giovedì 17 aprile 2014

Missa in coena Domini: Omelia di Enzo Bianchi

Tempera su tavola  - Maestà, Siena

Cari fratelli e sorelle, cari amici,
con questa liturgia tentiamo di entrare nel mistero pasquale, il mistero della nostra salvezza che riviviamo in questi tre giorni santi della passione, morte e resurrezione di Gesù.
È soprattutto l’ascolto della Parola che ci permette di partecipare a questo mistero: la lettura dell’Esodo (Es 12,1-14), la memoria eucaristica di Paolo (1Cor 11,23-32) e il vangelo della lavanda dei piedi (Gv 13,1-15) ci narrano alcuni aspetti della Pasqua del Signore, e noi nella nostra povertà di anno in anno cerchiamo di scrutarli, di conoscerli un po’ di più, per poter passare dalla conoscenza all’amore del Signore, dalla conoscenza alla vita, al realizzare quotidianamente ciò che ci viene rivelato.
Il mistero pasquale mi appare sempre di più inesauribile, e sempre di più ho coscienza della mia inadeguatezza alla ricezione e alla trasmissione di questa parola del Signore. Ma convinto come sono che ciò che deve essere fatto, deve essere fatto bene, ancora una volta questa sera cerco di spezzare la Parola in mezzo a voi. E guardando, in un esercizio di discernimento sempre precario, a ciò che è più urgente per la nostra comunità, sosto sulla seconda lettura, sul passo di Paolo riguardante l’eucaristia. Mi fermo solo su alcune parole, senza la pretesa di commentare l’intero brano. Ma sono precisazioni urgenti e comunque decisive!
* * *
Innanzitutto l’Apostolo ricorda ai cristiani che l’azione che essi compiono al cuore delle loro comunità è un’azione che lui ha ricevuto dal Kýrios, dal Signore, e che lui ha trasmesso a loro, cristiani di Corinto. Ha ricevuto un’azione che viene dal Signore stesso! Non è un’azione che la chiesa si è data o che qualcuno ha normato: no, è un’azione ricevuta dal Signore e che perciò sempre deve essere trasmessa ai credenti in lui.
“Nella notte in cui Gesù fu consegnato, tradito”, dunque nella notte del tradimento, del non riconoscimento, dell’abbandono da parte di tutti i discepoli, proprio a loro Gesù consegnò questo gesto e queste parole. Gesto e parole: ecco l’eucaristia, ecco il memoriale che si riceve e si trasmette nel servizio apostolico alle chiese. Nella notte in cui tutto sembra contraddire l’alleanza, Gesù celebra la sua alleanza con i suoi. Dovremmo meditare, cioè dovremmo accogliere in tutta la sua verità scandalosa questo contesto del dono dell’eucaristia: “la notte in cui fu tradito”, non perché era l’ultima notte ma perché era la notte in cui Gesù subiva il tradimento, la ferita più grave che un uomo può subire.
Proprio in quella notte in cui veniva tradito – e lo ripetiamo ogni volta che ne celebriamo il memoriale – Gesù vuole fare una cena, un pasto di alleanza con i suoi discepoli. Ha voluto, ha progettato questo pasto, “ha desiderato ardentemente di mangiarlo con i suoi” (cf. Lc 22,14), proprio come pasto di alleanza. Per questo tutto il pasto è riassunto nel rito del pane e nel rito del vino, in un parallelismo che genera un grande significato. Pane e vino, elementi essenziali del pasto giudaico, assumono un significato che trascende la loro materialità: non è solo per mangiare e per bere che Gesù ha voluto quel pasto, anche il pane e il vino restano il cibo di cui si ha bisogno e la bevanda della gioia.
Per questo Gesù “prese il pane, rese grazie (eucharistésas) e lo spezzò (éklasen)”: Gesù rende grazie, cioè dice una parola di benedizione a Dio, e nella lode, nella benedizione, nel ringraziamento a Dio spezza il pane. C’è qui l’essenziale: il pane è preso nelle mani, ricevuto, accolto;
si riconosce che viene da Dio, che è un suo dono;
lo si spezza: ecco la frazione del pane.
Così il pasto è un’azione dell’uomo credente che riceve, ringrazia e condivide. Il pane lo si riceve, ma per “romperlo”, per condividerlo, perché sia distribuito a tutti i convitati, che così condividono lo stesso pane. Ecco costituita la comunità della tavola, di quelli che partecipano allo stesso pane, che dunque sono koinonóie formano una koinonía. Ma questo pane condiviso – dichiara Gesù – “è il mio corpo per voi”: cioè, mangiando di questo pane, ci si nutre tutti dello stesso cibo, si vive tutti la stessa vita che è la vita stessa di Gesù, quella di cui il suo corpo è manifestazione realissima. Fino a essere un solo corpo, il corpo di Cristo, il corpo di cui Cristo è il capo e i suoi sono le membra. Questo è il dinamismo eucaristico reale e profondo, di fronte al quale le nostre preoccupazioni sulla presenza reale rimangono non solo inadeguate, ma anche svianti, poco intelligenti.
