sabato 19 aprile 2014

La Passione nelle "Vite di Gesù"



“Il suo volto non è il volto dei pittori. È un volto duro, ebreo. Non lo vedo ma insisterò a cercarlo fino al giorno dei miei ultimi passi sulla terra”.In questa frase di Borges si condensa perfettamente l’interrogativo sulla persona e la vita di Gesù, una domanda che Gesù, fin dall’inizio del suo pubblico manifestarsi, ha suscitato nei suoi ascoltatori, una domanda che si è drammaticamente amplificata con il passare del tempo: tutti, antichi e moderni, saggi o ignoranti, occidentali o di altre culture, imbattendosi nel “fenomeno Gesù” e nella sua pretesa divina non possono che giungere alla domanda “chi è costui?”
In questa sede, viste le dimensioni e le implicazioni di tale questione, vogliamo proporre solo alcune riflessioni nate in margine alla lettura di alcune contemporanee opere letterarie sulla Passione di Cristo, il momento in cui, più drammaticamente che in altri, emerge la persona di Gesù e la domanda sulla sua misteriosa identità.

*

"Storia di Cristo" di Giovanni Papini

Per comodità più che per spirito di classificazione, iniziamo il nostro percorso da alcune Vite di Gesù, forse tra le più note, scritte nell'ultimo secolo.
Giovanni Papini (1881-1956) [1], nel 1921, a seguito della sua conversione, scrisse Storia di Cristo, opera che ebbe molta risonanza perché fu pubblicizzata come l'esito della vicenda intellettuale ed esistenziale di un artista, fino a quel momento, vivacemente dissacratore della tradizione e della religione.
La vita di Gesù, presentata per brevi capitoli, inizia con una lunga presentazione, nella quale Papini spiega i motivi del suo scritto e i suoi intendimenti nel proporre un argomento così contro-corrente.
Ne riportiamo alcuni brani. "… Cristo, invece è sempre vivo in noi. C'è ancora che l'ama e chi l'odia. C'è una passione per la passione di Cristo e una per la sua distruzione… Nessun tempo fu, come questo, tanto diviso da Cristo e così bisognoso di Cristo. Ma per ritrovarlo non bastano i vecchi libri… Le vite di Gesù destinate ai devoti esalano quasi tutte un non so che di mucido e stantio che respinge, fin dalle prime pagine, il lettore avvezzo a più delicati e sostanziali pasti…"Dopo tali premesse l'autore presenta cosa l'uomo di oggi desidera incontrare: "… un libro vivo, che renda più vivo Cristo, il sempre vivente, con amorosa vivezza, agli occhi dei vivi. Che lo faccia sentir presente, d'una eterna presenza, ai presenti. Che lo raffiguri in tutta la sua vivente e presente grandezza – perenne epperciò anche attuale – a quelli che l'hanno vilipeso e rifiutato, a coloro che non lo amano perché non hanno mai veduto la sua vera faccia…" A questo punto Papini può "giustificare" la sua opera di laico già miscredente per credenti e miscredenti, un'opera quindi accreditata dalla vicenda passata del suo stesso autore: "… un libro siffatto l'autore del presente non pretende d'averlo fatto lui, benché confessi di averci pensato spesso: ma per lo meno ha tentato, per quanto arrivavano le sue capacità, di accostarsi a quell'idea… pur tenendomi fedele alle parole delle Rivelazione e ai dogmi della Chiesa Cattolica s'è studiato, talvolta, di ripresentare quei dogmi e quelle parole in modi diversi dai soliti, con uno stile violento d'opposizioni e di scorci, ravvivato da termini crudi e risentiti, per vedere se l'anime d'oggi, avvezze ai pimenti dell'errore, potessero svegliarsi ai colpi della verità…" L'autore stesso, quindi, motiva l'uso di un linguaggio violento, quasi ad invettiva, proprio per risvegliare alla Verità la coscienza addormentata dei lettori moderni.
Non ci soffermiamo sui capitoli relativi all'infanzia e alla vita di Gesù, ne proponiamo invece alcuni tratti dal secondo tomo sulla passione, morte resurrezione del Cristo.
Tutti gli autori, e Papini compreso, si interrogano in particolar modo su Guida Iscariota (Ishkarioth), sul mistero del suo tradimento, soprattutto sulle motivazioni di tale azione ignobile. 
