Cresce la disoccupazione a livelli record mentre si abbassa la popolazione giovanile: è un paradosso solo apparente perché in realtà è proprio la denatalità a mettere in moto un circolo vizioso che distrugge l'economia di un popolo. La priorità assoluta in questa condizione sarebbe un forte e chiaro sostegno alla famiglia naturale, l'unica in grado di garantire il concepimento, la nascita e l'educazione dei figli. E invece i nostri politici da una parte si stracciano le vesti per i dati sulla disoccupazione, e dall'altra sono impegnati a sostenere il divorzio breve, che costituirà un altro duro colpo alla stabilità dell'Italia.
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Disoccupazione? Colpa della denatalità
Nei giorni scorsi ha fatto molto rumore l’ultimo rilevamento dell’Istat in materia di lavoro: in febbraio il tasso di disoccupazione in Italia è salito al 13%, un record storico, che equivale a 3 milioni 307 mila disoccupati, 272 mila in più rispetto all’anno precedente. Se consideriamo che nel 2013 già si erano persi 585 mila posti di lavoro rispetto al 2012, si capisce quanto la situazione sia grave, «sconvolgente» secondo il presidente del Consiglio Matteo Renzi. A pagare maggiormente sono i giovani alla ricerca di prima occupazione che sul totale dei disoccupati contano per circa il 20%.
Su queste cifre abbiamo sentito e letto fiumi di commenti, quello però che è stato completamente ignorato è l’apparente paradosso della situazione, visto che i giovani che si affacciano sul mercato del lavoro sono in costante diminuzione. Ad esempio nel 2002 i giovani compresi tra i 20 e i 29 anni erano 7.626mila, il 13,4% dell’intera popolazione italiana, nel 2013 erano scesi a 6.338mila, il 10,6%. Insomma in undici anni l’Italia ha perso la bellezza di un milione e 300mila giovani, con una diminuzione di 3 punti percentuali sulla popolazione. Dati questi anche più drammatici della disoccupazione, ma che danno appunto l’idea del paradosso.
Insomma, come mai con una diminuzione così drastica della popolazione giovanile ci sono anche meno posti di lavoro per i giovani? Sembrerebbe un non senso, soprattutto dopo decenni di propaganda neo-malthusiana con cui ci hanno fatto credere che con la diminuzione della popolazione si sta tutti un po’ meglio.
In realtà il paradosso è soltanto apparente, e ci sembra tale proprio per quel martellamento che ha portato gli italiani a non fare più figli (un trend che dura ormai da quasi 50 anni) pensando così di aumentare il benessere. I dati che abbiamo sotto gli occhi in realtà ridicolizzano l’assunto che sta alla base delle politiche anti-nataliste, ovvero l’idea che ci siano risorse fisse – e ovviamente conosciute – che si dividono per il numero dei commensali: quindi, meno siamo più ce ne è per tutti. Non è così: le risorse non sono una quantità fissa offerta dalla natura, ma dipendono dal genio umano che con la sua creatività sa sfruttare ciò che la natura gli mette a disposizione. Basti pensare alle risorse energetiche, la cui disponibilità e costo dipende da nuove fonti scoperte o dalle migliorate capacità estrattive o di uso di vecchie fonti. Oppure all’industria tessile, dove ottimi tessuti sintetici creati in laboratorio hanno soppiantato lana e cotone. E via di questo passo.
A maggior ragione il sistema economico-industriale dipende dalla disponibilità di nuove risorse creative. Soprattutto oggi che l’innovazione è sempre più veloce: l’invecchiamento della forza lavoro significa tra l’altro avere una minore incidenza di quella fascia di giovani lavoratori in grado di proporre e realizzare idee nuove e vincenti. In termini di competitività delle nostre aziende è un disastro. Per non parlare delle ripercussioni sulle piccole imprese familiari, che costituiscono il motore dell’economia italiana: i profitti vengono investiti nell’azienda se ci sono dei figli che poi porteranno avanti l’impresa (creando così nuovi posti di lavoro). Ma se i figli non ci sono, per chi investire? E se non si investe, i posti di lavoro non solo non aumentano, ma si perdono. E ancora: i giovani sono anche quelli che consumano maggiormente beni durevoli, come le case, le automobili. Come si può pensare che non vada in crisi l’industria dell’auto e che non crolli il mercato immobiliare se in appena dieci anni si perde 1 milione e 300mila potenziali acquirenti, il 18% di un’intera fascia di età?
Il paradosso dunque è solo apparente, perché siamo entrati in un circolo vizioso destinato a proseguire per molto tempo anche se ci fosse una sterzata improvvisa. Che comunque è indispensabile, se per l’Italia vogliamo avere un futuro. La sterzata significa porre la questione della natalità come una priorità assoluta della nostra politica economica, come del resto fece la Francia dopo la Prima Guerra Mondiale, che costò la vita a 1.400 mila suoi giovani: non a caso oggi la Francia ha ancora gli istituti demografici più importanti d’Europa.
