sabato 19 aprile 2014

La Passione vista dai suoi protagonisti




"Getsemani" di Charles Péguy


Questa piccola opera, una via di mezzo tra narrazione in prosa e ritmo poetico, ci permette il passaggio alla seconda parte del nostro studio: i personaggi della Passione, o meglio la Passione di Gesù vista e vissuta dai personaggi che i Vangeli menzionano.
Getsemani [1] è uno dei testi più belli di Péguy (1873-1914), eppure è uno dei più sconosciuti; infatti appartiene ad un’opera che rimase inedita alla morte dell’autore, intitolata Dialogo della storia e dell’anima carnale, che vide la luce in libreria solo nel 1955.
Con molta probabilità Getsemani è il frutto di un’esperienza diretta dello scrittore vissuta nella Pasqua del 1910, in un momento di grande travaglio famigliare, affettivo, intellettuale e lavorativo.
Il testo è costruito secondo un climax ascendente che si snoda in quattro tappe. Dopo aver evocato in breve la Passione, egli ritorna su se stesso per fissarsi sull’oggetto proprio della Passione, su ciò che è il significato proprio di quell’Evento.
L’arresto, la comparizione davanti a Caifa e a Pilato, il supplizio, la morte:”Tutto questo non è nulla. È la procedura… Il contenuto stesso della Passione è la morte stessa, la morte comune” e Gesù, Dio fatto uomo, trema davanti alla morte, arretra davanti ad essa e chiede di esserne dispensato. Tutto è pronto, fin dall’eternità, eppure Dio non lo è, esita, chiede che sia allontanato il calice amaro della sofferenza e della morte.
IL secondo momento parte dalla constatazione della fragilità che accomuna Cristo, Dio fatto uomo, e il semplice uomo per giungere all’interpretazione, nuova e inaudita, dell’affermazione: “Lo spirito è pronto, ma la carne è debole”; si tratta per Péguy di una «confessione» del Cristo:“Vedete cosa è la nostra carne, e la nostra tentazione. Bisogna vegliare. Bisogna pregare. Non si è mai tranquilli”. In questa comunità di fragilità e sconforto l’autore vede un compimento dell’incarnazione, fino all’estrema debolezza umana.
Nella terza tappa lo scrittore considera come Cristo si sottometta alla volontà del Padre, e in questa accettazione adatta a sé ciò che aveva insegnato ai discepoli: dal Pater noster a Pater mi, fiat voluntas tua.
Nell’ultimo passaggio Péguy effettua un nuovo avvicinamento di testi, trovando segrete assonanze nella Scrittura: il fiat voluntas del Getsemani compie il fiat lux della Genesi, del principio del mondo.
Questo è un folgorante accostamento, degno dei Padri della Chiesa, eppure non è soprattutto l’idea ad essere originale ed illuminante, quanto la sua illustrazione, ricca di immagini, evocazione, terribilità.
“Fiat lux, fiat voluntas, un’eco lontana risponde alla prima, alla parola di creazione, un’eco fedele: un secondo inizio risponde al primo; una seconda creazione risponde alla prima; e questo secondo comandamento, umanamente così disprezzato, secolarmente così basso, temporalmente così disprezzabile, non è altro, amico mio, non va altro in effetti che a una seconda creazione: E come la prima creazione era di tutto il mondo, la creazione dell’universo, totius orbis universi, di tutta la creazione, questa seconda creazione, questa eco fedele non è altro, non sta per essere altro propriamente che la creazione dello spirituale, che essere la propria creazione propria, ritardata più di cinquanta secoli, del mondo spirituale. Tutto attendeva… Fu il tempo che egli si prese, e nella sua obbedienza stessa per un istante vacillò”. 

[1] Charles Péguy, Getsemani, Milano, 1997

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Giuda: il mistero insolubile del traditore