Ma chi è in realtà Giuda, che personalità si nasconde nelle parole lapidarie della Scrittura?
Papini presenta un ampio ventaglio di ipotesi, ma non ne abbraccia alcuna: "… Il mistero di Giuda è legato a doppio nodo al mistero della Redenzione e rimarrà per noi miseri un mistero"; ma poi aggiunge "… se Gesù non fosse stato venduto sarebbe mancato qualcosa alla perfetta ignominia dell'espiazione…", quindi Giuda non solo è traditore, ma è colui che ha venduto, barattato a basso prezzo un uomo, l'Uomo; Giuda fu un venditore di sangue.
Dopo aver descritto in più capitoli l'ultima cena, l'autore si addentra nel vivo del racconto evangelico con l'agonia di Gesù nell'orto degli ulivi. Solo Papini presenta questo momento come una seconda tentazione del Cristo, dopo quelle che egli subì nel deserto prima della sua vita pubblica "… ora, in questo nuovo deserto, in questa tenebra dove Gesù è solo, spaventosamente solo… Satana torna ad insidiare il suo nemico… L'altra volta gli prometteva le grandezze dei regni….ora ricorre al contrario: spera nella sua debolezza…".
Papini accenna solo a questo profondo tormento del Cristo, poi si ritrae, quasi impaurito da tanto suo ardire "… il racconto di questa notte è il mistero di Gesù. Il mistero di Giuda è il solo mistero umano dell'Evangelo, la Preghiera del Getsemani è il più imperscrutabile mistero divino della storia di Cristo."
Ora il Cristo in questa lotta con le Tenebre gronda sangue, "suda per tutta la persona… il sangue che ha promesso agli uomini comincia a versarlo sull'erba del Monte degli Ulivi." La lotta che Gesù affronta è il diretto confronto tra arbitrio ed obbedienza, cioè tra arbitrio e vera libertà: "la volontà abdica nell'ubbidienza che sola assicura la libertà universale. Non è più un uomo ma l'Uomo; l'Uomo tutt'uno con Dio, una cosa sola con Dio: voglio quello che vuoi."Inquietante la descrizione che viene fatta di Anna (Hanan) e di Caifa (Cajafa, soprannome che ha diverse assonanze con Cefa, fa notare Papini): uomini senza scrupoli, più attenti agli intrighi di potere che alla religione dei Padri, più interessati ai risvolti politici della predicazione di questo sedicente messia che alle sue parole.
Con Giuseppe Cajafa, Pietra, appare anche Simone Cefa, Pietra nel momento culminante del suo tradimento e del successivo, desolato pentimento al canto del gallo, raccontato dallo scrittore con toni lirici e struggenti: "… quel canto ilare e baldanzoso fu per Simone come il grido che sveglia di colpo l'assopito da un incubo; Come il ricordo improvviso di un discorso udito in un'altra vita, come il ritorno alla casa della puerizia, all'orto mattiniero, disteso fra il lago e le campagne, come una voce da tanto tempo dimenticata che illumina una vita come un lampo la notte. Allora si poté vedere, nell'incertezza dell'albore, un uomo che andava via come un ubriaco, col capo nascosto nel mantello, e le spalle scosse dai singhiozzi d'un pianto disperato".Sono numerosi i capitoli che Papini dedica alle torture inflitte a Gesù, ben otto, quasi volesse raccontare in tempo reale, attimo per attimo, la sofferenza fisica e spirituale del Cristo. I toni sono realistici, forti, impietosi sia nel tratteggiare giudei, romani che lo stesso Gesù sotto il peso dei tormenti.
Il consiglio ebreo che giudica il Signore è un canile di spettri; i giudei sono vecchi, massicci, nasuti, arcigni, cipigliosi, chiusi nei manti bianchi, le teste coperte da un panno, le barbe carezzate e reverenziali, gli occhi pugnaci. Il Cristo in questo consesso, "sempre colla fune annodata ai polsi spinto in mezzo a codesto canile", pareva il condannato ad bestias negli anfiteatri romani; Egli tace e i suoi silenzi sono gravi di una soprannaturale eloquenza che ha il potere di invelenire i suoi giudici. Tutto ciò fino alla domanda diretta di Caifa, alla quale Gesù non può non rispondere perché per quella suprema testimonianza è venuto.