Proprio ripetendo questo gesto e queste parole, come gesto e parole di Gesù, da quella sera del tradimento fino al suo ritorno nella gloria si continua questa dinamica spirituale in cui noi diventiamo il suo corpo e lui, il Risorto vivente, il Kýrios, è vita in noi. L’eucaristia è questo, non altro! È essere alla tavola del Signore, nella quale lui “spezza” e ci dà “la sua vita”, così come spezza il pane. E non si dimentichi che quella sera Gesù ha “spezzato il pane” per dodici discepoli che lo tradivano, lo rinnegavano, lo abbandonavano, come prima aveva “spezzato il pane” con gli amici a Betania, con i peccatori a casa loro, con le folle che andavano da lui e capivano poco di ciò che lui diceva e faceva. Gesù ha spezzato il pane con ogni sorta di commensali: è così!
Ma Paolo, dopo aver fatto memoria del primo rito eucaristico, ci ricorda in parallelo il secondo: “Allo stesso modo … prese il calice, dicendo: ‘Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue. Fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me’”. Le parole sul calice approfondiscono la vita comunitaria, la koinonía, indicata dal pane spezzato, perché precisano che questa vita è nell’alleanza. Ciò che la tradizione di Gerusalemme, secondo Marco e Matteo, attesta: “Questo è il mio sangue dell’alleanza” (Mc 14,23; Mt 26,27), è detto in modo chiaro dalla tradizione antiochena seguita da Luca (Lc 22,25) e da Paolo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue”. Qui appare il termine qualificato da un aggettivo: “nuova alleanza”. L’alleanza tra Dio e Israele era stata rotta – “Questa alleanza, la mia alleanza, voi l’avete infranta!” (cf. Ger 31,2) –, e per questo Dio ne aveva promessa una nuova (cf. Ger 31,31) che proprio Gesù inaugura: quel calice che Gesù ha tra le mani è la nuova alleanza nel suo sangue. Ormai per entrare nell’alleanza con Dio occorre fare parte dell’alleanza nuova, nel senso di ultima e definitiva, l’alleanza siglata nel sangue di Gesù. Quel calice, grazie alla parola efficace di Gesù, contiene il suo sangue, identificato con l’alleanza nuova, e bevendo tutti da un unico calice si diventa comunità in alleanza.
Potremmo dire, parafrasando Paolo: “Poiché c’è un solo calice, noi comunichiamo alla stessa vita, perché beviamo a un unico calice”. Il sangue è la vita, e Gesù la vita l’ha spesa in un sacrificio esistenziale, non rituale, donandola a Dio e ai fratelli. Nel calice non c’à solo il sangue della passione e morte del Signore, ma c’è tutta la vita di Gesù; non c’è solo l’atto puntuale della morte di Gesù, ma c’è tutta la sua vita umana che è stata un sacrificio esistenziale, vita di servizio, di cura, di “amore fino alla fine” (cf. Gv 13,1) dei suoi fratelli e delle sue sorelle. Ricordiamo come la Lettera agli Ebrei ha letto il sacrificio di Cristo: “Venendo nel mondo Gesù dice (a Dio): ‘Non hai voluto né sacrificio né offerta, … non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato, perché non ti piacevano. Allora ho detto: Ecco, io vengo … per fare, o Dio, la tua volontà’” (Eb 10,5-7; cf. Sal 40,7-9).
È questo il sacrificio esistenziale: tutta la vita, significata dal sangue che è la vita di ogni uomo. Dunque la koinonía è alleanza nuova e definitiva, “alleanza eterna”, dirà ancora la Lettera agli Ebrei (Eb 13,20). Paolo non precisa che questo sangue dell’alleanza è “versato per la remissione dei peccati” (Mt 26,27), “versato per le moltitudini” (Mc 14,24), “versato per voi” (Lc 22,20), ma ciò è sottinteso, perché dove c’è alleanza c’è remissione dei peccati.
L’eucaristia è dunque questa comunione in alleanza nella quale ciascuno di noi resta con la propria responsabilità. Il Signore la offre a tutti e la dà a tutti: a Giuda, a Pietro, ai discepoli… Ognuno sappia che “mangia e beve la propria condanna”, se accetta il dono, ma del dono non sa che farsene o lo rifiuta.