Come abbiamo potuto considerare anche in alcune delle opere precedenti, la figura di Giuda è una delle più osservate, forse perché la più complessa, la meno solare, la più enigmatica dei Vangeli e, poiché la Scrittura è essenziale, quasi lapidaria nei suoi confronti, lascia quindi un ampio margine alle “fantasie” degli scrittori.
Vogliamo proporre due romanzi centrati sul personaggio-Giuda: il famoso romanzo di Lanza del Vasto ed uno recentissimo dell’americano Lliteras.
Giuda fu pubblicato Lanza del Vasto (1901-1981) nel 1938 [1] e si presenta, a nostro avviso, come il racconto più completo e più suggestivo scritto sul traditore. Il motivo di tale risultato è suggerito dall’autore medesimo nella presentazione all’edizione che abbiamo tra mano: “Perché Giuda era ed è uno di noi… dove è la colpa, dove il merito, dove la Giustizia di Dio, dove la libertà dell’uomo?... dunque Giuda, Giuda, Giuda son io! E, d’orrore, mi son convertito! Il motore in partenza coprì la voce. L’ignoto sparì. Uno almeno nel mondo aveva capito di che si tratta, di che si tratta! Mi consolò il sentirmelo dire.”La ricchezza della narrazione e le molteplici sfaccettature psicologiche di Giuda, cosi finemente presentate da Lanza, non ci permettono di esaurire in un riassunto la complessità del romanzo. Da subito però Giuda, già discepolo di Giovanni Battista, ci appare come un parassita, invidioso della grazia altrui, opportunista negli amori, dedito sia alla virtù, usata come strumento per farsi notare, sia a tutti i più abbietti vizi (dalla pedofilia all’idolatria). Lo scrittore interpreta il tradimento di Giuda come una “ritrovata” libertà, che gli altri discepoli, succubi del Maestro, non sanno nemmeno immaginare: “… lo irrita (ndr. È Giuda che dice di Gesù) che io abbia saputo liberarmi dal suo giogo. È geloso pure perché posso frequentare persone altolocate le quali apprezzano in me le virtù che egli ha sempre finto di ignorare per invidia…”Per una curiosa sovrapposizione di ruoli, nell’orto degli ulivi Giuda, che sta accompagnando coloro che arresteranno il Cristo, vive su di sé i medesimi fenomeni che proverà Gesù: gronda sangue e sudore, cade per tre volte, si sente pecora condotta al macello.
Ma la tragedia di Giuda arriva al compimento proprio nell’istante in cui Pilato presenta Cristo alla folla dopo la flagellazione: “L’avevano travestito da re, con corona di spine in testa e scettro di canna in mano. Il sangue girava le occhiaie e colava sulle guance. La bocca s’apriva appena sull’anelito, gli occhi in tutta la folla guardavano Giuda, lui solo: lo guardavano con pietà. Una mano d’angoscia scendeva nel petto di Giuda, un sospiro gli si formò dentro:«O Maestro, o Signore, o Amico». Ma la voce non uscì. Venivano meno le gambe, ma non potette cadere. La folla mugolando e fischiando lo strinse quasi in un pugno, lo sollevò, lo sventolò come un’insegna. La pietà di Gesù non lo lasciava. Sulla guancia di Gesù, dove lo aveva baciato, colava uno sputo….Lo sguardo di Giuda è infisso alla croce. La sua disperazione si nutrisce del supplizio. «O amico un velo si è strappato e ti vedo. Vedo con orrore che ti amo»“Giuda non può più, non vuole più tornare indietro, ormai il male è troppo per il pentimento, il dolore troppo per il pianto, l’orrore troppo per il grido, non gli resta che un’ultima, disperata soluzione: “Finire, bisogna finire. Trovò la corda che gli pendeva al collo, la legò al fico maledetto… «E se dall’altra parte, dovessi incontrare lui?» Ma si riprese, fece: no, colla testa, disse con forza: «Credo in te, solo in te, nero e tondo nulla!»
Il secondo romanzo, dello statunitense D.S. Lliteras, autore di altri romanzi a sfondo religioso,Judas (1999) [2] è molto diverso e, a nostro avviso, meno drammatico ed incisivo di quello di Lanza del Vasto.
Sicuramente è singolare la costruzione dell’intreccio: ai capitoli che seguono la vita di Giuda, dalla crocefissione di Gesù fino al suicidio, si alternano altri nei quali per bocca di personaggi diversi (donne giudee, uomini giudei, vagabondi, uomini di Dio, discepoli, scribi) si racconta di Gesù, del suo insegnamento, dello scandalo provocato dalle sue parole e dai suoi miracoli.
Fin dalle prime battute del libro Giuda appare in un’atmosfera allucinata, “la mia bocca è un’arma letale, colma di veleno e d’inganno. E ora… anche di rimorso. La mia bocca è un’arma letale…”, allucinata e serrata, dal ritmo sincopato che bene sa esprimere la confusione e l’angoscia che pervadono l’animo del traditore.
“Aveva tratti del volto decisi: soprattutto il profilo del naso, aquilino, e il taglio degli occhi, grandi, mobilissimi, che guizzavano da un angolo all’altro della taverna. La barba e i baffi erano corti, ma ben curati, come i capelli. Dall’aspetto, lo si sarebbe giudicato un uomo qualunque: né ricco né povero, né esperto nei lavori manuali né dedito allo studio delle Scritture. Era una mescolanza di contraddizioni che sconcertava chiunque avesse rapporti con lui…” e infatti Giuda, secondo l’interpretazione che ne dà Lliteras, è un gentile convertito all’ebraismo e fa parte di una banda di ribelli, che tramano contro i romani invasori; loro capo è Ganto, un uomo facile all’ira, pericoloso, con doti innate di comando che aveva ordinato a Giuda di infiltrarsi nel gruppo dei discepoli di Gesù per studiare quell’uomo e riferire delle sue azioni e del suo insegnamento. Giuda però non ha eseguito gli ordini, si è troppo coinvolto con il Maestro, tanto che “… Judas pensava che io potessi far pervenire l’argento ai membri del sinedrio, affinché non procedessero contro il Nazareno…”. Il suo comportamento viene giudicato da Ganto e dal numeroso gruppo di ribelli, per lo più poveri straccioni che sotto il potere romano hanno perso tutto, come un tradimento e viene quindi condannato a morte. Ma Giuda riesce a fuggire. Fugge, ma per darsi la morte da sé:“Incapace perfino di chiudere le palpebre, guardò con occhi sporgenti la morte muovere all’assalto finale. Il corpo continuava a lottare, deciso a non arrendersi, ma la volontà ebbe il sopravvento: Judas vinse la sua battaglia contro la vita, perdendo ciò che rimaneva della propria vita.