Non si tratta di chiedere “premi” per la natalità, ma anzitutto eliminare quelle discriminazioni e quegli ostacoli che disincentivano nuove nascite. E soprattutto di rafforzare l’unico istituto che è l’ambiente ideale per concepire, far nascere ed educare le nuove generazioni: la famiglia. E’ chiaro infatti che la denatalità va di pari passo con la disgregazione della famiglia (il crollo delle nascite non è forse iniziato con la diffusione della contraccezione e l’introduzione del divorzio?). Rafforzare la famiglia naturale dunque – fondata sul matrimonio tra uomo e donna – dovrebbe essere la prima preoccupazione di un governo e di un presidente del Consiglio che si dichiara sconvolto dai dati sulla disoccupazione. E invece cosa succede? Che addirittura tutti i partiti in Parlamento si danno da fare per approvare il divorzio breve (vedi articolo a fianco), durissimo colpo alla rilevanza della famiglia nella società, così come la promozione degli stili di vita omosessuali. Insomma abbiamo una classe dirigente – specchio della società che la esprime, peraltro – schizofrenica, che da una parte si straccia le vesti per la disoccupazione e dall’altra promuove leggi e costumi che faranno peggio.
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Divorzio breve, immediata infelicità
E Gesù disse a Giuda: «Quello che devi fare, fallo al più presto». Ovviamente non era un invito a tradirlo il prima possibile, bensì un ultimo e forte appello alla sua coscienza affinchè questa si ridestasse a ben più sani propositi. In Parlamento invece sono convinti che il male anticipato sia meglio di quello che tarda a venire. Stiamo parlando delle proposte di legge sul divorzio breve, in lunga gestazione dal lontano 2008. Ben sei giacciono sul tavolo del Parlamento e recano il simbolo un po’ di tutti i principali partiti politici: Pd, Ncd, FI, M5S, Sel e Psi.
Mercoledì scorso è iniziata la discussione sul testo che forse raccoglierà più consensi, proposta siglata da Alessandra Moretti del Pd e dal forzista Luca D’Alessandro. Non più tre anni per ottenere il divorzio dal momento in cui inizia la separazione, bensì solo dodici mesi che si riducono a nove se i coniugi sono entrambi consenzienti e non ci sono figli minori. Il periodo si accorcia ancor di più rispetto al passato dato che questi mesi decorrono dal momento in cui si presenta la domanda e non da quando i due litiganti si sono presentati davanti al giudice.
Perché dare torto a questi politicanti che si affannano a dividere i coniugi? Tra i porporati di Santa Romana Chiesa c’è chi vuole snellire le pratiche per ottenere la dichiarazione di nullità matrimoniale facendo investigare penitenzieri vari e dunque come stupirsi che anche nel secolo ci sia chi vuole tumulare il matrimonio il prima possibile? I cadaveri, si sa, mandano cattivo odore.
Il divorzio breve – che ha ricevuto così tanta attenzione da meritarsi da parte dei Radicali anche la realizzazione di un sito apposito – è un’ottima cartina tornasole per comprendere il Dna di quel processo rivoluzionario che negli ultimi decenni si sta dispiegando in interiore homine.
La prima caratteristica di questo processo è il famigerato fenomeno del piano inclinato: fessurata la parete di una diga, prima o poi tutta la diga crollerà. Da queste colonne avevamo già indagato sul tema – si leggano “Divorzio breve: agonia radicale” e “Matrimonio (breve) all’italiana” – mettendo in evidenza che tali iniziative parlamentari formalmente contraddicono un quadro legislativo che in linea molto teorica è orientato alla tutela del vincolo matrimoniale e parimenti orientato a scoraggiare attentati alla sua indissolubilità. Formalmente, ma non sostanzialmente. Vogliamo cioè dire che il divorzio breve è l’esito prevedibile delle premesse contenute nella legge sul divorzio (lungo) del 1970: accettata la possibilità di divorziare, poi i tempi per ottenere il divorzio sicuramente si sarebbero accorciati. Nel 1989 gli anni che dovevano trascorrere erano cinque, ora tre, domani uno e dopodomani salterà addirittura lo stesso istituto della separazione (così preconizza Diego Sabatinelli, segretario della Lega italiana per il divorzio breve). In modo analogo è avvenuto per altri temi: ottenuto l’aborto chirurgico questo ha filiato quello chimico; ottenuta la fecondazione omologa questa sta aprendo la porta all’eterologa; se passerà il testamento biologico avremo l’eutanasia anche del paziente non consenziente; incassato il “Sì” alla legge sull’omofobia di conserva libero accesso alle “nozze” gay.