I gaglioffi del Tempio prendono in consegna Colui che con le sue stesse parole si è condannato:"l'uomo bestia, quando è certa l'impunità, non conosce più bel sollazzo di questo: sfogarsi contro l'inerme, con maggior gusto quando l'inerme è innocente…", poche parole che bastano a farci comprendere le bestialità cui fu oggetto l'Innocente per eccellenza.
Un altro personaggio di questo dramma è Ponzio Pilato, il procuratore romano: se da principio il giudizio che Papini da su di lui pare abbastanza attenuato, poi però non gli risparmia le sue incapacità, i suoi tentennamenti, o meglio, l'essersi mosso per ragion di Stato e non per amore di Verità: "Pilato, a forza di stratagemmi, di rinvii, d'indolenti interrogazioni, di mezzi termini e mezze misure, di titubanze, di risoluzioni maldestre e ringoiate, di mosse mal eseguite, si trovava ora precipitato lentamente dove non sarebbe voluto cadere…". Unica nota luminosa e positiva Claudia Procula, la moglie del procuratore, che la Chiesa orientale venera come santa, poiché si è mossa a favore di Gesù.
Terribile il capitoletto Un re incoronato, per la crudezza di descrizione, per la violenza trattenuta a stento dalle parole nel suggerire le flagellazione.
Il triste corteo con il condannato a morte procede alla volta del Calvario "… in cima alla callotta del Teschio le Tre Croci, alte, scure, colle traverse aperte, come giganti pronti all'abbraccio, campeggiano sul gran cielo amoroso di primavera. Non gettano ombre ma sono orlate dalle riverberazioni scintillanti del sole. È tanta la bellezza del mondo, in quel giorno, in quell'ora, che non sembra possibile pensare ai tormenti; non si potrebbe, quell'antenne di legno, fiorirle con fiori di campo e sospendere, dall'una all'altra, festoni di foglie nuove, mascherate i patiboli con muraglie di verdura e sedere all'ombra, fratelli riconciliati e benevoli, per tutta la siesta?...". Stupiscono questi squarci lirici che frammezzano la narrazione dell'orrore, dell'odio degli uomini verso il Cristo, eppure Papini sceglie di procedere così: allenta la tensione di un narrare serrato con la calma e la tranquillità di questi paesaggi interiori.
Con quattro chiodi, impietosamente, Cristo è conficcato alla croce tra il clamore dei suoi avversari e il silenzioso compianto delle donne, della madre e di Giovanni. Accanto a lui soffre Dismas: "… in un impeto di fede, come se invocasse la comunanza di quel sangue che grondava nello stesso momento dalle sue mani di criminale e da quelle mani d'incolpevole, proruppe in queste parole: Gesù, ricordati di me quando verrai nel tuo Regno!"
"Il respiro di Gesù si faceva sempre più rantolante… Il cielo, ch'era stato limpido tutta la mattina, quasi improvvisamente si oscurò… Cristo è morto. È morto sulla croce come gli uomini hanno voluto, come il Figlio ha scelto e il Padre accettò. L'agonia è finita e i Giudei son contentati. Ha espiato fin all'ultimo ed è morto. Ora comincia la nostra espiazione – e non è ancora finita."
.
I capitoli conclusivi rivivono, con commozione intensa in cui balena la medesima esperienza trasfigurante dell'autore neo-convertito, gli episodi che dalla resurrezione si dipanano fino all'ascensione di Cristo al Padre. Veramente degna di nota, a nostro avviso, è la preghiera finale, nella quale si condensa tutta la fede ardente di Papini: "Abbiamo bisogno di te, di te solo, e di nessun altro. Tu solamente, che ci ami, puoi sentire per tutti noi che soffriamo, la pietà che ciascuno di noi sente per se stesso… Ma noi, gli ultimi, ti aspettiamo. Ti aspetteremo ogni giorno, a dispetto della nostra indegnità e d'ogni impossibile. E tutto l'amore che potremo torchiare dai nostri cuori devastati sarà per te, Crocifisso, che fosti tormentato per amor nostro e ora ci tormenti con tutta la potenza del tuo implacabile amore." 