[1] Lanza del Vasto, Giuda, Milano, 1976
[2] D.S. Lliteras, Judas, Cinisello Balsamo (Milano), 2001

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Il giudice e i malfattori

Anche la figura di Pilato ha da sempre incuriosito e interrogato: chi fu in realtà questo oscuro amministratore romano che oggi, dopo duemila anni, i cristiani ricordano ancora, ma che la Storia ufficiale ha polverizzato e dimenticato?
A lui, Eric-Emmanuel Schmitt (1960), noto drammaturgo francese, ha dedicato Il vangelo secondo Pilato (2000) [1].
Il romanzo vero e proprio è preceduto da un prologo, Confessioni di un condannato a morte la sera del suo arresto“Israele è una terra d’ulivi, di pietre, di stelle e di pastori, una terra dove i datteri seccano sulla paglia dei granai, una terra d’angoscia dove i cuori maturano l’attesa del salvatore, una terra di aranci, di limoni e di speranza. Israele è il mio giardino, il giardino dove sono nato, quello stesso giardino dove molto presto dovrò morire. Tra poche ore verranno a prendermi… Ma come è accaduto tutto ciò?” Questa bellissima introduzione, eco quasi di alcune pagine del Cantico dei Cantici, non mantiene ciò che pare promettere. Dopo poche righe si capisce che il narratore è Gesù in persona, ormai nell’orto degli ulivi mentre aspetta che i soldati vengano ad arrestarlo. In quei brevi frangenti Gesù, in un lungo flash-back, rivede tutta la sua esistenza, il suo crescere nell’incomprensione di sua madre (ma che ne è di Maria?), lo scoprirsi inadatto alla vita di tutti (si fidanza con Rebecca, ma presto la lascia… Rebecca, si scoprirà poi essere la vedova di Nain!) dotato nel medesimo istante di una straordinaria capacità di comprendere gli uomini fino alla rivelazione, lenta, di possedere poteri inauditi, che dirompevano in lui da un pozzo profondo di luce, il pozzo della preghiera e del diretto rapporto con Dio.
Troppo fantasiosa e talvolta un poco ingenua, questa prima parte non convince il lettore che si è accostato ad altre ben più complesse e tormentate Vite di Gesù.
Più riuscita, per lo meno come novità di tentativo,il romanzo di Pilato, scritto in forma epistolare: Pilato scrive a Tito, suo fratello, raccontandogli le vicende relative a Jeshua, da lui condannato a morte e poi improvvisamente scomparso.
“… odio Gerusalemme. Quella che si respira qui non è aria, bensì un veleno che dà alla testa. Tutto diviene eccessivo in questo dedalo di viuzze fatte non per trovare il proprio itinerario, ma per perderlo, in questi budelli dove, invece di circolare, si finisce per sbattere l’uno contro l’altro. E tutto intorno un bailamme di linguaggi di marca orientale che sembrano fatti apposta perché non ci si capisca… La legge di Roma viene rispettata solo per esecrarla. La città emana il fetore dell’ipocrisia e delle passioni represse. Persino il sole, al di sopra di quei bastioni, è traditore. Pare impossibile che lo stesso sole, sfolgorante su Roma, a Gerusalemme sia torvo. Il sole di Roma diffonde luce, quello di Gerusalemme proietta ombra. Fornisce angoli per complottare… Odio Gerusalemme. Ma c’è qualcosa che odio ancora di più: Gerusalemme durante la Pasqua… E quando si fa giorno, la loro religione esige sacrifici che trasformano Gerusalemme in un immenso mercato di bestiame fornito di mattatoio. Gli animali gridano a migliaia, prima nell’attesa, poi nell’agonia… io osservo disgustato… come ogni anno ho temuto il peggio. Ma, come ogni anno, ho padroneggiato la situazione… per mantenere l’ordine sono stati sufficienti una quindicina di arresti e tre crocifissioni. Il minimo che ci si potesse aspettare…”Anche in questo caso l’abbrivio in prima persona del procuratore è suggestivo, singolare nella scelta dei toni, delle immagini che suscitano ansia, atmosfera allucinata e febbrile, quella stessa che, con molta probabilità, si respirava a Gerusalemme durante la Passione di Gesù.
La scomparsa del corpo di Jeshua dà avvio ad un tessuto di indagini e di ricerche non solo da parte di Pilato, ma anche dei capi dei Giudei e degli stessi apostoli; inoltre popolano la vicenda una serie di personaggi, tutti sulle tracce di Gesù risorto: la nobile consorte Claudia Procula (che a sua volta scomparirà in un alone di mistero per poi farsi ritrovare ormai diventata cristiana), Craterio, filosofo cinico, discepolo di Diogene già pedagogo di Pilato e del fratello, con le sue sconcertanti provocazioni, Salomè (qui identificata con la fanciulla che danzò davanti ad Erode) e Maria Maddalena testimoni del Risorto.
