giovedì 17 aprile 2014

Una bella storia


Ci sono storie potenti che crescono piano piano, nel silenzio, nell’umiltà, non di rado grazie alle avversità e nonostante esse. Finché, piano piano, la luce che ne promana, viene vista da qualcuno, e allora la voce si sparge, perché “lì c’è qualcosa di bello, di grande, di vero”. Mi riferisco alla storia di Casa Betlemme, una realtà di fede e di speranza che sorge in quel di Arezzo, e che ha come fondatrice Flora Gualdani (nella foto, in Cambogia), la persona che verrà premiata quest’anno, il 3 maggio, presso l’Ateneo Regina Apostolorum di Roma, nel tradizionale convegno che precede la marcia per la vita.
Flora è una di quelle creature che la Provvidenza suscita sempre, anche nei momenti bui, e che si sentono prese per mano come protagoniste di un progetto che non è loro, e che decidono di servire con quella pazienza, quel nascondimento, quella forza che derivano solo, appunto, da ciò che si vive gratuitamente, nella fede soprannaturale. Non importa chi mi segue; non importa se non sarò compresa; se troverò l’ostilità del mondo e non di rado anche di persone della Chiesa cui io stessa appartengo. Immagino si sia detto questo, tante volte, con semplicità, senza rancore, senza presunzione, questa ostetrica che nel lontano 1964, durante un viaggio in Terra Santa, nella grotta di Betlemme, vide chiaramente, come dirà lei stessa, che la “questione procreatica” sarebbe diventata “epocale e drammatica” e che l’uomo, per non autodistruggersi, dovrà tornare a “genuflettersi davanti al Creatore” e al “mistero dell’Incarnazione”.
Dopo la Terra Santa, l’incontro con una donna malata di cancro, che non vuole abortire neppure davanti al consiglio insistente dei medici. Flora, che la accoglie nella sua casa, capisce che quell’incontro, come altri che seguiranno, non è casuale, ma il modo in cui Dio rivela i suoi disegni: era tutto in qualche modo già scritto nella sua vita, segnata sin da bambina dal desiderio di diventare, un giorno, ostetrica. Poi il brevetto di elicotterista -perché non si sa mai dove si finisce, nell’aiutare gli altri-, e i viaggi in Cambogia, in India, in Africa… sempre con la stessa missione. Durante il conflitto in Bosnia, scrivono alcuni amici, parte per “togliere dallo stupro etnico un gruppo di donne, portandole con sé”. Ma mentre “gira per il mondo, il mondo comincia ad arrivare a casa sua. Le bussano alla porta gestanti in difficoltà, sono gli anni della legge 194”. Così Flora, spinta dalle circostanze, trasforma il campo che l’amato padre le lascia in eredità, in un luogo di accoglienza: qualche casetta per le gestanti e una stalla che diviene cappella. Flora assiste le donne gravide; strappa alla morte tanti bambini; getta con tenerezza olio sulle ferite delle donne che hanno abortito e di quelle che soffrono l’infertilità.
Scrive: “L’ambulatorio ostetrico è uno speciale confessionale laico, e dopo mezzo secolo so che la donna è indotta all’aborto non tanto da motivi economici ma soprattutto dalla paura di sentirsi sola. Quindi ciò che conta è che la donna si senta amata, non lasciata sola. La donna che si sente amata non abortisce. Lo dico per esperienza. Deve sentirsi preziosa a motivo di quel suo stato interessante, che deve essere “interessante” per la società intera, perché l’utero gravido è tabernacolo che dà futuro alla storia. Davanti ad una gestante dovremmo sempre genufletterci riconoscenti”.
Ma il suo impegno non è solo questo. Il motto che sceglie per la sua casa è eloquente: ora, stude et labora. Non c’è solo un grande lavoro di cuore e di mani, da fare. Occorre capire come mai la donna occidentale dimentichi sempre più di essere “femmina, madre e sposa”; occorre andare alla radice della rottura del progetto di Dio: per riconciliare l’uomo e la donna; la madre e il figlio; la donna con il suo corpo; la fede e la scienza; la procreazione con la sessualità… Negli anni dell’Humanae Vitae Flora prende la sua cinquecento e va a Roma, da padre Häring, per capire i motivi della sua opposizione. Il dotto moralista non riuscirà a convincerla, e Flora proseguirà imperterrita nel penetrare il senso profondo di questa enciclica e della visione antropologica sottesa. Conoscerà, con gratitudine, Lejeune e i coniugi Billings, la ginecologa Cappella e i cardinali Sgreccia e Caffarra, e nel 2005, incontro per lei provvidenziale, l’oggi cardinale Gualtiero Bassetti.
Non senza toccare con mano, d’altra parte, “due tipi di derive ecclesiali: l’angelismo disincarnato e il relativismo disobbediente”. Proprio sull’Humanae vitae, Flora ha scritto, recentemente: “L’Humanae vitaecontiene un messaggio di ecologia umana che non ha confini religiosi o culturali e ha già abbattuto molti muri: forse non tutti sapete che Madre Teresa ha portato i metodi naturali tra le bidonville di Calcutta con grande successo…Oppure che nella Cina comunista il metodo Billings da anni è stato adottato dal ministero della sanità come alternativa alla contraccezione (e alla sterilizzazione coatta), e lo usano felicemente oltre tre milioni e mezzo di donne. I primi ripensamenti stanno arrivando anche dal mondo femminista. Eppure tanti alti prelati continuano a dire che si tratta di una proposta di nicchia, di un ideale bello ma astratto”. Il Foglio, 17 aprile 2014