[1] Giovanni Papini, Storia di Cristo, Firenze, 1945

*


"Vita di Gesù" di Francois Mauriac

Quando Mauriac (1885-1970) decide, nel 1936, di scrivere la sua Vita di Gesù [1] ha cinquant'anni, è famoso da molto tempo ed è anche riuscito ad uscire dal ghetto di una letteratura particolare, imponendosi come voce di uno spirito inquieto e tormentato.
Il pregio e la diversità di questa vita di Gesù rispetto ad altre è quella di aver considerato il Cristo come il personaggio-chiave della tragedia umana; quindi il Gesù di Mauriac non viene né dai libri di indagine storica, che avevano avuto molta diffusione negli anni della sua gioventù, né dai manuali di pietà; è un libro che viene dalla vita e che ci propone quel personaggio misterioso che d'improvviso ci troviamo accanto nei momenti di maggior abbandono, di desolazione e disperata solitudine. Carlo Bo, nell'introduzione all'edizione italiana curata per Mondadori, così precisa: "Il compito che si prefigge è, questo, di non strapparlo all'ombra che limita il nostro quotidiano, di non vederlo né come Dio né come un cuore santo ma – caso mai – di vederlo come un nostro sosia dotato del segreto della verità, carico di un dato di carità che sa trasformare il "nodo di vipere" che rappresenta il cuore dell'uomo in offerta, in amore, in segno di partecipazione."
Sono brevissimi i capitoletti che narrano la vita di Cristo, quasi sospiri, accenni, appunti discreti per suggerire e non esaurire il mistero dell'Uomo-Dio che muore per la salvezza degli uomini.
Dal XXIII con Il convito in casa di Simone ha inizio la settimana di passione di Gesù.
Mauriac focalizza l'attenzione su Maria, sorella di Lazzaro, che spezza il vaso d'unguento profumato sui piedi del Signore: "… Un solo cuore, sollecitato dall'amore, indovinava in quell'uomo coricato, in Gesù, una creatura stanca di correre, un cervo sfinito, errante di rifugio in rifugio. La lampada non ha più olio (la lampada del suo corpo). Sola rimane a Gesù la forza di sopportare e soffrire. È facile immaginare lo sguardo che si scambiano quella santa fanciulla e il Figlio dell'uomo. Gli altri non vedono nulla. Ma egli sa che Maria ha compreso, mentre il vaso d'alabastro si spezza e spande il suo profumo…"
Il racconto si concentra poi sull'ultima cena, quando sta per svelarsi il traditore, Giuda: "… nessuna bravata: senza dubbio egli non sapeva ancora: esitava. Una lotta in fondo al suo essere lo strazia, lotta disperata, nel peggior senso, e che tanti cristiani conoscono: quando l'anima ferita a morte, si dibatte sapendo che alla fine dovrà soccombere. Questo Gesù, Giuda l'ha amato, e ancora l'ama, forse, malgrado gli scacchi, il suo rancore, il suo desiderio di non rimaner solidale col più debole…"Anche per lo scrittore francese la notte nel Getsemani è fondamentale nella vicenda terrena di Gesù; in quel luogo il Signore combatte una lotta terribile: "… ha paura: conviene ch'eglisperimenti la paura. L'odor del sangue lo fa rabbrividire; egli prova quel terrore della bestia… ogni essere umano, a certe ore del destino, nel silenzio notturno, ha conosciuto l'indifferenza della materia cieca e sorda. La materia schiaccia il Cristo. Egli prova nella sua carne l'orrore di quella assenza infinita. Il Creatore si è ritirato, e la creazione non è più che un fondo di mare sterile: gli astri morti coprono la distesa. Echeggiano, nell'oscurità, dei gridi di belve divorate…"Mauriac pone poi un serrato confronto tra il tradimento di Giuda e quello di Pietro: il volto già gonfio e livido per le percosse incontra lo sguardo di Pietro, "l'apostolo contemplava con stupore quella faccia già enfiata dai colpi di pugno. Nascose la propria nelle mani, e appena uscito sparse più lacrime che non avesse versate da che era al mondo"; Giuda è ucciso dal rimorso, dopo aver toccato la soglia della perfetta contrizione si abbandona alla disperazione, "… finché sussiste nell'anima più aggravata un barlume di speranza, ella non è separata dall'amore infinito che per un sospiro. Ed è il mistero dei misteri che questo sospiro il Figlio di perdizione non l'abbia esalato."
I giudei, Pilato, Erode, Barabba… tutto è presentato in un soffio. Con un marcato realismo Mauriac descrive la crocefissione e l'agonia del Signore: "Ecco ilo momento più atroce: lo strappo della stoffa incollata alle piaghe, i colpi di martello sui chiodi, l'erezione dell'albero, il peso del frutto umano, la sete spenta con aceto e fiele, e la nudità, la vergogna di quella misera carne… O rifugio della piccola Ostia!"
D'un battito, dopo aver ricordato che le ultime parole del Cristo sono di fiducioso abbandono a Dio (salmo 22), quell'abbandono già deciso con il sangue nell'orto degli ulivi, Mauriac è al mattino di Pasqua, una sera di primavera, l'odore della terra calda bagnata… e quando, qualche settimana più tardi, Gesù si toglie dal gruppo dei discepoli, sale e si dissolve nella luce, non si tratta d'una partenza definitiva. Già egli è imboscato, alla svolta della strada che va da Gerusalemme a Damasco, e spia Saul, il suo diletto persecutore. D'ora innanzi, nel destino di ciascun uomo, vi sarà questo Dio in agguato." 