Pilato via via vaglia le più diverse ipotesi, confronta e scarta alla fine ogni possibile spiegazione razionale, finché, per amore di Claudia e per onesta sete di conoscenza («Cos’è la verità?»), accetta una spiegazione “impossibile” e soprannaturale: “… io dunque non sarò mai cristiano, Claudia. Perché non ho visto niente, tutto mi è sfuggito, sono arrivato troppo tardi. Se volessi credere, dovrei in primo luogo credere alla testimonianza degli altri. Allora sei forse tu, Pilato, il primo cristiano?”Da uno scarno episodio dei Vangeli, Pär Lagerkvist (1891- 1974), premio Nobel per la letteratura nel 1951, ha trattato il suggestivo romanzo Barabba (1951) [2]. Barabba è il malfattore di cui Cristo ha preso il posto sulla croce, un uomo che man mano scopre l’eccezionalità inspiegabile di quell’Uomo e del suo sacrificio. Il dramma di Barabba (il cui nome significa «Figlio del Padre» sostituito all’ultimo nella morte da Gesù, «Figlio dell’uomo») è tutto nella sua angosciosa domanda di uomo di fronte ad un fatto che gli sconvolge l’esistenza e che egli non riesce a comprendere.
All’inizio del racconto troviamo Barabba (“… era un uomo di circa trent’anni, di corporatura robusta, ma dal colorito terreo; aveva la barba rossiccia e i capelli neri. Le sopracciglia erano anche esse nere e gli occhi molto infossati, come se lo sguardo avesse quasi voluto celarsi. Sotto un occhio aveva una cicatrice profonda che scompariva tra la barba…”) disorientato e incredulo, mentre guarda le tre croci: da quell’istante che lo ha visto, suo malgrado, protagonista, Barabba cerca di informarsi su Gesù; si avvicina ai suoi discepoli, accoglie le confidenze e lo sconforto del traditore Pietro, s’intrattiene con i primi convertiti i quali, appena scoprono la sua identità, lo respingono con orrore. Barabba non ha più il vigore e la prepotenza di un tempo, vive assorto, stralunato, con una pena segreta di cui non sa darsi ragione: uniche compagne sono la «grassona», la sua antica amante che stenta a riconoscerlo per quell’apatia che lo consuma e la Leporina, una ragazza che vive ai margini della società, rifiutata da tutti, che un tempo rese madre e che ora lo segue con docilità e sommesso affetto. La Leporina si converte e viene lapidata e Barabba, che ha assistito al fatto, vendica la donna con un nuovo delitto, dimostrando di non aver compreso nulla dell’insegnamento di Cristo.
Dopo un breve intermezzo ritroviamo Barabba ridotto in schiavitù nelle miniere, unito alla catena con Sahak, uno schiavo cristiano. La vicinanza forzata diventa silenziosa amicizia, rispetto, attaccamento tanto che anche Barabba si fa segnare sulla piastra servile, che ha legata al collo, le iniziali di Gesù, tenta anche di pregare insieme al suo compagno, ma la sua natura selvaggia rifiuta quella dottrina di mitezza e amore. I due vengono condotti davanti al procuratore con l’accusa di essere cristiani: Sahak verrà condannato a morte, mentre Barabba, per aver salva la vita, dichiarerà cinicamente di non aver alcun Dio.
Come ricompensa viene trasportato a Roma, quale servo in una casa di nobili patrizi; l’impulso di incontrare e seguire i cristiani è però più forte di lui. Si reca ad una riunione ma non trova nessuno: è la stessa sera dell’incendio di Roma. Sente qualcuno gridare che sono stati i cristiani ad appiccare l’incendio: d’impeto s’ingegna allora a spargere il fuoco; se il cristianesimo è distruzione dei nemici, anch’egli si sente cristiano, ma anche questa volta Barabba non comprende il senso vero del cristianesimo.
Viene colto sul fatto ed è perciò incarcerato con gli altri cristiani. In prigione lo riconoscono e tutti lo sfuggono, tranne Pietro che gli parla e lo compiange.
Libro intenso, spesso cupo e inquietante nelle atmosfere che descrive, cupo ed inquieto come Barabba, un uomo che non comprende la novità di Cristo essendo troppo ancorato alla violenza e alla prepotenza del più forte sul più debole.