Una seconda caratteristica del processo rivoluzionario sui temi di morale naturale è l’aspetto ideologico- elitario: questo tipo di battaglie culturali non partono dalla base, ma cadono dall’alto attraverso un piano di orientamento della coscienza collettiva. Come già scrivevamo qualche anno fa “a leggere i dati Istat del 2012 si scopre che un sorprendente 40% delle separazioni pronunciate nel lontano 1998 al 2010 non sono sfociate in divorzio. Per quale motivo? Una minima parte sicuramente per impicci burocratici e giuridici di varia natura, ma per la maggior parte non c’è interesse a mettere la parola ‘fine’ con tanto di timbro dello Stato alla propria relazione. Sia perché i coniugi quasi ex ritengono sufficiente le garanzie proprie della separazione, separazione che di fatto è già vissuta come divorzio, sia perché vivono il rapporto di separazione in modo liquido. Spesso cioè non si vuole definire la rottura, si desidera tenere una porta aperta – non di rado a tempo indeterminato - ad un futuro e possibile ricongiungimento. A volte dunque smettere per sempre ufficialmente i panni di ‘coniuge’ viene percepito come un doloroso strappo della coscienza da rimandare il più possibile”. Insomma il divorzio breve non è sentito come esigenza dal popolino.
Così come i “matrimoni” gay di certo non sono voluti dalla maggioranza delle persone omosessuali: infatti dove lo Stato li ha legalizzati si registra a lungo andare un flop gigantesco. A margine: curioso che si sudino sette camicie per far passare il divorzio breve e se ne sudino altrettante per far “sposare” i gay. In altri termini, ci si impegna per rompere un legame che non si può rompere e per saldare un legame che non può venire ad esistenza. Contraddizione solo apparente: il minimo comun denominatore è infatti la lotta alla legge naturale.
Un altro tratto di questo processo di sovvertimento dell’ordine morale naturale è dato dall’attacco alla famiglia. Aborto, contraccezione, fecondazione artificiale, eutanasia sono anche poderosi colpi d’ariete all’istituto familiare. Così pure e prima di tutto, come intuitivo, il divorzio. Anzi è a causa del divorzio che poi – anche cronologicamente – si sono diffuse altre pratiche perniciose. Distruggi questa cittadella fortificata che si chiama matrimonio e i nemici avranno facile accesso all’interno della sue mura ormai in macerie per spargere i semi di idee inique.
Il divorzio uccide la felicità dei coniugi e dei figli. In merito ai primi, il lettore avrà notato che quando si dà notizia di un femminicidio nove volte su dieci si sta parlando di un ex: un ex coniuge o un ex fidanzato. La rottura del vincolo non è la soluzione ai problemi ma ingenera problemi (Cfr. F. Agnoli – M. Luscia, “Chiesa, sesso e morale”, Sugarco).
Inoltre, come scrive Giacomo Samek Lodovici (“Questioni di vita e di morte”, Ares), “su un campione di persone le quali consideravano infelice il proprio matrimonio, cinque anni più tardi il 64% di coloro che erano rimasti insieme ha dichiarato che il loro matrimonio era poi diventato molto felice, mentre si dichiarava felice solo il 19% di coloro che avevano divorziato e si erano risposati (L. Waite – M. Gallagher, “The Case for Marriage”, Doubleday). E se gli sposati soffrono di disturbi psicologici nel 2% dei casi, i divorziati incorrono in questi disturbi tre volte più spesso (C. Schoenborn, “Marital Status and Health: United States, 1999-2002”, «CDC» 15-2004)”. Il divorzio poi non fa bene nemmeno al portafogli. La prestigiosa Heritage Foundation ha pubblicato un rapporto sul legame famiglia e povertà negli USA dal titolo “Matrimonio: la migliore arma negli Stati Uniti contro la povertà infantile”. Si scopre che le famiglie monoparentali costituiscono il 71% delle famiglie povere e viceversa il 73% delle famiglie che vivono al di sopra della soglia di povertà è costituito da coppie sposate con figli. Nel 2011 sono stati spesi in aiuti in programmi federali e statali per le famiglie ben 450 miliardi di dollari, di cui 330 solo per famiglie monoparentali.
In merito ai figli di genitori divorziati molti studi ci informano poi che, rispetto ai figli di genitori sposati, i primi hanno probabilità superiori di ottenere cattivi risultati a scuola, di contrarre malattie psicosomatiche e di essere depressi, di assumere comportamenti antisociali e di avere problemi nelle relazioni amicali.
Prima i coniugi arriveranno al divorzio e prima questo vaso di Pandora si scoperchierà. Il vero nome del divorzio breve è dunque infelicità istantanea.