani». Anzitutto, una gioia che unge, nel senso che «è penetrata nell’intimo del nostro cuore, lo ha configurato e fortificato sacramentalmente». «Unti fino alle ossa… e la nostra gioia, che sgorga da dentro, è l’eco di questa unzione».
Secondo: una gioia incorruttibile, perché al dono del sacerdozio «nessuno può togliere né aggiungere nulla». La gioia sacerdotale «può essere addormentata o soffocata dal peccato o dalle preoccupazioni della vita ma, nel profondo, rimane intatta come la brace di un ceppo bruciato sotto le ceneri, e sempre può essere rinnovata».
Terzo: una gioia «eminentemente missionaria», una caratteristica da «condividere e sottolineare in modo speciale»: l’unzione «è in ordine a ungere il santo popolo fedele di Dio» e perciò la gioia «fluisce solo quando il pastore sta in mezzo al suo gregge (anche nel silenzio della preghiera, il pastore che adora il Padre è in mezzo alle sue pecorelle)». «Anche nei momenti di tristezza, in cui tutto sembra oscurarsi e la vertigine dell’isolamento ci seduce, quei momenti apatici e noiosi che a volte ci colgono nella vita sacerdotale» – «attraverso i quali anch’io sono passato», ha confidato il Papa –, finché si è capaci di ripartire ed essere missionari la gioia rimane come quel fuoco sotto le ceneri che può sempre essere ravvivato.
Tre sorelle difendono la gioia sacerdotale, ha aggiunto Papa Francesco: «sorella povertà, sorella fedeltà e sorella obbedienza». Prima sorella: la povertà. «Il sacerdote è povero di gioia meramente umana: ha rinunciato a tanto! E poiché è povero, lui, che dà tante cose agli altri, la sua gioia deve chiederla al Signore e al popolo fedele di Dio. Non deve procurarsela da sé». «Molti, parlando della crisi di identità sacerdotale, non tengono conto che l’identità presuppone appartenenza. Non c’è identità – e pertanto gioia di vivere – senza appartenenza». Di qui nascono tante crisi dei sacerdoti. «Il sacerdote che pretende di trovare l’identità sacerdotale indagando introspettivamente nella propria interiorità forse non trova altro che segnali che dicono “uscita”: esci da te stesso». «Se non esci da te stesso, l’olio diventa rancido e l’unzione non può essere feconda».
Seconda sorella: la fedeltà, «una sempre nuova fedeltà all’unica Sposa, la Chiesa. Qui è la chiave della fecondità». Non una Chiesa inventata. Questa Chiesa, qui e oggi. La seconda sorella richiama così la terza: l’obbedienza «alla Chiesa nella Gerarchia che ci dà, per così dire, non solo l’ambito più esterno dell’obbedienza: la parrocchia alla quale sono inviato, le facoltà del ministero, quell’incarico particolare… bensì anche l’unione con Dio Padre, dal quale deriva ogni paternità».
«In questo Giovedì Santo – ha detto il Papa – chiedo al Signore Gesù che conservi il brillare gioioso negli occhi dei nuovi ordinati, che partono per “mangiarsi” il mondo, per consumarsi in mezzo al popolo fedele di Dio, che gioiscono preparando la prima omelia, la prima Messa, il primo Battesimo, la prima Confessione…». Ma questa «gioia della partenza» spesso si perde con gli anni. Non ci si deve rassegnare alla perdita della gioia sacerdotale. Quando è perduta può tornare, se la si ravviva e si prega. E può rimanere anche nei sacerdoti anziani e malati. «È la gioia della Croce, che promana dalla consapevolezza di avere un tesoro incorruttibile in un vaso di creta che si va disfacendo». C’è anche «la gioia di passare la fiaccola, la gioia di veder crescere i figli dei figli e di salutare, sorridendo e con mitezza, le promesse, in quella speranza che non delude».