Forse Barabba è figura dell’uomo d’oggi, incapace di uno sguardo limpido e puro, incapace soprattutto di accogliere e custodire la sorpresa di Cristo, che arriva imprevisto ed imprevedibile. Eppure il libro non finisce nel nulla, Barabba, quasi a sua insaputa, nella morte si ridesta:“Barabba soltanto era ancora confitto ed era vivo. Quando sentì appressarsi la morte, della quale aveva sempre avuto tanta paura, disse nell’oscurità, come se parlasse con essa: «A te raccomando l’anima mia». Ed esalò lo spirito.”
Anche il buon ladrone ha suscitato non pochi interrogativi e curiosità, tanto da essere stato oggetto di analisi e interessanti ricostruzioni, quella che propone Barbellion, sacerdote e teologo francese, intitolandola, Il buon ladrone (2001) [3] è delicata e struggente.
“- Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno -. Gli rispose: - In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso – (Lc 23, 39 -43)
Si possono immaginare le varie vicende della vita che confluiscono in questo dialogo. Immaginiamo un lavoro miracoloso della grazia che dona in poche ore tutta la luce ad un individuo che è alla fine della vita. Un individuo che il Cristo avrebbe già incontrato o, al contrario, che vede per la prima volta. Forse il buon ladrone 
(ndr. Disma, il nome che la tradizione gli assegna, in greco vuol dire «malfattore») è stato condannato per un delitto trascorso da tempo, e la sua vita d’uomo marcato dalla colpa lo ha predisposto a una lunga conversione. Si possono immaginare tante possibilità. Mi si rimprovererà senz’altro di aver fatto una scelta, di aver dato una visione troppo personale o romanzata del buon ladrone. Accetto fin d’ora ogni rimostranza. Posso solo dire, a mia difesa, che tutto ciò che è scritto in questo libro è stato meditato nella preghiera. Non è una verità storica, ma una meditazione personale sul mistero del buon ladrone, una persona che ha toccato il mio cuore.”Se infatti, a nostro avviso, manca un vis narrativa a questo racconto, non manca però la forza del contenuto che tenta di dare tridimensionalità ad una figura solo accennata eppure importantissima nel dinamismo della stessa Buona Novella.
La storia di Disma è la storia di una paternità ricercata. Fin da piccolo ha lottato per sopravvivere; orfano è stato accolto in una famiglia che lo tratta da schiavo; a tredici anni fugge e vive di piccole ruberie sulla strada, finché non incontra un lebbroso, Zeitan, “il solo padre che la vita gli aveva concesso”.
Con Zeitan, pur non potendolo avvicinare, impara a pregare, a lavorare onestamente, impara soprattutto ad avere una dignità, la dignità di che è amato ed è importante agli occhi di un uomo. Ma Zeitan, corroso dalla malattia muore, Disma si sente solo, solo come non mai. Da solo l’uomo non sa mantenersi nella via della santità: Disma per quel suo profondo senso di giustizia, si unisce ad un gruppo di briganti che, con pugnali e clave, rubano il denaro dei ricchi invasori. In uno di questi assalti uccide un uomo: il dolore che prova per quella uccisione è grande, incolmabile. Un suo amico, vedendo la sua disperazione, gli racconta di un maestro che sta predicando parole di speranza: “le parole del Cristo cadono nel cuore di Disma come pane benedetto. A Disma piace il modo con cui i cuori sono trasformati al passaggio del Cristo. È come una scia d’amore… sente dentro di sé che già ama quest’uomo, senza averlo visto… potrà mai, lui Disma, essere perdonato?
Disma è curioso, pur sfidando il pericolo di essere catturato si mette sulle tracce di Gesù per poterlo incontrare, ma nonostante i diversi tentativi non riesce, gli giunge solo e sempre l’eco della parola di Gesù. Viene preso, alla fine, e condotto in prigione proprio negli stessi giorni nei quali il Cristo vive la sua Passione, di cui sente frammenti di notizie.
“La folla grida, insulta. È la terribile realtà: Disma è crocifisso, sta per morire… per sua fortuna, la croce di Gesù è sta piantata tra i due ladroni. Disma è dunque al suo fianco.”Segue una lunga riflessione sulle parole del Cristo in croce e ciò che esse suscitano nel povero Disma, fino alla morte: “«Sì, è proprio il Figlio di Dio che voi avete fatto morire, e io sono con lui, vicino a lui». Guarda Gesù fino a quando può. Maria e Giovanni seno sempre in piedi sotto la croce. Tutti e tre guardano Gesù, tutti e tre vegliano il suo corpo, centro dell’universo, salvezza degli uomini.”