[1] François Mauriac, Vita di Gesù, Milano, 1993

*


"Una vita di Cristo" di Luigi Santucci

Questa vita di Cristo di Luigi Santucci (1918-1999), uscita nel 1969 [1] con il titolo Volete andarvene anche voi?, traduce con suggestiva poesia i passi della vita terrena del Salvatore.
Nota dominante di quest’opera, come ebbe a dire lo stesso scrittore, è la poetica della gioia: “La poesia propone e consegna praticamente la felicità quotidiana. Nel mondo della poesia non esistono infelici…” ed infatti la traduzione che Santucci fa del Vangelo non ha la freddezza della ricostruzione storica, bensì la felicità della reinvenzione poetica e della testimonianza di una personale adesione di fede (… in queste pagine ho scelto di accostare il messia quasi da testimone fisico; a volte dal di dentro di Lui e altre dal di dentro di me. Fra i tanti modi possibili di narrare questa storia mi sono pertanto arbitrato di sceglierli e associarli tutti, adottando quell’esauriente pluralismo e quella coesistenza di piani da cui la narrativa d’oggi sembra – del resto ritrovandosi proprio sui modi della narrativa evangelica – non poter più prescindere…)I capitoli portanti del libro, sette in tutto, sono a loro volta suddivisi in brevissimi paragrafetti aperti da una frase del Vangelo; noi ci addentriamo nel capitolo La Passione.
Proprio all’inizio, per alcune pagine, Santucci soffermandosi sull’ultima cena, evidenzia il desiderio di umiliazione ed abbassamento di Cristo sia nel lavare i piedi ai discepoli, sia nel nascondersi nel pane consacrato; un’umiliazione che tiene conto della carnalità umana, la accondiscende quasi per farsi povero tra i poveri, ultimo tra gli ultimi: “questo è il mio corpo… lo mangino, poco fa si è contaminato con la loro corporeità fangosa, lavando loro i piedi,… adesso vuole fare di più: scenderà nelle loro gole, si mescolerà, sino a trasformarsi, con le loro mucose, si scioglierà a poco a poco in tutte le loro fibre… occorre che egli rimanga con l’unica cosa di noi che veramente conosciamo e cui attacchiamo il cuore e la memoria: il corpo…”Impressionanti le riflessioni che l’autore fa a proposito di Giuda. Egli non è una marionetta, un vuoto personaggio da tragedia, Giuda può essere ognuno di noi, “Giuda è stato uomo come io sono uomo: Non peggiore, non più peccatore di me…”. Si affatica Santucci per tentare di immedesimarsi nello stato d’animo dell’Iscariota in quella notte del giovedì santo, in modo ansioso, affaticato, convulso, quasi che il ritmo serrato delle frasi ci suggeriscano i moti tempestosi del cuore.
L’agonia di Gesù nell’orto degli ulivi, anche per il nostro autore, è un momento essenziale di riflessione: Cristo sta tra due silenzi, il silenzio e il sonno degli uomini, i suoi amici e il silenzio incombente di Dio. Proprio nell’oscurità del giardino Gesù riceve la prima ferita: il bacio di Giuda segna l’inizio della Passione e della profonda sofferenza psicologica del Cristo. Dopo quel bacio seguono schiaffi, pugni, bastonate, dileggi, dapprima da parte dei suoi, poi da parte dei romani invasori. A ordire tutto sono “due turbanti”, Anna e Caifa: “La crocefissione di Gesù, lucida come un teorema e senza rimorsi, si è svolta già tutta sotto questi due turbanti, dal primo colpo di frusta alla stoccata della lancia.”Prima di giungere alla figura di Pilato, che qui parla in prima persona dalle pagine di un suo diario, Santucci ci offre le sue riflessioni sul tradimento di Pietro: “… il primo sangue è sgorgato nell’orto… il primo singhiozzo si leva… Cristo se ne va e gli lascia quest’ultimo dono. L’amara dolcezza di piangere, l’ebbrezza della vergogna e del pentimento: quel gorgo benedetto d’infanzia che sono le lacrime e i singhiozzi e che non ci fa puri ma per qualche divino istante sinceri, gonfi di ricordi e speranze: che ci libera dal presente (ecco cos’è il pianto) che non sia quel benefico sussultare del petto. Pietro piange sul suo passato di uomo, dalle più remote colpe di ragazzo a quest’ultima infamia…”
Diario ai posteri di Ponzio Pilato
 è sicuramente una delle più interessanti invenzioni del libro di Santucci quella di far parlare in prima persona uno dei più controversi protagonisti della Passione di Gesù. In queste righe, quasi lettera ai posteri per spiegare le proprie decisioni (o forse per giustificarsi o riabilitarsi), Pilato si presenta quale romano amante della filosofia, non particolarmente incline al sangue, ma nemmeno tenero ed emotivo, attento però ai sogni della moglie, che ha doni di preveggenza e profezia. Pilato confessa di essere affascinato da questo ebreo che i capi dei giudei vogliono far fuori… ma nonostante tutto i capi del popolo ebraico sono più furbi di lui e gli estorcono la condanna a morte, mentre “dalla piazza saliva quel grido bestiale che scuoteva le fondamenta del palazzo: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!»Mentre Gesù ora, caricato della croce si avvia al patibolo, non è che “ un fantoccio tartassato
dal furore del male, straziato da un odio senza logica e senza responsabili, maledizione e vittima.”
Cristo è inchiodato sulla croce, lentamente muore sotto lo sguardo dei suoi nemici, dei suoi carnefici e di poche presenza amiche che non lo hanno abbandonato, tra esse la madre e il discepolo prediletto. Affida la madre a Giovanni e Giovanni alla madre: alla sesta ora, morente, Gesù rimane orfano, ci ha donato tutto: la sua vita e chi gli ha dato la vita, sua madre. 