[1] Eric-Emmanuel Schmitt, Il vangelo secondo Pilato, Cinisello Balsamo (Milano), 2002
[2] Pär Fabian Lagerkvist, Barabba, Reggio Emilia, 1978
[3] Stéfhane-Marie Barbellion, Il buon ladrone, Milano, 2003

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Il compianto corale degli amici

Il nostro, forse troppo lungo percorso, si conclude con due libri che propongono l'evento «Gesù» considerato dai suoi amici, o per lo meno da chi seguiva il Cristo con attenta e aperta attesa.
Molto noto è certamente il romanzo del polacco Jan Dobraczyński (1910-1994), Lettere di Nicodemo (1959) [1].
In questo testo lo scrittore ci offre una narrazione dei fatti evangelici vissuta da Nicodemo, citato alcune volte nel Vangelo. Con la forma del romanzo epistolare Nicodemo racconta a Giusto, suo antico maestro e amico, le sue più intime vicende familiari (l'amore, la malattia e la lenta e sofferta agonia di Ruth, sua moglie) intrecciate all'incontro con Gesù, un uomo che lo affascina e lo inquieta, e che gli pone molti interrogativi. Nella figura di Nicodemo, Dobraczyński ha voluto tratteggiare la coscienza dell'uomo moderno, i suoi dubbi, le sue fatiche, le sue attese, tutti quegli aspetti contraddittori dell'animo umano: dagli entusiasmi ingenui alle piccole viltà di fronte al porsi imponente di Gesù e della sua pretesa di unica salvezza per gli uomini. La ricostruzione dell'ambiente è precisa, infatti il romanzo non è solo frutto della sensibilità e fantasia dello scrittore, ma si avvale anche di ricerche bibliche precise e circostanziate.
Il momento della Passione di Cristo inizia ad essere narrato dalla ventunesima lettera, quando Nicodemo riferisce della cena in casa di Lazzaro, nella quale Maria versa olio profumato sui piedi di Gesù. Qual è il ritratto che Nicodemo (Dobraczyński) fa di Gesù all'alba della sua cattura? "… egli (ndr. Gesù) sembra non riconoscere alcun ordine prestabilito. Ora, gli uomini devono seguire determinate regole… egli pretende che ogni norma sia subordinata a un unico comandamento che egli ritiene invariabile e che deve essere osservato a spese di tutti gli altri: quello della carità…"; continua ancora il protagonista, riferendo del colloquio con Gesù, il quale lo invita con insistenza,"Dammi le tue pene!", " Egli è proprio solamente una debole creatura umana, vado pensando da tre anni; tuttavia sono convinto che in lui ci sia anche qualcosa di ben diverso...".In questa stessa lettera svela che fu sua la casa in cui il Maestro chiese di mangiare la cena di Pasqua con i suoi discepoli, l'ultima; e sempre in questo contesto, a seguito degli avvertimenti di Nicodemo sul malumore dei Giudei riguardo a Gesù, l'autore dà un accenno ai temperamenti così diversi e caratteristici degli apostoli: "«Il Maestro non ha nulla da temere. Se qualcuno tentasse aggredirlo l'avrà da fare con me!» (ndr. Pietro) Svolse un pacco che teneva sotto il braccio e mi mostrò con aria trionfante due spade dalla lama corta e larga… «Queste possono sempre servire!» disse con tracotanza…".Grazie poi al racconto di Giacomo, che corre ad avvisare Nicodemo dell'arresto di Gesù, lo scrivente può riportare tutte le parole dette dal Maestro nella cena con i suoi più intimi e dei fatti capitati nell'orto, un espediente per nulla artificioso, ma carico di dramma e intensa umanità.
"Perché non è fuggito, lui che tante volte si è miracolosamente sottratto alla vista dei suoi ammiratori?... un Messia che rifiuta di vincere, è la fine della fede nel Messia. E se egli ne fosse semplicemente incapace? Allora egli non sarebbe il Messia. Che cosa è meglio: saper che abbiamo sbagliato o comprendere che la fede stessa è una illusione?": questi e molti altri pensieri turbano Nicodemo, turbano in quel frangente i suoi discepoli e turbano anche noi talvolta, forse troppo spesso.
Nicodemo viene con urgenza convocato per una riunione straordinaria del sinedrio; il sommo sacerdote, Caifa, vuole processare Gesù: "Che dolorosa impressione provai nel vederlo con le mani legate sul dorso, i fianchi cinti da robusta cintura ferrata, munito di corde per mezzo delle quali si può trascinare il prigioniero senza toccarlo!... il suo mantello e la sua veste erano laceri e sporchi, bagnati e macchiati di fango. Aveva i capelli spettinati e i piedi sanguinanti. Il suo viso però, per quanto esprimesse una immensa tristezza, era perfettamente calmo. Il suo portamento tranquillo, ma nello stesso tempo dignitoso e risoluto…". Nicodemo è timoroso e un po' titubante, non osa difendere pubblicamente Gesù, che pure ha seguito; ha più coraggio Giuseppe d'Arimatea, anche lui membro del sinedrio, che contrasta con pacatezza l'odio e la virulenza dei testimoni prezzolati.
L'affermazione culminante di Gesù, quella della sua «pretesa» divinità sconcerta tutti, Caifa si straccia le vesti, Nicodemo disorientato si chiede: "Chi è egli in realtà?... ma chi è egli veramente?... vidi il suo bel viso insudiciato dagli sputi, il capo cinto per scherno da una corona di paglia, le mani ancora legate dietro la schiena… era un uomo gettato al fondo d'ogni umana miseria; un mendicante, un lebbroso, un infermo, un prigioniero, ed ognuno di questi volti era raccolto nel suo viso… ma come difendere, come proteggere un disgraziato che la propria debolezza ha reso quasi – come devo dire?- ripugnante?"Scorrono come in un film le scene di Pietro in pianto per il suo rinnegamento, la liberazione di Barabba tra le grida del popolo, Pilato livido di rabbia trattenuta per lo scacco che sta subendo. Gesù è oggetto di baratto tra due poteri e viene impietosamente flagellato: "… provai una acutissima stretta al cuore e una pena indescrivibile. Grondante sangue, con la fronte cinta da una corona di spine, un manto scarlatto, gettato sulle spalle per derisione della regalità di cui si vantava, Gesù era l'immagine stessa del dolore".
Il braccio di ferro tra romano ed ebrei va a favore di questi ultimi, che ottengono per il Cristo la pena capitale. Il mesto corteo si incammina verso il Golgota: "... camminavo, inciampando spesso e tenevo gli occhi bassi. Vidi così sulle lastre del selciato l'orma insanguinata di un piede... il suo corpo ormai non era più che una piaga, dal capo forato dalle spine, ai piedi feriti dalle pietre appuntite e taglienti..."Gesù viene inchiodato e Nicodemo da lontano può vederlo lentamente morire: "...Il Maestro pendeva sullo sfondo del cielo grigio-azzurro: il corpo si tendeva come volesse staccarsi dalla croce; i carnefici gli avevano stirato tanto violentemente le braccia nell'inchiodarle, che il petto, inarcato all'estremo, non poteva appoggiarsi all'indietro; soffocava, aveva il volto livido, le vene del collo gonfie da scoppiare. Io non potei sopportare oltre quello spettacolo orribile... Arrivai ai piedi della croce, riconobbi Giovanni... Maria teneva lo sguardo fisso verso l'alto, impietrita dal dolore. Appoggiava la mano al legno della croce e sulle sue dita colavano dall'alto delle gocce di sangue... i piedi di Gesù erano all'altezza dei miei occhi e li vedevo appoggiati uno sull'altro e trafitti da un lungo chiodo, con le dita irrigidite, convulsamente tese"

Cristo dà un ultimo grido e muore tra il silenzio attonito dei presenti; presto è calato dalla croce, deposto nel sepolcro. Tutto pare finire: i grandi taumaturghi che hanno potuto tanto per gli altri, alla fine per se stessi non possono nulla, conclude con amarezza Nicodemo. Ma fatti imprevedibili sconvolgono il muto scetticismo di questo dottore della Legge, tanto da esserne lui stesso testimone mentre è in viaggio per Emmaus con Cleofa: Gesù fa un tratto di strada con loro e alla fine si fa riconoscere.

L'ultimo testo che proponiamo, e che ci pare adeguata conclusione del nostro itinerarium crucis èMorte di Adamo (1956) [2] di Elena Bono (1921), una delle più grandi scrittrici del Novecento italiano. Si tratta di una serie di racconti biblici che, come scrive Giovanni Casoli "vivamente, plasticamente espressionistici e realistici che attirarono le antenne sensibili di Emilio Cecchi e l'editoria europea, specie anglosassone, con molte traduzioni in varie lingue, e grande successo."Lo stesso Gioanola, in una riedizione della sua Storia della letteratura italiana, così si esprime "… (racconti) di argomento biblico, ma non riproponenti variazioni su episodi del Vangelo, quanto piuttosto vere e proprie invenzioni traenti spunto da questi episodi. C'è una straordinaria intensità stilistica, che riesce a far vivere davanti agli occhi le scene come se accadessero al momento."Proprio questo ci pare il pregio e lo stigma dei racconti di Morte di Adamo: rendere presente, contemporaneo il crudo tormento del Cristo nei giorni che culminarono con la sua crocefissione, fino allo stemperarsi, non meno drammatico, dei fatti relativi alla sua misteriosa resurrezione.
Il tessuto narrativo si dipana in otto racconti: Morte di AdamoPiccolo AbiLa figlia di GiairoLa suocera di PietroIl centurioneGuardia al sepolcroLa moglie del ProcuratoreUna lettera dalla Giudea, in apparenza autonomi, di fatto uno necessario all'altro, per quella concatenazioni di fatti e prospettive che vertono sul Protagonista, per lo più evocato dal ricordo o presente in fugaci e suggestive apparizioni.
La grande, solenne, metastorica ouverture di Morte di Adamo vede il diretto confronto di Dio ed Adamo, il Creatore e la creatura ormai sazia di anni e morente alla presenza dei suoi discendenti. Nel drammatico colloquio, dove viene rievocato l'assassinio del giusto Abele per mano di Caino, Dio conclude con una promessa: "… darò nelle tue mani mio figlio, l'agnello di Dio senza peccato… Egli prenderà sopra di sé i tuoi peccati e in Lui farò giustizia del pianto e del sangue…".Così il tempo annunciato giunge e si condensa per rapidi lampi in quei pochi giorni gravitanti attorno alla Pasqua: Giovanni e Tommaso alla ricerca della casa dove il Signore vuole consumare la Pasqua con i suoi, la sua ultima Pasqua (Il piccolo Abi); lo scandalo e lo scompiglio tra i parenti di Giairo per il miracolo della piccola resuscitata, Talita, che vive assorta nell'attesa che Lui ancora ritorni; lo sconcerto delle donne di Cafarnao alla notizia che il Rabbi è stato ucciso e la delusione rabbiosa di Rachele, suocera di Pietro.
Ma il ritmo diventa incalzante e ansimante ne Il centurione: la sete di sangue della soldataglia romana e il rumoreggiare sempre più accanito della plebe di Gerusalemme fanno da contrappunto al silenzio del Cristo, carne martoriata, tanto da essere chiamato per scherno lo Straccio. Tra l'Uomo e la folla impazzita sta il centurione, che non si capacita, lui romano difensore del diritto e della giustizia, di quella palese ingiustizia perpetrata ai danni di un innocente. Eppure il comportamento di quell'uomo ridotto ad un ammasso di carne sanguinante inquieta il centurione, quell'uomo non sta subendo tutti quei terribili colpi, quell'uomo li sta cercando: "… te cosa sei?... ci sei venuto di proposito al macello. Perché? Che scopo c'era?... ma tu non sei matto. Andiamo: perché ti fai ammazzare? Ti vuoi far ammazzare, è chiaro... ordini, amico, o se ne danno o se ne eseguono. Da chi li hai presi tu? Chi è il tuo capo, il tuo re, quello che sia?... per conto di chi sei venuto? Da dove? A far che? Gabbare il mondo. Sentiamo: cos'è che gli racconti alla gente?... t'abbaiano tutti dietro; come si spiega tutti?..."