[1] Luigi Santucci, Una vita di Cristo, Cinisello Balsamo (Mi), 1995

*


"Vita di Gesù" di Ferruccio Parazzoli

Ultimo testo di questa prima serie è Vita di Gesù [1] di Ferruccio Parazzoli (1935); lo stesso scrittore presenta così il suo tentativo: “Dopo aver scritto molti libri e molte storie, ho deciso di affrontare il rischio di raccontare, ancora una volta, i fatti e le parole dell’uomo chiamato Gesù… sul racconto di come Gesù è nato, vissuto, morto e risorto, ci sono intere biblioteche, volumi di indagine storica e libri di pietà. Ho provato a dimenticarli per ritrovare quel Gesù uomo e Dio di strada, nostro fratello e nostro sosia, ma dotato del segreto della vita, che da duemila anni ripete a chiunque lo incontri:«Fermati. Sono io colui che tu cerchi»“Dopo un breve prologo, dove Parazzoli sintetizza i Vangeli dell’infanzia di Gesù, il volume è costituito da due sezioni: Il Redentore e Il Risorto, a sua volte suddivise in numerose brevi capitoletti; ci soffermiamo sull’ultimo della prima sezione Gerusalemme. Processo e morte.
Con acutezza, proprio per rendere concreta dopo duemila anni la morte di Gesù, l’autore segna con date i giorni della Passione, iniziando dal mercoledì 5 aprile (Fra due giorni sarà Pasqua). Il giovedì 6 aprile ha luogo l’ultima cena: tutti i dialoghi del Vangelo sono ritradotto con espressioni a noi più vicine e famigliari, proprio in un moto di avvicinamento e abbassamento che l’autore intende perseguire. Il dialogo è serrato, intenso, le parole di Gesù sono il testamento, il patrimonio di grazia che lascia in eredità ai suoi che, in quel frangente, non capiscono, tanto che, di lì a poco, nell’orto si addormenteranno lasciandolo completamente solo.
Si snoda veloce la narrazione, Parazzoli quasi parafrasa il testo sacro, lesinando per pudore osservazioni e riflessioni proprie… fino alla bella conclusione, in cui viene riportato interamente il salmo che Gesù, nell’atroce sofferenza sulla croce, accenna con il primo versetto “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” 

[1] Ferruccio Parazzoli, Vita di Gesù, Milano, 1999