La tensione del racconto vede il suo climax nella scena dell'«Ecce homo»: "«Ecco l'uomo»… stava sulla terrazza, accanto alla toga bianca, l'uomo, una corona di spini calcata sugli occhi, un cencio rosso sulle spalle, una canna fra i polsi legati. Della faccia, solo la bocca gonfia tra i capelli grondanti sangue..." e poi piano trova un doloroso quanto illuminante epilogo nelle ultime frasi "… (il centurione) Fece per alzare la frusta su tutte quelle facce ridenti (ndr. quelle dei soldati che si avventano sull'inerme Gesù). Ma guardò l'uomo e l'uomo lo guardò …".
La fine di Gesù non è la fine della narrazione; la Bono rivive poi, alternando ai toni epico-tragici dei primi racconti quelli comico-grotteschi di Guardia al sepolcro, i misteriosi momenti della resurrezione del Cristo, un evento più suggerito che raccontato.
Suggella Morte di Adamo il lungo racconto La moglie del Procuratore, in cui l'autrice scava nell'animo di Claudia Procula, moglie di Ponzio Pilato. La donna, in un serrato dialogo con Seneca, rievoca i fatti della Passione di Gesù, in mille dubbi e domande, in un alternarsi di certezze e speranze in cui la saggezza della cultura classica è passata al setaccio della folle stoltezza del Figlio di Dio, morto per amore degli uomini. Tra i tanti brani che si potrebbero citare, pena però smarrire il filo conduttore di tutta la narrazione, ne proponiamo due in cui Claudia, dopo molte ricerche, ha rintracciato il centurione che ha comandato l'esecuzione del Nazareno, e che le racconta altri particolari di quella crocefissione: "… abbassò il viso (ndr. Il centurione) che gli era divenuto di un rossore scuro e disse che lui aveva portato il Galileo a crocifiggere. Non era stato che un eseguire gli ordini, gli osservai (ndr. Il colloquio è con Claudia Procula)..mi rispose che infatti aveva eseguito degli ordini; ma non era soltanto questo che doveva rimproverarsi; era quello che ci aveva messo di suo. Rimasi così stupita e anche spaventata che non seppi cosa dire. Mi raccontò tutto lui spontaneamente, da quando aveva visto l'uomo in aula di giudizio, mentre veniva interrogato. Non mi disse che il Procuratore l'aveva trovato innocente. Glielo dissi io. Egli alzò gli occhi a guardarmi e assentì con la testa. "Mi fu consegnato da flagellare, "disse,"e scendemmo insieme la scalinata. Era un uomo alto e grande, ma non faceva nessuna resistenza. Veniva giù con me, come di sua volontà. Lo consegnai a un decurione e io che non sono fuggito mai in vita mia, quella volta fuggii come un vigliacco per non vederlo flagellare; mentre se c'ero, non lo riducevano a quel modo, che pareva una fontana di sangue… Ho visto morire molti uomini, signora, "mi rispose, "e nessuno ha detto mai quello che ha detto lui. Solo Dio può perdonarci tutti e solo il figlio di Dio poteva domandarglielo." Gli ribattei che era un controsenso essere figlio di Dio e morire…"Le cose non stanno così, signora", mi disse, "io chiamo vinto uno che non ce l'ha fatta ad arrivare dove voleva. Ma lui è arrivato." "A una croce, centurione?" "Lo hai detto. Signora. E per lui non era solo questione di vincere la paura che abbiamo tutti... Lui la sera prima aveva fatto sbattere i nostri a faccia a terra… Siamo cattivi, signora, lo vedo io nelle caserme: o bestie o poltroni… nessuno al mondo poteva mettersi tutto sulle spalle. Solo lui… ha aspettato di essere al colmo del patire, per fare lo scambio, e il padre riprenderselo come noi glielo avevamo ridotto, tutto sangue, e lui strappargli il suo compenso. E il primo che s'è guadagnato così, è stato un ladro, appeso vicino a lui… pur vero che, con tutto che era un ladro e che lo vedeva morire come lui su un trave, è stato il primo a capire che quello era figlio di un Re e da dove veniva e dove tornava. Quando morirò, signora, voglio dirgli anch'io così che si ricordi di me, del centurione che stava sotto la croce…"

[1] Jan Dobraczyński, Lettere di Nicodemo, Brescia, 1991
[2] Elena Bono, Morte di Adamo, Recco (Genova), 1988